di Patrizia Fermani
Il direttore della rivista dei gesuiti “Popoli”, Stefano Femminis, ci informa, con un editoriale pubblicato nel numero di marzo e ripreso dall’Osservatore Romano della domenica precedente il conclave (10 marzo 2013), che la rinuncia al papato di Benedetto XVI avrebbe cambiato la storia della Chiesa. L’affermazione, se riferita alla possibile introduzione di una nuova prassi per la fine ante mortem del pontificato e a sue imprevedibili conseguenze, appare forse un po’ azzardata perchè evidentemente prematura, dato tra l’altro che i pochissimi precedenti conosciuti rimasero del tutto isolati e considerati in sé come irripetibili. Ma ben presto ci viene chiarito dall’autore come, a dare un nuovo corso al cammino della Chiesa, sia stata la stessa dichiarazione papale: essa conterrebbe, infatti, un messaggio veramente nuovo, riassumibile in tre punti tanto significativi da farle assumere addirittura la portata di una vera e propria enciclica in extremis data. (CLICCANDO QUI sarete indirizzati alla pagina della Rivista “Popoli” su cui troverete il testo completo dell’editoriale)
1) Anzitutto il Papa, con le parole ormai famose “…dopo avere esaminato a lungo la mia coscienza davanti a Dio ed essere pervenuto alla certezza…“, avrebbe consacrato finalmente quel concetto aggiornato di coscienza che corrisponde felicemente al luogo dove il soggetto orienta la propria volontà secondo i criteri che si è scelto da solo perchè gli sono più congeniali, e dove realizza appieno la propria libertà avvalendosi tutt’al più della frequentazione di Dio nella preghiera (dove il Signore è chiamato quindi, a quanto si evince, a fornire un mero parere consultivo).
E se questo concetto di coscienza non fosse sufficientemente chiaro, il direttore spiega che non sono le tradizioni pur millenarie a dover guidare un pontefice, come qualunque altro cristiano, ma quella voce interiore capace da sola di fornirci la certezza.
Insomma, il Papa avrebbe rinnegato ufficialmente quell’idea di coscienza propria della dottrina cattolica, che consiste “nella scoperta da parte del singolo di una legge che non é lui a darsi”, “perchè è scritta da Dio, e alla quale egli deve obbedire”(Costituzione Gaudium et Spes, 16).
2) Così, forte delle certezze fornitegli dalla propria nuova coscienza, Benedetto XVI avrebbe fatto, sempre nella accorta lettura del direttore di “Popoli”, il secondo passo decisivo: quello di affidare alla Chiesa il mandato di aprirsi finalmente al mondo.
Cosa che, nel linguaggio del progressismo cattolico, significa prendere atto della realtà secolare e accettarla così com’è, dispensando in dosi adeguate quella “medicina della misericordia” di roncalliana memoria, che viene applicata all’errore senza la necessità di somministrare anche gli antidoti.
Il nostro direttore pretende di prendere le mosse ancora una volta dalle parole del Pontefice, che si sofferma sul “mondo di oggi soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza”. Di certo il Papa ha davanti agli occhi un mondo non proprio idilliaco, capace infatti di generare in lui “gravi preoccupazioni e difficoltà” e “il cui peso diventa sproporzionato per il vigore del corpo e dell’anima“. Egli ha qui presente, evidentemente, anche quella realtà contemporanea in cui l’uomo si volge contro se stesso, propaganda e legalizza aborto, selezione eugenetica ed eutanasia, e mira all’annientamento della famiglia naturale, cioè dell’unica famiglia possibile. Ed è noto a tutti come Benedetto XVI, mettendo in guardia sia i laici sia i pastori dalle pericolose proposte di un mondo scristianizzato e percorso da forze distruttive, abbia proclamato l’intangibilità dei principi non negoziabili, non stancandosi mai di esortare con forza i giovani non solo a fuggire dalle facili tentazioni e dai miti fasulli di oggi, ma addirittura ad andare “controcorrente”. Eppure, a dispetto di tutto questo insegnamento chiarissimo e tanto insistito, al direttore di “Popoli” è bastato quel riferimento al “mondo di oggi soggetto a rapidi mutamenti” per far scattare in lui la molla di una forse troppo a lungo mortificata attrazione verso la felice post-modernità; infatti quell’inciso gli è sufficiente per trasformare a forza Benedetto XVI nel novello promotore di un abbraccio senza riserve tra Chiesa e mondo. Ma non basta, ci viene anche assicurato (e su questo non nutriamo dubbi) che il nuovo messaggio verrà immediatamente accolto dai pastori più illuminati, i quali vi si conformeranno “perinde ac cadaver“, e così potranno dimostrare d’ora in avanti di non essere affatto fuori dal tempo, immobili, sordi alle richieste di cambiamento “che arrivano dal contesto”, ma anzi capaci di aprire la strada a quanti guardano ancora con sospetto e timore a questa inversione di rotta tanto attesa.
3) Così, e veniamo alla valutazione finale, il Pontefice si sarebbe deciso anche a chiedere perdono a tutti per i propri difetti, dimostrando quella capacità di ravvedimento sconosciuta a tanti grandi della terra, e sfatando quella sua cattiva fama di persona fredda e germanicamente rigida. Ma non basta: avrebbe persino dimostrato un notevole fair play perchè, come nota non senza una certa eleganza il nostro commentatore, “non si è tolto neppure, come avrebbe potuto, qualche sassolino dalla scarpa”.
Confortati da questa ancora inedita interpretazione della rinuncia papale, possiamo guardare fiduciosi verso la nuova missione della Chiesa, ed essere riconoscenti al direttore del mensile dei gesuiti che, pur attribuendone il merito a Benedetto XVI, ha ideato – in perfetta sintonia col proprio pensiero e con quello di non pochi confratelli – il modello di una “nuova enciclica” che consacra il tanto auspicato adeguamento ai tempi della Chiesa Universale.