di Giovanni Lugaresi
C’è un argomento che non perde mai di attualità: la morte. Di conseguenza: i funerali. Per chi crede: “la messa da morto”. Sì, noi la chiamiamo ancora così, anche se spesso par di trovarsi ad una sagra rumorosa, con giovani che suonano la chitarra (se il morto è un loro coetaneo), con recite di preghiere improvvisate o poesie (se il morto amava la letteratura e la spontaneità), con discorsi elogiativi (quasi sempre) da parte del sacerdote, anche se il morto era stato un poco di buono, più che mai bisognoso della misericordia divina.
Non avremmo nulla da eccepire, se questi fatti avvenissero fuori di chiesa, dopo la messa e dopo la benedizione del feretro. Abbiamo molto da eccepire invece perché vengono consentiti durante le celebrazioni religiose.
Due funerali abbastanza recenti hanno evidenziato quel che l’estremo saluto al defunto è diventato. L’addio a don Andrea Gallo, prete genovese disobbediente, che non rendeva conto ad alcuna autorità religiosa dei suoi comportamenti, come l’accettazione (e il… favoreggiamento) dell’aborto. A proposito della vergognosa sceneggiata avvenuta in chiesa, un commentatore laico, Stefano Di Michele, aveva avuto modo di avvertire: “… E’ da un po’ di anni che pure i funerali, in Italia, stanno diventando una sorta di spettacolo che travolge il rito e la commozione: chi applaude, chi canta, chi contesta. Intorno all’atto estremo, invece del silenzio, chiacchiere e rivendicazioni e vanità: certi che vorrebbero, nell’occasione, essere insieme il morto, il prete e il giustiziere…”.
Viene alla mente, en passant, quanto Montanelli sottolineava parlando della vanità di Malaparte: “a un matrimonio vorrebbe essere la sposa, a un funerale, il morto!” a dare l’idea dell’ego smisurato, della mania di protagonismo dell’autore di Kaputt…
L’altro funerale (laico, laicissimo) che ci viene alla mente è quello di Franca Rame: una sorta di comizio-spettacolo, o spettacolo-comizio al “rosso compagno”. Eppure, anche se questo funerale non ci riguarda, non ci interessa, ugualmente vorremmo sottolineare quel che erano una volta i funerali (anche) degli anticlericali: repubblicani e socialisti e massoni della Romagna che fu, secondo la nostra esperienza diretta. Non venivano portati certamente in chiesa, quei morti. Ma c’era un costume imperante: il silenzio. Bandiere rosse con falce e martello, bandiere rosse con l’edera, magari un’orazione (ma nel più assoluto silenzio), e la banda che scandiva le note della Marcia funebre di Chopin (quella che si ascolta anche in uno dei film del guareschiano Don Camillo al funerale del giovane comunista morto negli scontri di piazza del 1960 a Reggio Emilia, per intenderci), ma per il resto, si procedeva lentamente dietro il carro funebre – qualche bisbiglio soltanto… Il silenzio, nel mistero della morte, accomunava un tempo credenti e non credenti, all’insegna del rispetto per la morte stessa, e per il defunto ben s’intende.
Ma poi? Si incominciò con l’applauso al funerale di Anna Magnani (o era quello di Totò?), ma fuori di chiesa. Da allora, i battimani si sono moltiplicati, elevati all’ennesima potenza, per così dire, e il mondo clericale li ha accettati, incoraggiati, esortati (sempre i preti, responsabili dell’andazzo!!!) all’interno delle chiese e tutto fa brodo per invitare i fedeli ad applaudire: funerali, matrimoni, battesimi.
Basta! Non se ne può più. Non siamo a teatro; non siamo allo stadio; non siamo a una festa di laurea.
Silenzio, silenzio, silenzio – si va cercando da parte di tantissimi. Possibile che, se non con rare eccezioni, i sacerdoti abbiano dimenticato (perso) il valore del silenzio?…
Per tornare alla “messa da morto”, siamo andati a rileggerci un intervento apparso sul settimanale Epoca nell’estate del 1972, a firma di Vittorio G. Rossi. Lo si trova su internet, scrivendo semplicemente “Vittorio G. Rossi messa da morto”.
Lo scrittore stigmatizzava la nuova liturgia funebre, e con ragione, perché togliendo Il Dies irae, il Libera me Domine, il In paradisum deducant te, angeli, eccetera, erano stati tolti il senso della terribilità del Giudizio per i peccati commessi in vita, e quella piccola fiammella che si chiama speranza nella Misericordia divina, e la messa da morto veniva declassata, per così dire, a un ricordo banalmente sentimental-spettacolare.
Certo, qualche esagerazione nello scritto di Vittorio G. Rossi poteva esserci, ma a una rilettura, raffrontata a quel che oggi sono diventati i funerali religiosi, vien da dire: preti, tornate all’antico, tornate alla vera messa da morto!