di P.Giovanni Cavalcoli,OP
Vorrei qui presentare brevemente la teologia di Lutero non tanto per i suoi contenuti quanto piuttosto per il suo metodo, ossia: che vuol dire, per Lutero, far teologia? Egli, come si sa, era dottore in teologia approvato dal suo Vescovo e teneva molto a questa sua qualifica. Lutero ha sempre avuto un’alta stima della teologia e la riteneva sicura fonte di verità nell’interpretazione della Sacra Scrittura, come sorgente di predicazione e nel regolare la vita del cristiano, tanto che ai famosi “sola” del Riformatore (sola gratia, sola fides, sola Scriptura) si potrebbe aggiungere, senza tema di falsificare il suo pensiero: “sola theologia”. “Sola”, in quanto Lutero si rifiutava di legare la teologia alla filosofia o alla metafisica. Tutto il pensare cristiano per Lutero si deve riassumere nel teologare. Se di filosofia si può parlare, questa dev’essere comunque teologia e teologia cristiana o della salvezza.
Qui Lutero assomiglia a S.Giustino, che diceva: “La mia filosofia è Cristo”, benchè poi di fatto Giustino, formato nella filosofia greca, non intendesse con ciò abbandonare l’ideale filosofico, come ricerca della sapienza, solo che intendeva dire che la vera e più alta sapienza non si trova nella ragione ma nella fede. Da qui non il rifiuto globale della filosofia greca, ma la sua purificazione alla luce del Vangelo e la sua subordinazione alla Parola di Dio, anche in vista del dialogo con i pagani, i quali, non disponendo del dono della fede, tuttavia, in quanto esseri umani, erano chiamati ad apprezzare l’universalità della ragione anche in teologia.
Invece in Lutero, come è noto, si riscontra una violenta ed incessante polemica contro la speculazione filosofica, la metafisica di Aristotele e di S.Tommaso e contro la ragione, che egli chiamava “puttana del diavolo”. Lutero era convinto che il suo teologare non fosse influenzato da premesse filosofiche, ma discendesse direttamente ed esclusivamente dal suo studio della Bibbia. “La mia coscienza – ebbe a dire in una famosa dichiarazione alla Dieta di Worms, nel 1521, quasi ad enunciare il programma e il metodo di tutto il suo pensiero teologico – è prigioniera della Parola di Dio”.
Era convinto di essere sempre e comunque un puro specchio di questa parola e guai a chi lo contraddiceva: “del Papa e dei Concili – egli aggiunse – non ho fiducia, perché essi sono evidentemente fallibili”. Lutero invece non sbaglia. E famosa resterà la sua dichiarazione secondo la quale da allora in poi ogni cristiano aveva la facoltà di contraddire in nome della Scrittura l’insegnamento di qualunque Papa e di qualunque Concilio. Egli si sentiva come un liberatore dall’errore nel campo della verità cristiana. Il teologo si sostituiva al Magistero della Chiesa.
Ma anche Lutero si rendeva conto, tutto sommato, che è impossibile affrontare l’interpretazione della Bibbia senza presupposti razionali o filosofici, o, come si dice oggi, senza una “precomprensione” o un dato “orizzonte di comprensione” extrabiblico o, per così dire, prebiblico. Per questo non si peritava di dire che egli seguiva la corrente di Guglielmo di Ockham. Ed infatti si nota bene nel suo teologare l’impostazione occamistica di tipo accentuatamente volontaristico e soteriologico, nella quale Dio, in forza della sua libertà ed onnipotenza, appare come un despota arbitrario che può dichiarare vero il falso e bene il male e viceversa, mentre il mistero delle sue decisioni è avvolto da una tenebra così fitta che risulta assolutamente ostica anzi contraria alla ragione. Dio appare, secondo una famosa espressione di Lutero, “sub contraria specie”.
Tutto ciò si riflette con chiarezza nel teologare luterano, il quale non ha per nulla il carattere della serena speculazione, come avveniva nei teologi e nei santi medioevali, che si beavano della contemplazione degli attributi del Dio Uno e Trino salendo le scale dell’essere ed anche quando trattavano del mistero della Croce – e quanto ne parlavano! – l’atmosfera intellettuale era sempre limpida, senza torbidezze ed agitazioni, ma improntata a una nobile pacatezza e coerenza dottrinali.
Invece Lutero deride questo loro atteggiamento: “I nostri monaci – egli dice – sono una triste razza, senza esperienza delle cose di Dio. Con le loro speculazioni pretendono di salire al cielo e di dissertare su Dio considerato in se stesso. Il popolo di Israele non si rovinava in simili speculazioni (1). Sotto pena di morte, noi dobbiamo fuggire questo Dio–in–se–stesso. La natura umana e Dio in se stesso, senza Gesù Cristo, sono dei nemici selvaggi”(2).
Viceversa, per Lutero l’oggetto della teologia non è l’indagine su Dio mediante la ragione o la fede, un Dio contemplato ed amato in se stesso e per se stesso, anche a prescindere dall’uomo e dal creato, ma un’indagine che guarda innanzitutto all’uomo, anzi al mio io, sia pur nella luce di Dio: “Il soggetto proprio della teologia è l’uomo reo di peccato e Dio che giustifica ed è il salvatore dell’uomo peccatore”(3).
Per Lutero il Dio nascosto, il Dio in se stesso, è il Dio della ragione; ed è il Dio dell’Antico Testamento nella sua maestà dispotica, severa ed imperscrutabile, non ancora incarnato in Gesù Cristo – quello che Hegel chiamerà “il Dio astratto” -. Questo Dio non interessa a Lutero, lo spaventa e gli fa orrore. Il Dio che interessa Lutero è solo il Dio misericordioso del Nuovo Testamento, che egli però concepisce come perdonante anche nonostante il rimorso della coscienza che denuncia il peccato. Ma qui interviene l’opposizione tra la “verità” della ragione o della coscienza e quella della fede, la quale mi dice che comunque sono perdonato, nonostante il no della coscienza.
Ma così appare evidente che la pace assicurata dalla teologia luterana non è una vera pace, perché si fonda su di una fiducia in Dio che è forzata, in quanto non basata su ragionevoli motivi di coscienza, ma su di una “fede” che dice il contrario di quanto la coscienza sente tormentosamente. Per questo possiamo dire che al fondo della speranza luterana resta una sottile incancellabile disperazione, perché questo Dio che “perdona” è pur sempre un Dio che, se non è più quello dell’Antico Testamento, tuttavia è sempre un Dio che non è in continuità con la ragione, un Dio che dichiara ciò che la ragione non s’attende, per cui, se da una parte Lutero predica la tranquillità davanti al giudizio divino, dall’altra, a causa del suo Dio che contraddice alla ragione, non può togliere del tutto l’angoscioso timore che Dio in punto di morte non ti respinga nonostante tu ti senta la coscienza a posto. Il Dio della “misericordia”, poiché resta sempre un Dio che smentisce la ragione, resta sempre il Dio di Ockham, arbitrario ed irrazionale, che può continuare a “gettare in una terribile disperazione”(4).
Lutero tenta di difendersi da questo Dio con le seguenti disperate parole: “Se Dio stesso apparisse nella sua maestà e dicesse: non sei degno della mia grazia, ho cambiato decisione e non mantengo quanto ti ho promesso, a questo punto non dovrei cedere, ma dovrei combattere asperrimamente (acerrime) contro Dio”(5). Con quale prospettiva? Con quale risultato? Per credere ugualmente nella sua misericordia? Ma ha senso tutto ciò? Ma poi come è possibile concepire un Dio che non mantiene le promesse? Dove va a finire lo sbandierato Dio misericordioso? Ecco il risultato della teologia occamista di Lutero, una teologia che non ha nulla a che vedere non solo con una sana teologia naturale, ma neppure con la vera teologia biblica.
Quando ci si pone con un tale arruffato groviglio di concetti in un simile rapporto con Dio e per giunta con un Dio così concepito, ci si può domandare se siamo ancora nella teologia o ai limiti della psicopatologia, per cui non mi pare che ci sia troppo da meravigliarsi se a questo punto una persona normale sia tentata, davanti a un simile “dio”, di farsi atea e non sorprende eccessivamente che l’ateismo più feroce di tutta la storia del pensiero (Marx e Nietzsche) siano nati proprio nella Germania luterana.
Quanto al metodo della teologia, esso, per Lutero, non è il sillogismo, il ragionamento: “Quando si tratta di termini che riguardano Dio (in terminis divinis) nessuna forma sillogistica può reggere”(6). “Le premesse sono vere, ma la conclusione è falsa, … certo non per un vizio della forma sillogistica, ma in forza della maestà della materia, la quale non può essere racchiusa nelle ristrettezze della ragione e dei sillogismi(7). … Negli articoli di fede si deve esercitare l’affetto della fede, non l’intelletto della filosofia”(8).
Se una proposizione di fede è filosoficamente contradditoria, ci dice Lutero, va tenuta ugualmente “e le dispute filosofiche che concludono il contrario vanno considerate come il gracchiare delle rane”(9). Non si fa teologia ragionando, ma “è per delle esperienze vissute, è morendo e condannando tutto che si diventa teologi, non per delle conoscenze libresche e delle speculazioni intellettuali”(10). In una parola: “Soltanto la Croce è la nostra teologia”(11). E’ poi quella che Lutero chiama “theologia crucis”, in opposizione alla “theologia gloriae”, che egli attribuisce agli scolastici ed al cattolicesimo, la quale pretendendo a suo dire di scandagliare con la ragione la maestà divina, rimane da essa schiacciata.
Ciò che è vero per la ragione è falso per la fede. La fede è “scandalo” per la ragione. Si deve pensare che ciò che per la ragione è menzogna, per la fede è verità. Bisogna dunque “credere nella verità contro la menzogna, contro la verità manifesta, bisogna credere nella verità nascosta”(12). La verità della ragione è per la fede falsa apparenza. Ma perché questa opposizione della ragione alla fede? Perché della ragione non ci si deve fidare?
Perché Lutero quando parla della “ragione” intende sempre la ragione ribelle, sofistica ed orgogliosa conseguente al peccato originale, principio non del libero ma dello schiavo arbitrio. In tal senso egli ha anche ragione. Ma il guaio è che egli non prende mai in considerazione la ragione sana, onesta, limpida ed umile che è pur sempre necessaria per fare della buona teologia, ed il cui esempio sommo è certamente la teologia dell’Aquinate, che però purtroppo Lutero disprezzava.
In tal modo agli occhi della ragione luterana Dio si contraddice. Ma proprio in ciò per Lutero consiste il mistero oggetto della teologia: “La contraddizione è una tentazione, giacchè Dio stesso contraddice a se stesso; ciò per la carne è impossibile da intendere. Infatti necessariamente essa pensa così: o Dio mente, il che è blasfemo, oppure Dio mi odia, il che è occasione di disperazione”(13).
La ragione, offesa da Lutero in teologia e in filosofia, non tardò a vendicarsi a cominciare dal razionalismo cartesiano, che non per nulla ebbe grande successo nella Germania frastornata e stanca del fideismo luterano, anche se il paradosso fu che il luteranesimo continuò a vivere, ma associando paradossalmente fideismo e razionalismo, come è testimoniato per esempio da Leibniz, Wolff, Kant sino ad Hegel ed al protestantesimo liberale dell’esegesi “storico–critica” di Harnack, Schleiermacher, Wellhausen e Bultmann.
Nessuno nega la necessità che il teologo viva la sua fede e raggiunga una vera esperienza di vita cristiana soprattutto nel mistero della Croce, seriamente preoccupato della propria salvezza e confidando nella misericordia divina. Sono questi certamente alcuni aspetti della teologia luterana che vanno accolti, ma non sono neppure originali, rientrando nella genuina tradizione precedente, soprattutto agostiniana. Ma tutto ciò non può sostituire una teologia che si vale di un retto metodo razionale e che, attenta certo al problema della salvezza, pone al vertice di tutta la sua ricerca, come dice la parola stessa theòs–logos, la conoscenza di Dio in preparazione alla beata visione del cielo.
Bologna, 29 novembre 2011
NOTE
1) Lutero dimentica che tutta la Scrittura è percorsa dal desiderio di «vedere il volto di Dio», da Mosè ai Salmi a S.Paolo e S.Giovanni, conforme alle promesse di Cristo : «Beati i puri di cuore, perchè vedranno Dio ». Sarebbe ora di chiedersi una buona volta quanto colui che passa per essere il grande innamorato della Bibbia ne ha colto la vera sostanza.
2) Dictionnaire de Théologie catholique, alla voce Luther, col.1322.
3) Commento al Sal 51, Opera omnia, WA 40, II, 328, 17s
4) Dict. de Théol.Cath., voce Luther, col.1322.
5) WA 44, 97, 38ss.
6) WA I, 224s
7) Il fatto che il mistero divino trascenda la ragione non vuol dire che le sia contrario. Questo tutti i dottori scolastici lo hanno sempre saputo.
8) Disputatio contra scholasticam theologiam del 1517, WA 39, 2, pp.3-5, tesi 18
9) Tesi 28.
10) Dictionnaire de Théologie Catholique, alla voce Luther, col.1326.
11) WA 5, 176, 29ss. Frase ad effetto che nasconde una sostanziale confusione tra il momento speculativo e quello pratico dello spirito.
12) WA 42, 393, 9ss.
13) WA 43, 202, 16ss.