Un ambito in cui l’azione sovversiva della dittatura del politically correct, del progressismo liberal e anticristiano in tutte le sue forme (antirazzismo, femminismo, omosessualismo, ideologia gender eccetera) è stata sistematica, pervasiva ma spesso sottile, inavvertita e di “lungo periodo” (prova questa di una strategia preordinata) è quello della perversione della lingua e delle parole. Le parole servono, ovviamente, per comunicare. È attraverso le parole che noi diamo senso e significato al mondo, ai concetti, alle idee, ai valori. Di più: noi pensiamo con le parole, con esse stabiliamo i concetti pensati.
Pervertendo il significato delle parole, introducendo nuovi termini che s’incaricano di trasmettere non solo un concetto, ma anche un giudizio di valore, impedendo l’uso di altre parole, giudicate offensive, si influenza non solo la comunicazione, ma anche il significato della stessa. Di più: si influenzano le idee, il modo di pensare, i valori stessi, le mentalità collettive. Con le parole si cambia il mondo. Negli ultimi anni, gli spin doctor della sovversione hanno lavorato intensamente per cambiare il senso delle parole, introdurre parole-concetti, parole-valori, caricando di significato positivo o negativo alcune parole chiave, obliterando altre presenti nel nostro lessico ma sgradite ai signori del caos e dell’infero, usando altre come clave per squalificare, minacciare, ridurre al silenzio gli avversari. Basti pensare a termini quali “fascista”, “razzista”, “populista”: non sono delle definizioni, sono delle minacce squalificanti, ignorando ogni doverosa e oggettiva analisi storica e politica. Mentre sono “santificanti” e positivi per definizione termini opposti come “antifascismo” “antirazzismo”. Ancora, pensiamo a parole assenti nel lessico solo qualche anno fa, ma che consentono una trasmissione inconsapevole di idee e tabù sovversivi, come “omofobia”, “femminicidio”, “islamofobia”, “xenofobia”, “sessismo”, “specismo”. Caso classico è l’imposizione, da parte delle lobby e dei pervertitori del linguaggio, del frivolo, “empatico” e positivo termine “gay” in luogo del più neutro e medicale “omosessuale” o del severo e biblico “sodomita” (ovviamente sono severamente banditi, e talvolta penalmente sanzionati, i vari termini derisori dialettali e semi dialettali a tutti ben noti). Così, attraverso la simpatica frivolezza del termine, viene moralmente sdoganato il comportamento contro-natura. Il disgusto, la condanna morale e sociale vengono sostituiti dall’accettazione, dalla comprensione, persino dalla simpatia.
Emblematico il citato caso del termine di “femminicidio” che, fate mente locale, solo dieci anni fa non esisteva, non è stato ancora recepito da tutti i vocabolari e persino il correttore di Word lo segnala come errore. Oltre a essere un insulto alla grammatica (come noto il termine “omicidio” definisce indifferentemente sia l’uccisione di maschi che di femmine), è stato inventato e imposto come strumento ideologico del femminismo per contrabbandare l’idea di maschi malvagi (perché tutti lo sono) che uccidono le donne in quanto donne. L’uso del termine “femminicidio” può generare emulazioni linguistiche dagli effetti tragicamente esilaranti: nel telegiornale di SkyTG24 del 21 settembre 2018 una malaccorta o particolarmente stupida giornalista, riferendosi alla triste vicenda della straniera incarcerata a Rebibbia che aveva ucciso, in carcere, i suoi due figli, ha usato il termine “figlicidio”. È comunque facile prevedere che questo termine non avrà comunque successo, perché inutile, contrariamente a “femminicidio”, ai fini ideologici di chi vuole il sovvertimento della società naturale anche attraverso il sovvertimento del linguaggio.
In merito al termine “xenofobia”, in un interessante e documentato testo sulle invasioni in corso del sociologo Rolf Peter Sieferle: Migrazioni – La fine dell’Europa, recentemente edito dalla LEG, l’autore, parlando di forme di narrazione per la legittimazione di concetti fino a qualche tempo fa inimmaginabili, ci ricorda che “esistono anche strateghi dei concetti e specialisti di marketing politico che mettono il circolazione l’una o l’altra storia del momento che può essere accolta con favore dall’opinione pubblica. Una manovra geniale è stata, per esempio, l’invenzione del termine “xenofobi”, che si può far risalire ai primi anni Novanta ”. Quanto detto da Seiferle su “xenofobia” può essere applicato anche alle “nuove parole” che hanno lo scopo di manipolare i pensieri, le convinzioni e le mentalità collettive.
Ancora: l’uso del termine “negro” è addirittura sostanzialmente sanzionato dall’Ordine dei Giornalisti, e la sua proibizione sociale è così pervasiva che se scrivete la parola “negro” in un SMS o in WhatsApp vi viene immediata corretta in “nero”. Sarebbe esilarante, se non fosse tragica, la testimonianza di un giornalista de “il Giornale” al quale un tassista alle prime armi, ignaro di dove si trovasse la via della sede del quotidiano, via Gaetano Negri, e interrogato il navigatore, comunicò desolato: “Non mi dà l’itinerario perché contiene una parolaccia: N****”.
D’altronde, lo stravolgimento e il contorsionismo linguistico vengono da lontano. Anche negli USA il termine “nigger” è così stigmatizzato che alcuni editori sono arrivati a censurare i testi di Mark Twain, come Le avventure di Huckleberry Finn, dove questo termine popolare viene usato spessissimo. Pochi sanno che il titolo originale del racconto di Agatha Christie Dieci piccoli indiani era in realtà Ten little niggers, a cui la dittatura della politically correctness, già attiva all’epoca, impose di cambiare nome. Anche il termine Indiani è oggi sostanzialmente proibito e sostituito con quello di Nativi americani (perché, voi da bambini non giocavate a nativi americani e cow-boy?).
Tornando in Italia, nel lungo elenco di parole proibite e sanzionate troviamo zingari, che deve essere sostituita con quella di Rom (anzi, la denominazione collettiva, anche se un po’ ridicola, dovrebbe essere quella di Rom, Sinti e Camminanti). Da notare che il termine Rom è di origine indiana (d’India) e nulla ha a che fare con la Romania e i romeni si irritano assai quando si accosta questa etnia dalla dubbia fama con la loro illustre Nazione latina.
Questa gigantesca opera di spostamento di senso, di re-ingegnerizzazione sociale attraverso una scientifica, pianificata corruzione del linguaggio è stata resa possibile dal dominio quasi totalitario della setta liberal e sovversiva della stampa, delle televisioni, del mondo accademico, dell’editoria, degli opinion maker. Il tutto si accompagna all’intimidazione, alle minacce, alle sanzioni, sociali nel migliore dei casi, spesso professionali e penali, come abbiamo visto. Naturalmente questa operazione di condizionamento di massa attraverso la distorsione della lingua si avvantaggia anche di un tragico decadimento del sistema educativo, sempre più massificato, livellato verso il basso e che criminalizza il merito, la selezione, la cultura classica. Si tratta, in sostanza, di un disegno volto a privare le persone degli strumenti critici, cognitivi, intellettuali e storici che consentono la capacità di giudicare, di vagliare, di non essere ingannati dai professionisti della disinformazione. Purtroppo, la scuola e l’università, ormai dominati dai fautori della dissoluzione civile, sono ormai complici di questa “deculturazione” di massa.
Attraverso le parole, si vogliono cambiare, in modo subdolo, le idee. Ha scritto Renato Cristin: “Intorno alla lingua si combatte la parte più delicata e meno appariscente del conflitto fra le visioni del mondo oggi in campo […]. La battaglia sulla lingua è, pur nella sua atmosfera rarefatta, lo scontro decisivo fra opposte concezioni dell’uomo e della società” (La tradizione minacciata. La crisi dell’identità nello spazio pubblico europeo contemporanea, in Tradizione Famiglia Proprietà n. 78, giugno 2018).
D’altronde, abbiamo vicino, vicinissimo a noi un tragico esempio di questo pervertimento delle parole: la Santa Liturgia. Con le riforme post-conciliari, avvallate da Paolo VI, la nuova messa ha visto, nel passaggio alla traduzione italiana, dei veri e propri tradimenti delle parole e dell’espressioni originarie contenute nella S. Messa di sempre.
Ad esempio, le parole del Sacerdote alla consacrazione del calice, “pro multis” sono state tradotte, nella messa modernista, con “per tutti” e, nonostante ripetute e insistite avvertenze di Benedetto XVI sul rispetto e il ripristino del senso originario (quello del “per molti”. Secondo il Papa, infatti, “la portata del sacramento è più limitata; esso raggiunge molti, ma non tutti“), i vescovi italiani si sono sempre rifiutati di ascoltare il Pontefice, con la scusa che questo cambiamento avrebbe potuto “confondere i fedeli”. Analogo alibi non è stato peraltro invocato dai presuli per il cambiamento del Padre Nostro con l’incongrua introduzione del “e non ci abbandonare alla tentazione”, scorretta filologicamente e forse anche teologicamente rispetto alla precedente “e non c’indurre in tentazione”. Emblematico, per lo scoperto irenismo della traditrice traduzione, il caso, nel Sanctus, del “Dòminus Deus Sàbaoth” (Dio degli Eserciti o Dio delle Schiere Celesti), reso con l’anodino “Dio dell’Universo”. Ancora, la traduzione, alla Comunione, dell’originale ed evangelico “Dòmine, non sum dignus ut intres sub tectum meum” nel “Signore non son degno di partecipare alla Tua mensa”, con un cambiamento di significato volto a modificare e stravolgere l’Eucarestia e la S. Messa (non più riattualizzazione del Sacrificio del Calvario, ma protestantica “cena eucaristica”). E gli esempi potrebbero continuare.
Possiamo reagire a questo processo di perversione del linguaggio? Possiamo fare qualcosa se non per fermarlo, almeno, nel nostro ambito, per limitarlo? Sì, qualcosa si può fare. Innanzitutto essere consapevoli di questo gigantesco, malvagio, demoniaco “trasbordo ideologico inavvertito” linguistico e renderne consapevole il nostro prossimo. Poi, non collaborare: rifiutiamoci di utilizzare le parole-trappola e le parole-ricatto: “gay”, “omofobia”, “femminicidio”, “islamofobia” “xenofobia” e via truffando. A chi, tra i nostri interlocutori, ne fa uso, sveliamone l’intima falsità semantica.
Se qualcuno ci parla di “razzismo”, “fascismo”, “populismo” e così via, dimostriamogli che il re è nudo chiedendogli “ma cosa vuol dire?”.
Se ci è possibile, utilizziamo neologismi “nostri” che veicolano valori “nostri”: il filosofo conservatore Roger Scruton ha proposto l’uso di oicofobia, dal greco oikos (casa), con il significato di indicare l’atteggiamento chi disprezza la propria casa e il proprio retaggio, come capita con gli antirazzisti e gli immigrazionisti che infestano l’opinione pubblica. Interessante anche il termine analogo “autorazzisti” proposto dal mensile Il Primato Nazionale. E abbiamo il coraggio di utilizzare parole che la “correttezza politica” ci vorrebbe imporre di non utilizzare: parole come Patria, Nazione, Etnia, Popolo e altre ancora: sfidiamo i signori del Caos e del nichilismo e utilizziamole, invece. La scomparsa delle parole spesso vuol dire la scomparsa dei concetti. Evitiamolo: ha lasciato scritto il naturalista danese Fabricius: “Nomina si pereunt, perit et cognitio rerum” (“Se le parole muoiono, muore anche la cognizione delle cose”).
Certo, non abbiamo la potenza mediatico-propagandista dei nostri nemici, ma qualcosa, attorno a noi, possiamo fare. Come non essere d’accordo con la brava Silvana De Mari, quando scrive: “Se siamo stufi di stare in ginocchio sui ceci, vale la pena di imparare come uscire dal linguaggio manipolatorio. Per linguaggio manipolatorio si intende una comunicazione che ci fa abdicare ai nostri diritti elementari”?.
5 commenti su “La perversione delle parole – di Antonio de Felip”
Vero. Mi ricorda questa citazione che ho letto in questo articolo (https://cooperatores-veritatis.org/2018/01/27/chiesa-cadde-mani-neomodernisti/):
La Chiesa cattolica ha sempre curato la liturgia e il linguaggio perché ha sempre saputo che «quando si perde la battaglia delle parole si perde anche quella delle idee» (Georges Bernanos).
Purtroppo è profondamente vero e fa il paio con quanto detto, se non ricordo male, da un famoso scrittore messicano: “l’imbarbarimento di una civiltà inizia dal linguaggio”.
Mi ha fatto molto riflettere! convengo che che non si pensa mai a tutto questo cambiamento ed alle conseguenze.
Riflessioni perfette, quello che ci vuole per svegliarci un po’ dal torpore linguistico privo di qualsiasi ribellione di fronte alle perverse imposizioni dei servi del padrone del mondo. La corruzione della lingua e la corruzione delle idee procedono di pari passo e purtroppo la maggioranza della gente beve tutto e si inebria di ogni novità lasciando sempre più inattiva l’unica funzione necessaria per sfuggire alle molteplici trappole tese alla nostra vera umanità: la ragione.
Grazie di cuore ad Antonio de Felip. Ho sempre provato grande sofferenza di fronte a questo imbarbarimento del linguaggio, in tutti i campi (vedere anche l’uso assurdo dei termini inglesi, anziché usare i termini italiani che sono certamente più “significanti” e di immediata comprensione di quello che si vuole dire!). Ringrazio Antonio de Felip perché, da competente e con tanta chiarezza, finalmente affronta il problema anche nello specifico religioso. Per me, forse perché ho fatto il liceo classico in ambiente cattolico, è insopportabile questo andazzo, dove tutti sembrano camminare beotamente, e dove chi dovrebbe, vedi il mondo della cultura, non osa opporsi in nessun modo. Tutti dicono, ad esempio, “fake news”, e tutti applaudono, anche se vuol dire “notizie false” e pensano che si tratti di qualche follia di Trump. In campo religioso poi, il fatto mi crea difficoltà di fede! Mi chiedo infatti: E’ possibile che la gran massa dei credenti, a cominciare dai cosiddetti “pastori”, cammini tranquillamente verso un baratro che si annuncia sempre più grande? Quei tradimenti…