Dice che andando avanti con l’età gli anni dell’infanzia sembra che siano trascorsi appena ieri; qualcosa di simile può accadere anche con gli avvenimenti della storia; ci capita di pensare ai personaggi celebri dei tempi antichi sentendoli vivi, in carne e ossa, qualcosa di cui spesso ci dimentichiamo, cristallizzati come essi sono nel ritratto stereotipato che ce ne restituisce la divulgazione. In fondo cosa sono quaranta, cinquanta generazioni? Un soffio, che i nostri limiti naturali ci fanno sembrare un tempo lunghissimo.
Questo pensiero finisce per allontanarci dalle interpretazioni della storia a posteriori, dalle analisi rigorose, e ci riconduce al dolore degli uomini nel momento stesso in cui veniva inflitto o subito, a questo mistero che scansiamo dal nostro orizzonte, oppure cerchiamo di comprendere con argomenti razionali che di razionale al fondo hanno ben poco.
La storia è la sofferenza degli uomini, è (anche) il male gratuito che essi fanno e patiscono. Tanto più lo si sente per gli avvenimenti a noi più vicini, quelli segnati dal turbinoso progresso tecnologico del secolo scorso e di questo, nei quali il processo che Daniel Halevy ha chiamato accelerazione della storia è giunto al suo acme.
Gli avvenimenti degli ultimi tre anni, prima il malanno denominato pandemia e adesso la guerra in Ucraina, sono solo le ultime emergenze che ci sono state fatte vivere dall’inizio del millennio in modo continuo. Certo costituiscono, per la modalità brutale e arbitraria con la quale si sono manifestate e soprattutto per l’effetto che hanno avuto nel mondo intero, un salto di qualità che è ancora da stabilire dove ci condurrà.
Ci siamo spesso chiesti in questi ultimi anni come è possibile che i potenti della terra non abbiano voluto evitare tanto male, perché lo abbiano fatto. L’ingenuità della domanda può essere compresa, non del tutto giustificata, dal fatto che fino ad oggi ci è stato dato di vivere in una parte di mondo e in un periodo in cui non vi sono state le distruzioni arrecate da grandi guerre, ed è stato ritenuto opportuno concedere alla popolazione un qualche benessere materiale e un po’ di spazio per divagare, l’illusione di un certo grado di libertà.
Intanto, in altre parti del globo, guerre, distruzioni, dittature violente, non sono mai mancate, ma erano lontane e non ce ne siamo accorti. Ci siamo perciò colpevolmente distratti e quando il guinzaglio al quale siamo tenuti si è accorciato siamo rimasti spiazzati, sconcertati.
Questo nostro sconcerto, per delle vessazioni fino ad oggi relativamente modeste, seppure gravissime, come quelle subite durante il periodo pandemico, è di certo poca cosa di fronte a quello che devono aver provato gli uomini abusati in certi momenti della storia: le due guerre mondiali del secolo scorso per esempio, o gli eccidi di massa su base etnica e religiosa, le deportazioni, i regimi dittatoriali violenti sparsi per il mondo. Il ricordo degli avvenimenti tremendi del passato ci aiuta a farsi una ragione del momento di crisi nel quale ci troviamo, a incanalare razionalmente la nostra indignazione senza peraltro che questa venga meno nemmeno un po’. Niente di nuovo sotto il sole, pensiamo.
Non ci si può dunque stupire della banalità del male come oggi si manifesta. Trovare così incredibilmente cattivi, per esempio, i lati oscuri che hanno caratterizzato nascita e gestione politica della cosiddetta pandemia. La storia ha sempre reclamato sangue, anche se ricordarlo non sta bene. Volete dunque, se ritiene necessario quel sangue debba scorrere ancora, che essa si fermi davanti a un vecchio che muore di crepacuore in un ospizio perché ai figli viene impedito di andare a trovarlo? O alle sofferenze e ai lutti che la demolizione controllata dell’economia si porta dietro se è necessario riassestare gli equilibri finanziari del mondo, saltati per l’incrocio tra avidità, malvagità patologica e deficienza intellettuale di qualche plutocrate e dei suoi sottoposti, coloro che questi equilibri avevano il compito di preservare?
Mi si formano allora nella mente i volti di tante vittime sconosciute, uno per uno, scenario per scenario. Mi figuro le loro storie familiari, i vuoti che hanno lasciato dietro di loro. Li immagino dentro una trincea invasa dal fango, rinchiusi in un campo di concentramento, sfollati in un paese straniero, rimasti sotto le macerie di un bombardamento. Provo, anche per la loro sorte, quel senso di vergogna “di chi ha visto accadere quello che non avrebbe dovuto accadere” come così bene si è espresso Giorgio Agamben in una delle sue ultime riflessioni (1). E il senso di umiliazione per il torto a cui non possiamo e forse non abbiamo il coraggio di opporci.
Quelle vittime quasi mai sono state sacrificate in spregio alla legge dei loro carnefici, ma anzi in ottemperanza. I fatti che le hanno coinvolte non si svolgevano contro il diritto, no. Sì svolgevano però contro quello che c’è di sacro in ogni uomo.
Simone Weil nel suo saggio La persona e il sacro (2), scritto prima di morire giovanissima nel 1943, ha spiegato con gli accenti mistici propri della sua anima che se ciò che muove la mano dell’uomo, tutto l’agire della società, è limitato solo dal diritto positivo allora ogni misfatto è sempre possibile, perché “il diritto è per natura dipendente dalla forza”, la norma dipende dalla contingenza del momento storico e vi sono momenti che favoriscono o addirittura esigono la violenza, il delitto e il sopruso.
Il padre a cui è stata sottratta la possibilità di andare a lavorare perché non possedeva il lasciapassare verde ha subito una grande ingiustizia, una dolorosa vessazione. Questo male è stato commesso al riparo di un provvedimento che lo autorizzava. Invece, secondo Simone Weil, l’uomo nel suo agire dovrebbe essere mosso prima di tutto dal pensiero che l’anima a cui viene fatta un’offesa ne rimane straziata. Dovrebbe essere capace di ascoltare il grido dell’uomo ferito: “perché mi viene fatto del male?”. Un grido che, “molti ignorano che venga lanciato. Perché è un grido silenzioso, che risuona soltanto nel segreto del cuore”.
Vi deve essere nell’uomo qualcosa che il diritto non può violare, qualcosa di sacro. Questo qualcosa, dice Simone Weil, non è la persona, considerata astrattamente nel suo ruolo sociale, limitata dalla rivendicazione di avere tanto quanto il prossimo ha, ma “è quello che in un essere umano è impersonale”, quella parte dell’anima cioè che in ogni essere umano “si aspetta che gli venga fatto del bene e non del male”. La pensatrice francese conclude così il suo libello: “Al di sopra delle istituzioni destinate a proteggere il diritto, le persone, le libertà democratiche, occorre inventarne altre destinate a discernere e abolire tutto ciò che nella vita contemporanea schiaccia le anime sotto l’ingiustizia, la menzogna e la bruttezza. Occorre inventarle, perché esse sono sconosciute, ed è impossibile dubitare che siano indispensabili”.
Quando Simone Weil scrive queste parole è a un passo dalla conversione al cattolicesimo che la morte precoce le ha forse impedito di compiere. I riflessi del suo percorso spirituale illuminano la concezione politica che, passata dapprima attraverso la teoria di Marx e verificatene le mancanze, non può più escludere la necessità che un elemento soprannaturale, “l’irradiazione dello spirito”, sia presente nell’ordinamento sociale e lo influenzi: “eccetto l’intelligenza, l’unica facoltà umana veramente interessata alla pubblica libertà di espressione è quella parte del cuore che grida contro il male. Ma poiché non sa esprimersi, la libertà per lei conta poco. Innanzitutto tutto bisogna che la pubblica istruzione sia tale da fornirle il più possibile i mezzi espressivi. Occorre poi, per la pubblica espressione delle opinioni, un regime caratterizzato non tanto dalla libertà quanto da un’atmosfera di silenzio e di attenzione ove questo grido fievole e maldestro possa farsi udire. Occorre infine un sistema di istituzioni tale da portare il più possibile alle funzioni di comando uomini capaci e desiderosi di udirlo e di comprenderlo”.
L’invocazione di Simone Weil non è stata raccolta: non sarà un caso che vediamo oggi in tutto il mondo occidentale ruoli fondamentali occupati da persone manifestamente inadeguate, a un grado tale da farcele apparire addirittura caricaturali. La loro mancanza di empatia è visibile a chiunque abbia un po’ di cuore per vedere e sentire. Quella di chi sta dietro le comparse sul palcoscenico possiamo solo immaginarla.
È una concezione quella di Simone Weil che la morte sopravvenuta di lì a poco le ha impedito di elaborare a fondo. Le necessità da lei individuate conservano tutta la loro urgenza ma fino ad oggi non è stato trovato rimedio alla prevaricazione del diritto sul sacro e questa prevaricazione, nelle varie forme che il leviatano può assumere, per esempio attraverso un’invadenza parossistica della normativa nella nostra vita privata, è giunta ormai a un’estensione tale che quel grido, “perché mi viene fatto del male”, resta soffocato in gola anche ai pochi che avrebbero le parole per esprimersi e i mezzi per farsi ascoltare.
NOTE
- Giorgio Agamben, La verità e la vergogna, quodlibet.it
- Simone Weil, La persona e il sacro, Adelphi Edizioni,