di P. Giovanni Cavalcoli, OP
I seguaci di Cartesio, come è noto, considerano con mal celato vanto il loro maestro come fondatore della “filosofia moderna” e dall’alto di questa per loro definitiva cattedra della verità, sicuri che “non si può tornare indietro”, giudicano con sufficienza tutta la precedente storia della filosofia precedente, come storia dell’incertezza e della semplice opinione, per non dire dell’errore, soprattutto per quanto riguarda i fondamenti ed il metodo del filosofare.
Fu del resto questa la pretesa esplicita di Cartesio, il quale, come è noto, nel raccontare come fosse giunto a questa rifondazione della filosofia, al di là di certe sue espressioni apparentemente modeste, nasconde evidentemente una sconfinata presunzione, come se la verità della ragione nascesse con lui dopo secoli e millenni di vani tentativi e penosi o illusori risultati.
A sfatare questa ridicola pretesa, non poi tanto ridicola a considerare le tragedie alle quali avrebbe dato luogo nei secoli seguenti, basterebbe la considerazione della storia del cristianesimo nelle sue radici ebraiche, o se vogliamo, la stessa storia di altre grandi religioni tradizionali; basterebbe l’immortale patrimonio della Grecia di Platone e di Aristotele, storia che certo non ha aspettato Cartesio, che pur si considerava “cattolico”, per dar prova all’umanità di una eminente ed universale saggezza proprio nel campo della verità sulla realtà, sull’uomo, sulla morale, su Dio e sul mondo.
Da dove è partita la rifondazione della filosofia operata da Cartesio? Dal dubbio circa la veracità del senso. Vedo un bicchiere sul tavolo? Sono sicuro che si tratti di un bicchiere? Sono sicuro di poter dire con certezza che l’essenza di questa cosa in sé che si trova sul tavolo è un bicchiere? Sono certo che la sensazione visiva che mi porta a dire “vedo un bicchiere” corrisponda effettivamente a qualcosa di esistente lì fuori di me? Mi pare, con la mia sensazione visiva – con la mia “idea del colore”, dirà Cartesio – di raggiungere, di cogliere, di percepire una cosa reale qui davanti a me e fuori di me. Ma posso esserne certo?
Cartesio si convince che i sensi ingannano con il famoso banale sofisma del bastone nell’acqua che sembra spezzato, ma che in realtà non è spezzato. Io vorrei subito dire a Cartesio: dunque allora tu cogli la verità sensibile, giacchè sai che in realtà il bastone non è spezzato! E come ti accorgi dell’illusione o dell’errore, se non perché hai la possibilità di controllare la verità? E allora l’esistenza dell’errore dei sensi non presuppone appunto la possibilità che in linea di principio essi siano veraci? Non vuol dire allora che l’errore non è costitutivo della sensazione ma semplicemente accidentale e correggibile?
E’ noto dove Cartesio crede di trovare il principio della certezza: nella coscienza di pensare, il famoso cogito: “penso, dunque sono”. La certezza fondamentale è l’esistenza del mio io. Perché questa sostituzione dell’autocoscienza alla veracità del senso? Difficile sapere quali sono state le intenzioni profonde di Cartesio. Sta di fatto, come è stato notato da alcuni acuti studiosi, che Cartesio ha sostituito quello che è il principio normale della certezza umana e razionale, ossia il raggiungimento della certezza razionale partendo da quella sensibile, con una certezza spirituale immediata, originaria e riflessa del proprio atto di pensiero, che in realtà non è propria dell’uomo ma di Dio. Solo Dio infatti, come già aveva dimostrato S.Tommaso in base all’insegnamento biblico, è atto di autocoscienza spirituale originario ed immediato del proprio atto di pensare coincidente col proprio essere e il proprio agire[1].
Cartesio non ha affatto lasciato trasparire questa sua gravissima decisione, della quale non sappiamo quanto si sia reso conto, decisione di sostituire la certezza umana con la certezza divina, ed anzi, non appena fissato il suo cogito, si è subito premurato di interessarsi della questione dell’esistenza di Dio, fornendo alcune “prove”, le quali però, come hanno mostrato i critici, essendo basate sul cogito e non sulla percezione delle cose o della propria esistenza umana fisica, ma del proprio io come semplice res cogitans, sono dei semplici circoli viziosi, giacchè per Cartesio l’idea di Dio è innata e già implicitamente contenuta nel cogito, e questa “idea” comporta già da sé l’affermazione dell’esistenza di Dio per il fatto che in Dio, e qui certamente Cartesio ha ragione, essenza ed essere coincidono.
Anche per Tommaso in Dio essenza ed essere si identificano – Egli, come dice l’Aquinate, è l’ipsum Esse per se subsistens -, ma Tommaso, sulla scorta dell’insegnamento biblico, sa benissimo che l’esistenza di Dio non si prova in base alla nostra idea di Dio, ma partendo dalla esperienza delle cose e della propria persona fisica ed applicando il principio di causalità. In fin dei conti è solo Dio che sa di esistere semplicemente riflettendo sull’idea che Egli ha di Sè Stesso. E siamo daccapo.
Infine, Cartesio si pone la questione dell’esistenza delle cose in se stesse, esterne a me, indipendenti dal pensiero o dall’idea che di esse posseggo: il problema è, per Cartesio, se io con le mie idee posso raggiungere le cose e rappresentarle veracemente.
Cartesio, come si sa, dubita di ciò. Eppure intende risolvere questo dubbio e crede di proporci un metodo nuovo per raggiungere la certezza, diverso ed opposto da quello che suppone la veracità del senso. Come abbiamo visto, il senso illude, dice Cartesio. Tuttavia egli non intende rinunciare alla convinzione circa l’esistenza di un mondo esterno e la possibilità di conoscerlo così com’è, ossia la possibilità che la nostra idea del reale corrisponda al reale. Cartesio parte dall’idealismo, ma vorrebbe ritrovare il realismo. Ce la fà? Per nulla. Perché?
Perché, anche per quanto riguarda la verità sulle cose esterne e del proprio io empirico, egli crede che essa non nasca dall’esperienza sensibile con queste realtà materiali. Questa convinzione comune, secondo lui, è un’ingenua illusione. Secondo lui, questa convinzione, che appare cosa più che evidente, certezza spontanea ed immediata, come un principio originario di certezza, va invece dimostrata.
E come? Di nuovo partendo dal cogito, nel quale, secondo Cartesio, è contenuta la certezza immediata, anche se implicita, dell’esistenza di Dio, di quel Dio che ci assicura che quando noi abbiamo la sensazione di vedere realmente un bicchiere, ebbene questa sensazione non ci inganna, ma ci mette veramente in contatto conoscitivo con l’essenza e l’esistenza del bicchiere.
Dunque Cartesio fa un giro enorme ed artificioso, che porta sempre allo stesso risultato, capovolgendo l’ordine normale della conoscenza umana: invece di partire dalle cose sensibili nello spazio-tempo, per giungere allo spirito, all’autoscienza e a Dio, Cartesio parte dallo spirito, dall’autocoscienza e da Dio come condizioni di possibilità per attuare l’esperienza delle cose e del proprio io corporeo.
Ovviamente questo avviene non solo nel senso che egli veda Dio come ontologicamente anteriore a tutto l’universo, verità, questa, sacrosanta: ma, per Cartesio, è l’idea umana innata di Dio che sta all’inizio, ossia a priori come si dirà in seguito, della conoscenza di tutto il resto: e questo è del tutto contrario a come effettivamente si svolge la conoscenza umana, che non parte da Dio per giungere alle cose, ma parte della cose per giungere da Dio.
Ancora una volta un procedimento conoscitivo che non è quello umano, ma quello divino: solo la mente divina possiede l’idea originaria ed archetipica delle cose, come già aveva mostrato S.Agostino, in quanto è creatrice delle cose e, in base a questa idea, conosce le cose, per cui solo in Dio l’intelletto passa dall’idea della cosa sensibile alla conoscenza della cosa sensibile.
L’intelletto umano invece, come già aveva stabilito con chiarezza la gnoseologia tomista, percepisce inizialmente le cose con i sensi e solo successivamente, da questa esperienza, ricava l’idea della cosa, idea che peraltro, se conforme alla cosa, sarà vera; se invece difforme, sarà falsa, ma non che si debba pregiudizialmente dubitare della veracità dell’idea o della sensazione, ossia di una loro sua possibile corrispondenza alla cosa esterna, concependo come fa Cartesio, l’idea e non la cosa come oggetto immediato dell’intelletto, col chiedersi poi – cosa insolubile – come passare poi dall’idea alla cosa, quello che è stato chiamato il problema del “ponte” tra pensiero e realtà: un falso problema, in quanto, come spiega S.Tommaso, il dato iniziale dell’umano conoscere non è il fatto che abbiamo delle idee, il dato iniziale è che conosciamo le cose materiali, compreso il nostro corpo[2] (quidditas rei sensibilis).
L’esistenza dell’idea o concetto, in quanto rappresentazione mentale del reale fu già stabilita da Aristotele, appunto per il fatto che conosciamo le cose o che esse sono immaterialmente in noi, come dice lo Stagirita: “non è la pietra che è nell’anima, ma l’immagine della pietra”.
Stando così le cose, appare evidente come la rifondazione del realismo su base idealistica attuata da Cartesio è un’operazione posticcia che non ha mai convinto i veri realisti. In realtà il cogito cartesiano contiene un potenziale dirompente, tale da esclude il realismo sostituendo in ultima analisi il sapere divino col saper umano.
Da qui l’inutilità di un Dio che spieghi l’esistenza di quelle cose, di quel mondo e di quell’io corporeo la cui esistenza appare già sufficientemente giustificata da un “Io” – Io assoluto, come dirà Fichte -, il quale pone sè stesso e col porre sè stesso, pone anche il “non-Io”, ossia il mondo all’interno stesso dell’Io, sicchè tutto è nell’io e nulla è fuori dell’io.
Il pensiero è intrascendibile e nulla è fuori o al di sopra del pensiero. L’essere è ridotto ad essere-pensato. L’essere è il prodotto dello stesso Io. A questo punto è chiaro che la tesi di un Dio trascendente e creatore è del tutto inutile: pensa a tutto l’Io, quell’Io che non è altro che l’essenza prima, profonda ed ultima dell’uomo.
Per questo, con acuta osservazione, il padre Tomas Tyn parla di “anima atea” del cartesianismo. Certo si tratta delle ultime conseguenze, alle quali lo stesso Cartesio probabilmente non voleva arrivare e delle quali, nonostante il suo bisogno di razionalità deduttiva, non si rese conto. Ma le idee fanno comunque il loro corso in forza della logica che le collega, indipendentemente dalle intenzioni di colui le ha lanciate nella storia.
Naturalmente la personalità di Cartesio non si risolve nell’aver immesso nella storia del pensiero questo principio dissolutore che darà i suoi ultimi frutti concreti solo nelle immani tragedie del ventesimo secolo. Non è difficile, anzi è doveroso, riconoscere al grande filosofo la forte istanza del valore della coscienza, dell’io, della persona, della ragione, della scienza, della libertà, temi indubbiamente cari al pensiero moderno, anche se purtroppo non sempre sviluppati nella linea giusta perché guastati da uno spirito rivoluzionario e sovvertitore riconoscibile nella riforma cartesiana.
Qualcosa di simile, nel campo proprio della teologia e della fede, era avvenuto un secolo prima con Lutero, egli pure purtroppo sviatosi a causa di un falso concetto della coscienza, il quale, congiunto con la visione cartesiana, porterà alla formazione ed all’evoluzione dell’idealismo tedesco che finirà in un panteismo, dal quale, per reazione, sorgerà l’ateismo marxista.
Il compito per l’oggi è allora quello di liberarsi finalmente dai germi di morte immessi da Cartesio nella storia del pensiero europeo recuperando l’istanza autentica del valore dello spirito, della persona, della ragione, della coscienza, della libertà, della filosofia e della teologia alla luce di quella sana ragione e di quella fede soprannaturale che ci hanno lasciato in eredità i nostri Padri come patrimonio da approfondire e sviluppare per i secoli futuri.
Bologna, 25 maggio 2012
[1] Cf: “L’intelletto divino” di P.Tomas Tyn, OP (http://www.arpato.org/testi/studi/Intelletto_Divino.pdf).
[2] Una delle prima esperienze che fa il neonato è esattamente la scoperta del proprio corpo, che egli cerca di distinguere dalle altre cose. Il problema delle idee verrà solo successivamente.