La guerra obbligatoria e la quadratura del cerchio

La condizione di belligeranza obbligatoria imposta ora agli italiani ricorda da vicino l’addestramento dei cani in certi centri specializzati, ma sottintende che il guinzaglio messo loro al collo potrebbe essere in realtà un capestro pronto a stringersi al primo tentativo di resistenza o di fuga. 

Una condizione a dir poco paradossale, che però non sembra percepita dalle coscienze smarrite e dalle menti appannate di un popolo adattato da tempo al proprio stato servile e a vivere nel sottoscala della politica internazionale come lo stuolo dei domestici che abitavano nel piano interrato delle case signorili inglesi.

Per questa guerra imbastita da tanti anni, i padroni americani mandano avanti i servi debitamente ammaestrati dal servizio mediatico diventato indispensabile per formattare il consenso e la reputazione da quando, ai tempi del disastro vietnamita, senza un adeguato apparato propagandistico, i muri di mezzo mondo di ricoprirono dell’imbarazzante “yankee go home”.

Il nuovo esercito italiano schierato per conto terzi contro la Russia comprende diverse specie di belligeranti: ci sono quelli che per età, o/e per pura insipienza, vedono tutta la faccenda eccitante come il videogioco col quale di tanto in tanto riempiono il vuoto del loro vivere quotidiano, figli incolpevoli di una deculturazione guidata che li ha collocati fuori dalla realtà. 

Poi c’è la grande massa dei devoti autoaffidati alla predicazione serale televisiva, cinghia di trasmissione degli ordini superiori.

Il sacerdozio televisivo, che è anche femminile, impone il culto di questa guerra obbligatoria, giusta perché umanitaria, cioè volta anzitutto alla difesa dei bambini. Di essi è stata finalmente avvertita l’esistenza, dopo la loro accertata inesistenza nelle guerre padronali del passato prossimo. Inesistenza che ha consentito un comprensibile disinteresse verso 500.000 piccoli iracheni non a caso computati come “effetti collaterali” inevitabili di una guerra umanitaria e democratica, e dunque necessaria, anche nell’orizzonte del pensiero egemonico ben rappresentato dalla indimenticabile Albright e da altri illustri compatrioti. 

Si capisce così come, in ragione della loro effettiva inesistenza, non vengono messi in conto dai neobelligeranti italici neppure i bambini interessati dalla guerra imminente che il duo Draghi-Mattarella sta portando allegramente in casa nostra. 

I due comandanti guidano a loro volta un terzo drappello di eroici combattenti per la guerra giusta, ovvero l’invincibile armata, compatta da destra a manca come una falange macedone, dei politici di professione. Infatti la professione implica, come è noto, obblighi di prestazioni in cambio di protezione. Mentre soltanto un bancario di lungo corso poteva spiegare alla classe delle professioniste e dei professionisti, in modo chiaro da essere compreso da tutte e tutti, come funzioni la partita doppia, costi benefici, di questo affare. In particolare, ad esempio, come e perché vadano calcolati tra i profitti i missili amici sparati ad un tiro di schioppo da Venezia o da Pisa. 

Ma questo interventismo, come accennato sopra, poggia su una solida base morale. C’è in ballo una cosa importante come la guerra giusta.

Come è noto, si tratta di un concetto labirintico che ha affaticato, a partire dall’era cristiana, la coscienza di filosofi e teologi, pensatori liberi, di intellettuali organici variamente impegnati e condizionati dalle contingenze storiche con cui si sono trovati a fare i conti. Infatti è stata anzitutto la morale cristiana a trovarsi impigliata nella difficoltà di conciliare, in una sorta di quadratura del cerchio, i propri fondamenti dottrinali antibellicisti con realtà umane e storiche incapaci di eliminare lo spettro della guerra. E proprio perché la realtà delle cose si impone sulle buone intenzioni, mentre qualche volta sono proprio le buone intenzioni a consigliare la guerra, si è arrivati nell’età moderna alla formulazione di una disciplina comune sia per la intrapresa della guerra, sia per la sua conduzione “morale”, ovvero secondo canoni etici accettabili. 

Cioè è stato elaborato un codice per lo ius ad bellum, e uno anche per lo ius in bello, forse più facilmente applicabile del primo, dato che tutti possono essere parimenti interessati a un comportamento rispettoso della dignità e dei diritti del nemico e alla proporzione dei mezzi offensivi impiegati. 

Una mappa di buoni principi con cui, tutto sommato, ci si è potuti baloccare nella illusione che le pulsioni e le contingenze umane possano essere messe in forma attraverso le idee di pensatori volenterosi quanto velleitari. Tanto che quei principi, tutto sommato molto vicini a quelli già individuati da Tommaso d’Aquino qualche secolo addietro, hanno potuto trovare tardiva ospitalità anche in certi documenti prodotti dall’ONU nel 2005. 

Ma la sconvolgente evoluzione dei mezzi militari e la guerra aerea avevano già scompaginato platealmente tutte le possibili regole del gioco bellico fino a renderle ormai quasi risibili. Una barbarie senza precedenti quella della guerra aerea scoperta dal genio moderno, che impedisce ogni difesa e ogni fuga, mentre cancella in un colpo solo tutta l’identità storica e culturale impressa nelle città rase al suolo senza fatica, tutta la memoria che le generazioni portano con sé.

Poi, come se non bastasse, dopo la potenza annientatrice della guerra aerea, è arrivata quella della bomba termonucleare. Sicché lo squilibrio delle forze è diventato lo strumento per realizzare a poco prezzo ogni voglia egemonica, e soddisfare in particolare le ossessioni universalistiche statunitensi. 

Nel vertiginoso prodursi di armi sempre più micidiali capaci di stravolgere ogni rapporto tra uomo e mezzo e di ampliare a dismisura la eventuale sproporzione tra le forze in campo, la popolazione cosiddetta civile è diventata la protagonista involontaria e decisiva della guerra contemporanea. Ben al di là del ruolo assunto nelle guerre pur cruente del passato.

Di primo acchito, quando della sproporzione e della mostruosità dei mezzi moderni era ancora percepita chiaramente la perversione, la guerra è stata vista “ingiusta” in sé e il concetto stesso di guerra giusta ha dovuto essere rimesso in discussione. Ma la politica e le ossessioni ideologiche possono mandare “l’acqua all’insù” e anche il filosofo venerabile che aveva teorizzato l’ingiustizia intrinseca della guerra moderna in seguito ha potuto tranquillamente plaudire all’intervento degli amici nella guerra del Golfo, perché quelli che combattono sotto lo stendardo della democrazia fanno solo guerre giuste. Un’idea fornita di una certa capacità di durata perché, come sappiamo, sulla realtà delle cose prevale, oggi più che mai, l’interpretazione. 

Va sempre ricordato che molto presto anche le bombe al fosforo su Dresda e persino le atomiche sulle città giapponesi sono state archiviate fra le conseguenze fatali e ineluttabili di un intervento necessario e di buona reputazione. A riprova che, anche a proposito della guerra, trionfa la lezione disincantata di Trasimaco e quella romana per cui è giusta la guerra “quibus est necessitas”. 

Tuttavia la storia della guerra giusta perché democraticamente ispirata non poteva reggere alla prova dei fatti e il consenso delle masse che garantisce stabilità del sistema richiede di appoggiarsi su una diffusa moralità collettiva.

Così, la macchina propagandistica dell’aspirante padrone universale ha inventato la guerra umanitaria che, col suo ampio respiro indefinito, è idea meno rischiosa e più attraente. Si possono dispensare guerre umanitarie aeree contro un nemico necessariamente disumano, quindi criminale, sul quale incombe l’ombra del processo e quella di patibolo. Schmitt lo aveva ha messo a fuoco una volta per tutte. 

Così, a depurare le iniziative belliche occidentali da ogni cattiva intenzione, un po’ come quando si abbassano i limiti di balneazione per rendere l’acqua più pulita, la nuova guerra democratica ed umanitaria ha reso legittime tutte le nuove guerre, senza più bisogno dei criteri già inutilmente consacrati nel baraccone internazionale preposto al mantenimento della pace eterna, del quale non a caso stiamo dimenticando anche l’esistenza. 

Su questo sfondo sono state formate per tempo le falangi belliciste nostrane, digiune di storia e di geografia, incapaci di leggere l’ossessivo espansionismo americano, messianico ma immancabilmente truffaldino, come quello esibito dal primo Roosvelt nelle Filippine, quando si mostrò al mondo una vocazione al gioco sporco mai venuta meno. 

Tuttavia dietro questo interventismo fatuo, umanitario, punitivo e ottuso c’è forse soprattutto l’idea, inoculata negli italiani da tre quarti di secolo, secondo la quale occorre obbedire al padrone, qualunque cosa esso comandi, “perché abbiamo perso la guerra”. Anche se si tratta di un assioma truffaldino, una premessa ricattatoria priva di ogni giustificazione logica, storica e morale, che cozza contro la verità e la decenza, e sulla quale una “classe politica” servile quanto cieca sta apparecchiando il suicidio collettivo con la leggerezza con cui fu apparecchiato a suo tempo il vergognoso tradimento autolesionista della Libia e la indecente partecipazione alla distruzione della Serbia, sotto la guida di D’Alema e dell’empiterno Mattarella. 

Si sa che il vincitore presenta il conto inesorabile della vittoria. Sparta chiese e ottenne da Atene la demolizione delle grandi mura che l’avevano fatta sentire invincibile. Chi subisce l’annichilimento perde anche la propria identità e libertà spirituale. È accaduto alla Germania e al Giappone, nei confronti dei quali è stata perpetrata la più abietta violazione dello jus in bello per ottenere anche un annientamento morale. Ma l’Italia aveva chiamato gli Alleati dopo essersi liberata dal regime che l’aveva condotta in guerra, e come liberatori li aveva accolti, arrivando al punto di mettere a loro disposizione la propria flotta. 

Invece il trattato di pace prevedeva il trattamento più umiliante e punitivo che si applica allo sconfitto, finalizzato ad assicurare la sudditanza a tempo indeterminato di una intera nazione, destinata d’ora in poi ad obbedire per timore. 

L’annichilimento italiano è arrivato dunque in modo obliquo, perché si è ottenuto l’asservimento attraverso il baluginare di nuovi allori, di nuove promozioni, mentre veniva preparata una morsa economica, etica e politica dalla quale sarebbe stato stritolato chiunque tentò poi di liberarci. 

Il trattato di pace che sancì l’umiliazione e l’asservimento dell’Italia fu sottoscritto da una maggioranza già in odore del cattocomunismo politicamente corretto e atlantista prossimo venturo, che oggi copre ogni spazio di libertà politica e culturale. 

Benedetto Croce ebbe chiarissimo questo quadro disperante e fu voce minoritaria se non isolata in mezzo al coro di quei cantori e pronunciò un discorso memorabile quanto disatteso.

Così iniziava il suo intervento di opposizione alla firma del trattato di pace, il 24 luglio 1947.

«Io non pensavo che la sorte mi avrebbe, negli ultimi anni della mia vita, riserbato un così struggente dolore come questo che provo nel vedermi dinanzi il documento che siamo chiamati ad esaminare». Quel documento, diceva, al di là delle misure punitive, pretende di formulare un giudizio morale per una colpa che dovrebbe essere espiata proprio con il pentimento e redenta attraverso l’asservimento al vincitore. 

Si soffermava sulla miserabile ipocrisia per cui «è invalso l’uso di distruggere il vinto attraverso la messinscena dei tribunali e delle forche». L’ipocrisia usata verso gli italiani era più sottile: veniva promessa loro, in cambio del mea culpa e della obbedienza, il premio della ammissione nel retrobottega dei consessi internazionali, come si conviene a “scolaretti pentiti”. Eppure l’Italia aveva scelto di liberarsi dal regime che l’aveva condotta in guerra prima dell’intervento dei liberatori, tanto che le potenze vincitrici avevano «accettato e sollecitato il suo concorso nell’ultima parte della guerra, contro la Germania», «per poi escluderla dai negoziati di pace, là dove si trattava dei suoi interessi più vitali». E tutto ciò «per avere le sorti italiane come una merce di scambio tra voi, per equilibrare le vostre discordi cupidigie o le vostre alterne prepotenze…». Infine avvertiva, disincantato, che, anche se il trattato non fosse stato firmato, il trattamento da applicare all’Italia era già stato deciso comunque dagli illuminati vincitori e che dunque era quanto meno doveroso salvare la dignità a fronte di un sopruso fondato sulla falsificazione dei fatti e delle idee. Infatti, concludeva, «le future generazioni potranno sentire in sé stesse la durevole diminuzione che l’avvilimento da noi consentito ha prodotto nella tempra italiana, fiaccandola».

Ma il trattato fu ratificato. I firmatari erano appagati anche dal miraggio della ricostruzione. Un concetto che appartiene tutto alla nuova barbarie. L’idea maligna per cui la possibilità della ricostruzione abilita preventivamente la distruzione, spianando la strada alla follia di guerre senza scrupoli e senza ragione. 

Chi si avventuri oggi fino a guardare da vicino la massa che giganteggia sulla sommità di Montecassino, ovvero il monastero “ricostruito”, non può che sentire tutta la oscena realtà di quell’idea che ci è stata impressa e murata. 

In ogni caso, è possibile pensare che, rifiutando qualunque ricostruzione riparatrice, avremmo potuto evitare l’installazione di un armamentario militare comprensivo di ordigni atomici grazie a quali viviamo in una polveriera a cielo aperto. 

Ma la tempra italiana, come paventava Benedetto Croce, un autore uscito presto anche dai programmi scolastici, è stata fiaccata e dissolta nel nulla del pensiero obbligato, che ora è capace di montare la guerra come un giocattolo dalle emozionanti attrattive spettacolari, mentre la fatuità dell’interventismo da salotto diventa sempre più tragicamente incosciente e irresponsabile. 

Tuttavia, un po’ di quella tempra la si vede anche sopravvivere nel piccolo resto, che forse piccolo non è per nulla, di tanta gente comune rimasta capace di affidarsi al buonsenso e alla sapienza vera delle cose, e alla ragione naturale, capace di vedere al di là delle colonne di fumo immesse sulla realtà. Questa gente, determinata ad allontanare un’ultima immane sciagura, forse può ancora opporsi alla marea distruttiva della arroganza e della prepotenza più insensate.

1 commento su “La guerra obbligatoria e la quadratura del cerchio”

  1. Günther Schreiber

    Grazie per questo saggio, sconvolgente di verità. Approccio alla verità storica secondo il sommo principio di ogni storico onesto:
    Ad Fontes!! Quel maledetto Trattato di pace (da cimitero!), smascherato dal grande Benedetto Croce!
    Fin da piccolo, nelle rovine della Zona occidentale della Germania avevo intuito la fallacia del discorso dell’egemone collocato a
    Wallstreet ed alla City of London – intuizione confortata con gli anni dagli fatti – sì, ma…??? Ma come fare oggi per sgomberare
    la mente delle masse sommesse da quel peso mortifero della
    propaganda ?!
    Raccomando la lettura apri-occhi che presenta il libro di
    Maurice Bardèche: Nuremberg – ou la Terre Promise, ideato subito
    dopo la chiusura di quel simulacro di tribunale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Seguici

Seguici su Spotify e Youtube

Cari amici,
con “Aleksandr Solženicyn: vivere senza menzogna”, primo episodio del podcast “Radio Ricognizioni. Idee per vivere senza menzogna”, il nostro sito potrà essere seguito anche in video e in audio sulle due piattaforme social.

Podcast

Chi siamo

Ricognizioni è nato dalla consapevolezza che ci troviamo ormai oltre la linea, e proprio qui dobbiamo continuare a pensare e agire in obbedienza alla Legge di Dio, elaborando, secondo l’insegnamento di Solženicyn, idee per vivere senza menzogna.

Ti potrebbe interessare

Eventi

Sorry, we couldn't find any posts. Please try a different search.

Iscriviti alla nostra newsletter

Se ci comunichi il tuo indirizzo e-mail, riceverai la newsletter periodica che ti aggiorna sulla nostre attività!

Torna in alto