di Roberto Pecchioli
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Molti anni fa un giovanissimo studente di lettere e filosofia che adesso scrive le presenti righe entrava a far parte dell’amministrazione finanziaria, all’unico scopo di garantirsi pasti regolari. Destinato a compiti di controllo, venne catechizzato da un brillante funzionario la cui sapienza giuridica e professionale si univa alla vivacità e alla classe naturale dei napoletani di alto bordo. Il concetto su cui insistette di più fu “le carte devono essere a posto”. Ripeteva senza stancarsi che si poteva anche rubare la nazione intera purché i documenti relativi fossero perfetti, inattaccabili, e gli atti ben motivati. Ciò che sembrava prerogativa della sola burocrazia, è oggi divenuto il segno distintivo di una forma di società, quella liberale e liberista, che qualcuno ha definito la repubblica delle procedure. Non si scappa: tutto è procedura, sistema, apparato tecnico, linee guida, normativa minuziosa, complessa, per padroneggiare la quale è sorto un nuovo potente clero secolare di “esperti”. La ragione è in fondo assai semplice: il modo di pensare liberale nega l’esistenza del bene comune, ha orrore di principi morali condivisi, vive del solo utile, anzi di ciò che promuove “razionalmente” e determina l’interesse individuale.
Non può dunque che ripiegare su ciò che è considerato giusto e proclamato legale in base ad una norma scritta e transitoria, frutto dello spirito del tempo espresso da una (vera o presunta) maggioranza formata a quell’unico scopo. A quella norma viene attribuito un valore salvifico in base all’unica considerazione che è vigente in un certo momento storico. Sembra l’universalizzazione del pur venerando brocardo romanistico “tempus regit actum” e l’estensione all’intero mondo della vita delle “carte in regola”, dei timbri e delle normative. La distinzione tra ciò che è legittimo e ciò che è semplicemente legale in quanto permesso o non espressamente vietato dai codici si perde a favore di un positivismo giuridico tracimato in tutto l’Occidente dal mondo anglosassone dopo averne oltrepassato e travolto il principio consuetudinario. Di più, la supremazia della procedura si è trasferita all’intera società, improntandola e realizzando quel predominio della forma sulla sostanza, dei mezzi che sostituiscono i fini, del contratto misura di tutte le cose che sono tra gli aspetti più insidiosi del principio societale liberale.
L’ambito del diritto si estende ogni giorno, rendendo più numerose ed aggressive le caste dei periti giuridici delle più varie specializzazioni, un esercito di esperti che usano un linguaggio esoterico ed autoreferenziale, convinti – come del resto come tutti i devoti della società contemporanea – che la ragione coincida con il successo. La loro distanza dal senso comune, oltreché dalla maggioranza delle persone aumenta quotidianamente. Solo un paio di esempi: le scarcerazioni lampo di colpevoli di delitti o reati assai gravi, che non sono responsabilità del magistrato di turno o luciferina abilità dei legali, ma stanno scritte, come si dice, nella legge e nei mille rivoli di regolamenti, eccezioni, casistiche minutamente contemplate e descritte nel fiume irrefrenabile dell’iperproduzione giuridica.
E’ di queste ore la scarcerazione, in Spagna, dei delinquenti probabilmente colpevoli dell’omicidio a pugni e calci di un giovane fiorentino, ma è l’ultimo caso solo in ordine di tempo delle follie che indignano il senso comune ma non turbano minimamente gli esperti, i tecnici: sta scritto da qualche parte e così sia. La Spagna, del resto, è il paese che ha raggiunto e superato l’Italia in spropositi di ogni genere. Ma le procedure sono state scrupolosamente seguite, ciascuno ha fatto la sua parte conformemente alle regole stabilite. Quanto alla vittima, il convitato di pietra, si vedrà. Chi muore giace, tutto il resto sono le magnifiche sorti e progressive della civilizzazione gaia ed agonizzante.
I telefilm di genere, specie americani, ci mostrano con sincerità brutale le miserie di un sistema in cui la verità, non diciamo la giustizia, è ospite sgradito e generalmente respinto. Certo, il rispetto delle forme e delle norme è cosa di grande importanza, ma dovrebbe sussistere, almeno in linea di principio, un minimo di rispetto per l’idea di bene comune, di giustizia come atto comunitario che sana la ferita inferta alla convivenza civile. Nulla, nessun interesse per la verità “storica”, pochissimo anche per quella giudiziaria. Conta vincere la causa, attore e convenuto non sono altro che plastilina nelle mani degli operatori professionali (gli esperti della procedura…), protesi alla vittoria, per la carriera, per la parcella, per gli “obiettivi” ai quali si subordina il bene, il giusto, il vero.
Dal campo del diritto, le procedure hanno invaso la mitizzata società civile in ogni sua piega. Laissez faire, laissez passer è l’imperativo liberista in economia e finanza, nel percorso a tappe forzate verso la privatizzazione di tutto. Ma nulla deve tuttavia sfuggire alla mania contemporanea a normare tutto, incasellare secondo schemi prefissati, organizzare, gestire minuziosamente secondo le “regole” – altra parola chiave del tempo nostro – prescritte da schiere onnipresenti di sedicenti esperti. Pensiamo alla medicalizzazione di ogni passaggio della vita, a partire dagli obblighi di vaccinazione contro tutto, che probabilmente rendono più deboli le ultime generazioni, sino ai divieti ossessivi per il fumo o alla schedatura di chi vuole assistere agli spettacoli sportivi.
Tutto per il nostro bene, violando clamorosamente il postulato progressista del libero, insindacabile giudizio individuale sulle scelte personali. In compenso, nessuna difficoltà per chi intende schiamazzare, ubriacarsi, sballare, “farsi” di pillole o sostanze stupefacenti, diventare dipendenti della sessualità più estrema, compulsiva e amorale. Libertà di aborto, non sia mai, ma lacrime e disperazione per l’abbattimento di un’orsa. Una deriva antiumana che non sa più distinguere e dare giudizi di valore. Ma già, discriminare è vietato per legge, quindi non è né giusto né legale. Sempre le procedure, sempre il dannato potere di maestrini e maestrine dalla penna rossa esperti di qualcosa che ci spiegano come e qualmente l’uomo e la donna normali abbiano torto sempre e comunque. Giacché non esiste il senso comune che volge al bene e respinge il male, ma solo l’interpretazione, il giudizio relativo epperò insindacabile, beninteso se rispetta la cornice disegnata dagli esperti.
Le decisioni risultano largamente preordinate, in ossequio al principio dell’expertise tecnica, indiscutibile in quanto realizzata su presupposti “scientifici”. Non c’è più governo, ma amministrazione, adesso chiamata governance. Fu il movimento francese antiutilitarista MAUSS a definire per primo la nuova realtà: “L’obiettivo diventa quello di definire delle procedure neutre e oggettive – di cui il mercato e il diritto sono le principali incarnazioni – che permettano di far funzionare la società da sola, indipendentemente dalle motivazioni buone o cattive degli uomini” (Alain Caillé). Un mondo-meccanismo, un orologio indifferente a tutto, fuorché alla logica dominatrice dello scambio in denaro. Ci si riduce ad una triste espertocrazia, incaricata di individuare soluzioni esclusivamente tecniche, alle quali attribuire caratteri di oggettività, il criterio che ha sostituito la tramontata sacralità.
Una conseguenza è la depoliticizzazione della società, giacché la lotta non è più tra orientamenti, progetti, visioni, principi, ma tra coloro che sanno individuare ed applicare la soluzione razionalmente e tecnicamente possibile, l’unica, l’inevitabile. Negli ultimi anni, un nuovo attore di formidabile potenza si è aggiunto all’apparato di potere tecnocratico ed oligarchico, i padroni della rete informatica e i detentori dei “social media”. Qui la fiducia nella tecnica, nelle procedura e nel ruolo salvifico degli esperti rasenta il lucido delirio. Il manifesto del febbraio 2017 di Mark Zuckerberg, il dominus di Facebook di origine ebraica ne è una prova: un preciso programma di superamento antropologico del modo di essere di miliardi di uomini, il cui futuro sarebbe quello di essere costantemente connessi, destinati “a superare le istituzioni tradizionali “a favore di un super direttorio dei padroni della rete.
Un giovane filosofo e geopolitico, Parag Khanna, ha scritto un saggio intitolato, parafrasando Tocqueville, La tecnocrazia in America, nel quale, superando lo stesso Zuckerberg, conclude che in America “c’è troppa democrazia” (???). Ciò di cui c’è bisogno è “più tecnocrazia”. Khanna ha una convinzione precisa, quella che “un governo tecnocratico è costruito attorno alle analisi di esperti e sulla pianificazione di lungo periodo, piuttosto che sulla chiusura mentale e la visione di breve periodo dei capricci populisti”. Al di là del tocco finale contro i populisti, ossia contro i sostenitori della sovranità popolare, ciò che sgomenta è il tono chiliastico, millenarista del nuovo potere tecnoscientifico, nonché il disprezzo assoluto per il popolo. Decidono “gli esperti”, poiché essi “sanno”, conoscono le procedure, antivedono gli esiti, conoscono i risvolti di tutto. A noi spetta unicamente l’obbedienza, la bovina acquiescenza al verbo.
Tutto è derubricato ad opinione, fuorché l’esito delle valutazioni degli esperti in base agli scenari disegnati, agli algoritmi ed ai modelli matematici. La prima obiezione è: chi nomina gli esperti, chi li paga, e perché la loro opinione dovrebbe prevalere sulla nostra? Per quale motivo l’opinione di un ingegnere, in qualsiasi campo diverso dalla sua specializzazione professionale, ha più valore della mia, e, comunque, chi stabilisce criteri, motivazioni, fini delle elaborazioni teoriche la cui esecuzione e progettazione pratica affidiamo ovviamente alla sua perizia tecnica?
Il cosiddetto Stato di diritto, che vanta la propria supposta indifferenza assiologica, si organizza ormai sulla neutralizzazione tecnica e procedurale di tutto, anzi sulla privatizzazione integrale di quelle fonti perpetue di discordia che la morale, la religione e la filosofia necessariamente rappresenterebbero (Jean Paul Michéa). In questo modo, tutte le questioni sono “eticamente purificate” nell’ottica del pluralismo, il cui esito è uno solo: screditare ogni convinzione o principio, neutralizzando tutto come semplice opinione, circoscritta alla sfera privata o addirittura intima affinché la società economica e commerciale possa continuare la sua marcia scandita dai meccanismi “naturali” del mercato. Ancora Jean Paul Michéa spiega che, scartata l’idea di vita buona di ascendenza aristotelica, “sarà il mercato – e tramite esso l’immaginario della crescita e del consumo – a incaricarsi di definire de facto la maniera concreta in cui gli uomini dovranno vivere”. E’ sin troppo chiaro che le scelte decise dalla finta imparzialità delle procedure e delle soluzioni tecniche non sono affatto neutre.
Un altro impressionante elemento della repubblica cosmopolita delle procedure è l’esaltazione maniacale, unita alla rizomatica crescita delle “regole”. Cacciate dalla porta del laissez faire liberale nelle grandi scelte socio-economiche, si ripresentano, pignole, meticolose, sospettose ed occhiute proprio là dove la libertà personale dovrebbe regnare. Ecco dunque il salutismo esasperato, la medicalizzazione di ogni momento della vita, la necessità di seguire corsi e possedere patenti o titoli per svolgere qualsiasi attività. E’, tra le altre cose, la società del libretto delle istruzioni, senza il quale non si esce più di casa. Si tratta del paradossale esito della società dei “diritti dell’uomo”, rigorosamente individuali. La sbandierata neutralità dello spazio pubblico esige l’invasione asfissiante del dover-essere, di ciò che, apoditticamente, diventa “il giusto”. Di qui la necessità di trasformare la società attraverso obblighi e modalità pratiche sempre nuove.
Contemporaneamente, la tecnica, specie l’informatica al servizio del profitto, fa sì che ogni giorno noi compiamo azioni che fino a pochi anni fa erano di pertinenza di numerose figure professionali. Non entriamo più in banca per prelievi o depositi, facciamo e stampiamo da soli il biglietto ferroviario, prenotiamo i servizi sanitari e tanto altro. Persino al supermercato, adesso possiamo svolgere noi il lavoro di cassieri. Al di là delle ricadute occupazionali, sorprende che così pochi osservatori svolgano critiche ad un modello che ci vede prigionieri di macchine, dispositivi, procedure rigide quanto inderogabili nella più totale solitudine spinta sino al solipsismo. Alla repubblica delle procedure non interessano i rapporti umani, persino quelli minimi che intratteniamo con un cassiere o un incaricato di servizi. Colonizzato lo spazio pubblico insieme con l’immaginario privato, diventa facile convincere della necessaria neutralità dello Stato rispetto alle scelte individuali sovrane. Quella neutralità, però, dovrà essere mantenuta attraverso una selva crescente di norme esclusivamente formali e procedurali.
Naturalmente, ciò ridà fiato e potere a nuove burocrazie, detentrici di spicchi di un sapere parcellizzato, nuove corporazioni di esperti, spesso riunti in gruppi interdisciplinari nei quali ciascuno è titolare di un minuscolo campo di conoscenza. Di qui l’esigenza di creare nuovi organismi, gruppi di lavoro, ulteriori prassi da formalizzare: una sorta di “conferenza di servizi” permanente, necessaria per riunire i numerosi soggetti titolari di pareri, competenze, procedure in capo a qualsiasi decisione, atto o problema. In una conversazione privata, un sociologo del lavoro, celiando sulle infinite specializzazioni della sua professione, affermò che forse ci saranno, a fianco di tutti gli altri, anche sociologi della sociologia. Nel 1970, il geniale Giorgio Gaber scrisse una canzone dalla musica molto cadenzata, il cui refrain era “il gatto si morde la coda, si morde la coda, e non sa che la coda è sua!”.
In tutto ciò, tecniche, procedure ed esperti sembrano concordare nella tendenza ad abolire, insieme al conflitto, il Male. Esso può essere combattuto ed estirpato attraverso misure appropriate, ovvero con leggi, procedure, apparati tecnici, figli tutti di un ordine sociale in cui dominano i “diritti” e, innanzitutto, la mano invisibile del Mercato. Occorre dunque mettere a punto una struttura che affranchi l’uomo nuovo dalla naturalità, sino ad una radicale antropologia storicista: l’uomo sarà ciò che egli vuole essere! Espulso il sentimento e la dimensione del tragico, tanto straordinariamente esplorato da un Miguel Unamuno, ma altresì respinta l’alterità. Che cosa rappresentano, infatti, le sofisticate, dettagliate procedure, le classificazioni sempre più minuziose degli esperti, la tassonomia, l’ansia previsionale e descrittiva degli “esperti”, se non l’allontanamento coatto, il respingimento ed il rigetto dell’Altro, del Diverso, dell’Imprevisto? Alain De Benoist parlò, già alcuni decenni fa, della dittatura dell’Identico sottesa al mercato, all’economia di scala, alla creazione a marce forzate del consumatore globale.
Il pensatore francese aveva intuito molto bene il progetto in fieri. Un altro francese, il citato Jean Paul Michéa, un socialista che rifiuta l’etichetta di sinistra, va oltre, e ci spiega un ulteriore risvolto della repubblica, ma possiamo chiamarlo impero delle procedure e della bulimia normativa. Poiché non possono sussistere una comunità e neppure una società prive di un linguaggio e di un senso comune, il metodo liberale ed il suo diritto positivo “non ha altra soluzione che fondare la sua decisione finale sui rapporti di forza che agitano la società in un dato momento; ossia, concretamente, sui rapporti di forza esistenti tra i vari gruppi di interessi (…) il cui peso è abitualmente in funzione della superficie mediatica che sono riusciti ad occupare”. Infine, norme, leggi, procedure, esperti, libretti di istruzioni, sono lo schermo di una contraffatta neutralità, imposta da chi ha fatto dell’economia la religione delle società moderne.
Il regno artificiale delle procedure altro non è che l’idea di bene ad uso dell’Homo consumens imposta dall’unico Regno rimasto sul trono, quello del denaro. Il diavolo in terra, probabilmente.
1 commento su “La repubblica delle procedure – di Roberto Pecchioli”
” Il consumatore e’ un lavoratore che non sa di esserlo ” ( Baudrillard ) .