… di come un concetto banale impegnato a promettere più di quanto non possa mantenere, sia stato in grado di inquinare il diritto, la scienza, la politica, la religione e il buon senso comune, dopo essere stato partorito da una filosofia velleitaria e truffaldina. Ovvero le applicazioni e implicazioni sociali della autodeterminazione.
di Patrizia Fermani
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La morte inflitta per ordine del giudice ad un disabile innocente è fra le mostruosità di questi tempi forse quella che ancora riesce a scuotere una indifferenza diffusa e rassegnata. Infatti la domanda che molti debbono essersi posti spontaneamente, è perché mai della vita di un essere umano disponga un giudice come accadeva un tempo e accade ancora quando infligge la pena capitale. Quasi che alla res publica depositaria del bene comune, si sia sostituito il leviatano a cui vengono sacrificati sudditi inermi. Ed è quasi una liturgia di sacrifici umani, quella inaugurata anni addietro con la terribile storia di Terry Schiavo, replicatasi in quella di Eluana Englaro, fino alla vicenda recente del piccolo Charlie, per restare soltanto a casi resi noti dalla cronaca, accomunati dal tragico finale ma destinati a moltiplicarsi se non ci sarà un forte risveglio della coscienza collettiva.
Nei primi due casi c’era un essere umano incapace di esprimere la propria volontà e di badare a se stesso, bisognoso per sopravvivere soltanto della nutrizione indotta artificialmente, mentre anche le macchine sostenevano le funzioni vitali di Charlie Gard: per tutti la decisione se potessero continuare a vivere è spettata ai giudici.
Ma al di là dell’aspetto procedurale, ci troviamo anzitutto di fronte allo stravolgimento del principio fondamentale della convivenza umana, quello della indisponibilità della vita. Un principio che segna il primo passo di ogni civilizzazione, e spesso deve essere fatto valere anche contro il tiranno, sempre incline ad impossessarsi della vita del suddito. Si profila così sinistramente l’ombra dell’eutanasia legalizzata, che diventa eutanasia di stato, perché il giudice che dispone della vita più indifesa appare sempre più come la longa manus di un nuovo totalitarismo, travestito dal suo contrario, e che opera attraverso una nebulosa di idee degenerate sedicenti filosofiche, scientifiche, giuridiche, politiche e persino religiose in grado di offuscare la ragione e confondere la realtà nel vuoto delle parole contraffatte.
La prova d’orchestra di questo programma da tempo in gestazione, rimane la vicenda di Eluana Englaro, e i sui motivi conduttori li troviamo riproposti nel disegno di legge sulle “dichiarazioni anticipate di trattamento” che torna di nuovo in discussione alla Camera.
E per capire le perverse implicazioni di questo conviene ricostruire ancora una volta anche i passaggi essenziali di tutto un iter legislativo e giurisprudenziale.
Occorre prendere le mosse, almeno per quanto riguarda l’Italia, da norme, anche costituzionali, nate da buone intenzioni.
Punto di partenza obbligato è l’ articolo 32 Cost.2°comma per cui “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Il legislatore costituzionale guardava al recente passato delle sperimentazioni anche cliniche sull’uomo in ossequio ad una perversa ideologia politica, e intendeva scongiurare il pericolo della violenza fatta in nome della scienza e della ricerca, mettendo in risalto, a contrario, il diritto di ognuno di sottrarsi a qualunque trattamento sanitario. Tuttavia non ignorava che un diritto assoluto di questo tipo potesse confliggere con l’interesse pubblico e che quindi dovesse incontrare dei limiti (ad esempio nel caso del trattamento sanitario obbligatorio). Per questo la norma, formulata in negativo e messa in relazione con l’articolo 13, nasce come difesa da ogni sopruso, ma anche in armonia con altre esigenze di convivenza comune.
Non essere obbligati a subire un qualunque trattamento sanitario, significa poter rifiutare anche cure capaci di salvare la vita, fuori dei casi come quello del soccorso urgente, in cui è imposto per legge agli operatori sanitari di intervenire senz’altro. Ma da questo non si può certo dedurre che il legislatore abbia considerato con benevolenza l’ipotesi del paziente che muore per essersi sottratto a cure necessarie. Infatti l’ordinamento tutela il bene fondamentale della vita anche a dispetto del soggetto che se ne voglia privare, come dimostrano le norme che puniscono l’aiuto e l’istigazione al suicidio o, sia pure in forma attenuata, l’omicidio del consenziente. Insomma se per l’articolo 32 è possibile rifiutare anche cure indispensabili per sopravvivere, questo non significa che sia stato consacrato il principio del rispetto assoluto della volontà di rinunciare alla vita.
Il principio ispiratore della norma rimane quello della difesa della libertà individuale di fronte al potere, in armonia con l’interesse pubblico ovvero col bene comune.
Intanto però i progressi della medicina e delle tecnologie ad essa applicate, che possono aiutare a prolungare la vita del malato grave qualche volta anche in modo artificioso e invasivo, ha fatto sì che il guadagno di vita in termini di tempo e senza speranza di guarigione, possa essere pagato con un prolungamento insostenibile della sofferenza, e si è avvertito il pericolo che le stesse cure possano diventare da sole una minaccia per l’individuo, attraverso lo spettro dello accanimento terapeutico, col suo fardello di patimenti inutili. Ecco allora la necessità di mettere il paziente nella condizione di valutare il proprio interesse concreto a sottoporsi o meno alle terapie. Si rende necessaria l’informazione come presupposto per acconsentire o rinunciare coscientemente e responsabilmente ad un trattamento sanitario nei limiti consueti. Nasce l’esigenza di quello che è chiamato con espressione impropria un “ consenso informato”. Cosicché la possibilità di rifiutare le cure mediche, comprese quelle capaci di assicurare la sopravvivenza, venga sostenuta da una sufficiente conoscenza della natura e della efficacia delle terapie proposte. Del resto la morte come rimedio estremo per una condizione insopportabile appartiene anche alla visione cristiana e sta nella stessa invocazione al Padre del Cristo sulla croce, e in tutta la narrazione del martirologio cattolico. Ma ancora una volta senza che nella normativa in questione si possa leggere una sorta di incoraggiamento a rinunciare alla vita da parte della legge e che il diritto conferito all’individuo cosciente di rifiutare anche cure capaci di prolungare l’esistenza, significhi l’incoraggiamento al suicidio, perché la volontà di morire è cosa diversa dalla volontà di non subire cure insopportabili a qualunque costo. In ogni caso la norma trova nell’ordinamento il limite dell’articolo 54 del codice penale sullo stato di necessità.
Tuttavia il consenso informato presuppone ovviamente che chi lo presta o rifiuta il trattamento sanitario sia capace di intendere e di volere. Perciò le cose vanno diversamente, se il soggetto è incapace di scegliere responsabilmente e coscientemente in merito alle cure mediche e si presenta l’esigenza che esse gli siano comunque assicurate. Il consenso deve gravare sul genitore del minore o su chi esercita la potestà tutoria. Si poteva discutere se il consenso informato rientrasse fra quegli atti personalissimi che sono interdetti al tutore, ma poiché quella della tutela è proprio una funzione di cura e di assistenza dell’incapace, è ammesso che al tutore spetti il compito di prestare il consenso informato nell’interesse dell’assistito e quindi anche di negarlo, ovvero gli sia rimessa la valutazione del rapporto tra costi e benefici della terapia e quindi anche della sua concreta necessità. Ma si tratta di un potere più limitato rispetto a quello della persona capace di intendere e di volere, che di fatto può anche accettare il rischio di compromettere la propria sopravvivenza.
Qui l’interesse del paziente a sottoporsi o a rinunciare alle cure deve essere valutato secondo criteri oggettivi, e non può più comprendere in ogni caso la possibilità di una rinuncia alle cure necessarie per sopravvivere, anche al di fuori della ipotesi di accanimento terapeutico. Il tutore non può scegliere il rischio della morte certa rinunciando per il suo assistito alla speranza di vivere, se questi non è in grado di disporre coscientemente e responsabilmente della propria esistenza. Il principio di indisponibilità della vita altrui non può soffrire eccezioni nelle quali si possa insinuare l’arbitrio del terzo, soggetto privato o pubblico che sia.
Se poi si profila il conflitto tra il tutore e i famigliari o con un altro tutore, sulla decisione da prendere per la cura della persona bisognosa di essere assistita, ecco che la sua soluzione secondo le regole viene affidata al giudice. Ma anche il giudice non può non incontrare il limite della indisponibilità della vita altrui, e non potrà decretare la rinuncia a cure capaci di assicurare la sopravvivenza, sul presupposto ipotetico che questa sarebbe stata la volontà di chi ora è incapace di intendere e di volere.
Caso del tutto diverso da quelli considerati finora, è poi quello di chi versa in stato vegetativo e pur non avendo bisogno di particolari terapie, non è in grado di nutrirsi autonomamente, e viene tenuto in vita grazie ad un aiuto esterno che non è curativo ma semplicemente sostitutivo, come accade per il neonato al quale viene somministrato il latte col biberon.
Siamo del tutto fuori dalla prospettiva dell’ articolo 32, del consenso informato e dalle ragioni che l’hanno introdotto. Non ci sono terapie in atto perché la nutrizione non è una terapia. Il compito del tutore si restringe ad assicurare buone condizioni di vita all’assistito.
Poiché la nutrizione indotta è l’unico mezzo che assicuri la sopravvivenza, non richiede l’approvazione di chicchessia, non è rinunciabile dal tutore o da un congiunto, e se alla sua sospensione intenzionale segue la morte della persona che doveva essere assistita, siamo di fronte ad un omicidio per omissione.
Eppure è stata proprio questa la soluzione finale escogitata per Eluana Englaro, su richiesta del padre tutore, dalla prima sezione della cassazione, presieduta dalla signora Luccioli. La povera Eluana, il cui grado di coscienza non era neppure stato accertato, è stata fatta morire per fame e per sete, secondo le aspettative paterne, grazie ad una decisione costruita ad hoc che ha piegato impunemente le norme vigenti ad un fine ideologicamente predeterminato, ha contraffatto la legge calpestando il principio della intangibilità della vita altrui.
Come si è arrivati a questo a partire da un quadro chiaro di principi che regolavano una delicata materia e che avrebbero dovuto continuare a regolarla?
Il fatto è che negli anni quei principi hanno subito uno slittamento e una erosione assai pericolosa, e si è andato perdendo addirittura il senso stesso del diritto e il significato dei diritti, la funzione della legge e l’identità dei valori sui quali soltanto può continuare a reggersi una qualunque società in salvo dalla ferocia della tirannia mascherata da democrazia e dalle devastazioni della anarchia.
Anzitutto ha cominciato a farsi strada anche nella giurisprudenza costituzionale un criterio ermeneutico inedito e spurio che non compare materialmente nelle norme positive ordinarie e costituzionali. Si tratta della famosa autodeterminazione che ha fatto una brillante carriera nel culturame del secondo novecento. Di certo non aveva nulla a che fare con il libero arbitrio di san Tommaso, col dominio delle passioni, e neppure con il mito del super io. Era quella inventata dalle femministe fra i deliri sessantotteschi e inalberata ossessivamente negli anni settanta a sostegno della libertà di aborto e delle altre rivendicazioni fomentate ad arte per scardinare la società attraverso la demolizione della famiglia. Insomma una versione abbigliata del vietato vietare. Significava, in soldoni, la ribellione alle norme regolatrici della vita sessuale e famigliare, inaugurata sì dalle femministe, ma poi condita ad orecchio con la lotta di classe che i compagni i maschi avevano riesumata per dare un senso alla bagarre. Senza immaginare, i poveretti, che di questa, lì a poco, sarebbero stati i primi a farne le spese con la esplosione della isteria antimaschilista. L’autodeterminazione, come la libertà, appartiene naturalmente al campo della filosofia, della teologia e persino della psicologia. Può significare la libertà di prendere decisioni autonome, come la vittoria della ragione sugli istinti, secondo la morale cristiana, oppure al contrario la vittoria delle pulsioni emotive sulla prima secondo il prezioso e accreditato insegnamento di Susanna Tamaro. In altre parole si tratta in ogni caso di un’idea radicalmente estranea, anche per la sua indeterminatezza, alla natura precettiva del diritto positivo, che nel regolare la vita comunitaria guarda all’interesse collettivo in vista del bene comune e solo in questa prospettiva può elevare a diritti gli interessi riconosciuti oggettivamente meritevoli di essere tutelati.
La libertà e le sue derivazioni, per acquistare concretezza nel mondo del diritto, hanno bisogno di essere determinate nei contenuti e nei termini di relazione senza i quali rimangono parole vuote. Il diritto positivo non tutela astrattamente. come vorrebbero gli eterni sanculotti, la libertà e l’uguaglianza che non significano nulla in sé, se non sono specificate nei loro limiti imprescindibili e nel loro oggetto. Può essere garantita dalla legge non la libertà astrattamente intesa ma la libertà di qualcosa e nei confronti di qualcuno, come l’autonomia o l’autodeterminazione che dir si voglia (senza rilevarne in questa sede le possibili differenze concettuali), che, come possibilità di decidere liberamente, va considerata in rapporto all’oggetto della decisione e del potere che possa contrastarla o limitarla. Ma soprattutto la tutela della libertà individuale non può prescindere da quella dell’interesse generale, per cui non è concepibile la libertà di commettere atti illeciti o di sovvertire l’ordine pubblico.
Eppure quelle idee nate da viete rappresentazioni ideologiche si sono radicate nel linguaggio fino a fare dimenticare la loro incongruità, la loro pochezza e soprattutto il loro potenziale distruttivo. Anzi, dal linguaggio comune sono passate a quello di una magistratura sempre più espressione del potere politico culturalmente dominante. Del resto l’autodeterminazione era stato il criterio ispiratore della sentenza della Corte Suprema americana che apriva la immane mattanza degli aborti ad libitum, giustificati soltanto dal fatto di essere voluti dalla gestante. Ma come vedremo sarà anche il criterio per introdurre l’eutanasia sotto le vesti del testamento biologico.
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Dunque il linguaggio creato dalla degenerazione della “cultura” sinistrorsa si è insinuato, o è stato assunto volutamente, in quello tecnico dei giuristi, inquinandone i contenuti e la funzione. Ed ecco come l’autodeterminazione, che di per sé non voleva dire nulla e non compariva nei testi legislativi, è diventata pane quotidiano del nuovo lessico giuridico sulla strada aperta da una corte costituzionale più creativa di Cattelan e non meno dannosa.
Essa sembra avere come obiettivo quello di cambiare una Costituzione rigida, che prevede situazioni tipiche di diritto e il cui testo può essere modificato soltanto attraverso la particolare procedura di revisione, con una Costituzione liquida che si può allargare o restringere a piacimento, adattandola a quell’individualismo relativista capace di mettere in ombra i principi primi inderogabili dell’etica, del diritto naturale e della retta ragione. Finirà così per individuare persino un fantomatico diritto di autodeterminazione capace di scardinare gli stessi principi fondanti dell’ordinamento.
Ha preso da tempo ad enucleare “nuovi diritti” inviolabili, spesso incompatibili con quelli costituzionalmente garantiti, e quindi capaci di aprire anche nuovi conflitti. Li trae i fuori dall’articolo 2 della Costituzione, diventato il famoso cilindro da cui si possono estrarre infiniti conigli, quanti sono i diritti immessi alla bisogna sul mercato dal politicamente corretto eterodiretto. In poche parole, i custodi della Costituzione hanno cominciato di fatto a sostituirla con un’altra alternativa e spesso in contraddizione con la prima senza incontrare ostacoli.
Ma c’è alla base di questa falsa prospettiva ermeneutica proprio il fraintendimento del senso stesso del diritto e della sua funzione.
Così già nel 1975 arriva la sentenza n. 28 sull’aborto, in cui il “diritto alla salute psichica della donna” comincia a sopraffare l’inviolabilità della vita umana. Di conseguenza sarà l’autodeterminazione della donna a fare da basso continuo alla legge 194. Il femminismo aveva dato alla volontà il nome di diritto contro i doveri che vengono da valori superiori e dal bene comune. Anche la intangibilità della vita umana viene travolta dalla supremazia dell’io, dalla volontà individuale che, fra l’altro, non ricomprende neppure quella del padre. In unica soluzione il femminismo intellettualoide e ottuso partorito da una borghesia alienata ha ottenuto l’uccisione del figlio e quella del padre, gettando il seme dell’omosessualismo e della inseminazione in vitro. Una prova storica di come da idee insignificanti possano scaturire enormi disgrazie.
Dunque, l’autodeterminazione senza altro punto di riferimento è entrata nel lessico e nella sagrestia delle corti superiori e tutti si sono convinti che ci dovesse stare per diritto e per storto e che si trattasse di un grande valore già incastonato nell’empireo dei sacri principi della democrazia nata dalla resistenza. Anche se di un vero diritto alla autodeterminazione, quello che aveva potuto esprimersi col plebiscito istituzionale, era stata fatta a suo tempo carta straccia.
Così la parola magica è stata in grado di assorbire offuscandolo il senso stesso della norma dell’articolo 32 e di quella sul consenso informato. Infatti si è finito per vedere in queste non tanto o non più la difesa dell’individuo nei confronti del potere politico o della possibile tirannia della ricerca, ma essenzialmente un riconoscimento della autodeterminazione come valore assoluto, garantito dalla legge, quali che siano le sue manifestazioni concrete. L’eliminazione di ogni tipo di sofferenza dalla realtà umana è diventato l’obiettivo primario dell’uomo libero, fino al superamento della indisponibilità della vita. Si è fatta strada così l’idea della eutanasia, quale rimedio alla sofferenza attraverso la morte, che in nome della libertà conduce fuori anche dalla idea cristiana della sofferenza salvifica.
Su questa distorsione diventata moneta corrente sarà preparato poco a poco il terreno per la eutanasia personalizzata, che vede la svolta decisiva nella sentenza con cui la Cassazione, dopo un estenuante braccio di ferro con i giudici di merito, è riuscita nella luminosa impresa di decidere la sorte di Eluana Englaro.
A proposito di quella micidiale sentenza, che riscosse per lo più il silenzio pavido del mondo accademico e del foro sempre sensibili all’aria che tira, Francesco Gazzoni pubblicò un memorabile articolo intitolato Sancho Panza in Cassazione, che aveva come sottotitolo : come si scrive la norma sull’eutanasia in spregio al principio della divisione dei poteri.
I motivi della decisione,apparentemente ad ampio raggio, con cui si legittimava la sospensione della alimentazione e idratazione della ragazza, erano riassumibili così: Le terapie sono rinunciabili anche dal tutore per conto dell’ assistito anche quando questo sia incapace di intendere e di volere, e anche quando siano la condicio sine qua non per la sua sopravvivenza. La idratazione e alimentazione indotte sono da equiparare ad ogni terapia alla quale si ha il diritto di rinunciare. I poteri di cura del tutore si estenderebbero dunque a comprendere anche iniziative capaci di travolgere ogni limite posto alla intangibilità della vita altrui.
Poi viene calata la carta decisiva grossolanamente truccata: anche ad ammettere che alimentazione e idratazione non siano terapie ma soltanto un sostegno vitale, e riconoscendo che ad esso potrebbe rinunciare soltanto il soggetto attualmente in stato vegetativo, in virtù del diritto alla autodeterminazione, si deve tenere conto della volontà eventualmente espressa in passato quando questi era in possesso delle proprie facoltà.
Ecco allestito il gioco di prestigio: il consenso alla eliminazione del sostegno vitale, era stato manifestato dalla ragazza, quando, pienamente capace di intendere e di volere, in diverse circostanze aveva dichiarato che in nessun caso avrebbe voluto rimanere in stato vegetativo, perché una vita in quelle condizioni non sarebbe stata degna di essere vissuta.
Eppure il giudice di Cassazione sapeva bene o almeno avrebbe dovuto sapere che la legge vigente per ogni decisione che incida sulla vita richiede al soggetto un consenso responsabile e attuale, come nel caso dell’omicidio del consenziente, che è punito con pena attenuata ma a condizione della attualità e verificabilità del consenso della vittima. L’attualità del consenso è norma di civiltà, la garanzia per escludere ogni possibile abuso. Incurante di tutto ciò, il giudice di cassazione, che dovrebbe vegliare per mandato istituzionale alla retta interpretazione e applicazione della legge, ha sostituito le norme vigenti con quelle proprie coniate ad hoc, e ha gettato basi sicure per mettere all’asta le vite scomode dei disabili, ed esporle in ogni caso alla manipolazione altrui.
Ma non basta. Bisognava lustrare il tutto con l’afflato ideale. Ed ecco l’opportunità di attribuire rilievo giuridico ad un criterio tanto pretenzioso quanto arbitrario e cangiante qual è quello della vita degna di essere vissuta. Un criterio per cui Eluana avrebbe fissato per sempre sui propri vent’anni l’unico modello di vita concepibile, forse un fac simile di quello delle signore in toga e tocco della prima sezione della cassazione civile. Sicché la vita non avrebbe valore in se stessa come il miracolo eterno che circonda l’uomo, ma il valore che ciascuno si sente e di attribuirle, magari accordandolo sui parametri del pensiero unico obbligatorio.
Su queste basi è stata autorizzata la morte per fame e per sete di Eluana Englaro. Ma ecco anche tracciate le linee essenziali per arrivare senza fatica alla eliminazione degli innocenti. Basterà dimostrare che l’incapace abbia manifestato in un qualunque momento la volontà di fuggire da una vita ritenuta indegna di essere vissuta. Dunque, ai principi della ragione immutabile che deve governare le cose umane, incarnata per sempre dal Verbo cristiano, sono stati sostituiti anche dai giudici quelli elaborati dalla fallace filosofia della modernità, che adora nell’uomo il vitello d’oro e nella chimera della libertà a braccetto dell’autodeterminazione, l’unico ferreo comandamento diventato imprescindibile. E in questa chiave lo ha letto anche la giurisprudenza costituzionale elevando così a criterio giuridico un concetto che a mezza strada tra ideologia politica, filosofame e psicologia è un contenitore riempibile a seconda dei gusti e delle convenienze. Infatti dopo avere trionfato nella sentenza della Cassazione che in suo nome autorizzava l’omicidio per interposto padre della povera Eluana , ecco la consacrazione costituzionale del diritto alla autodeterminazione della sentenza 23 dicembre 2008, n.436, dove si dice, a proposito del consenso informato, che esso è il frutto del bilanciamento tra il diritto alla salute e il diritto all’autodeterminazione.
Ma non ci si deve stancare di dire forte che in tutti questi interventi della giurisprudenza ordinaria e costituzionale, che hanno segnato e continuano a segnare una tragica inarrestabile lacerazione della stessa struttura etica della società, v’è essenzialmente lo stravolgimento dello jus dicere, ovvero della stessa funzione del diritto e degli stessi principi giuridici che dovrebbero essere anzitutto principi di ragione. Come ben sapevano gli uomini di un glorioso Medioevo, che chiamavano il palazzo di giustizia “Palazzo della Ragione” in Italia e “Rathaus” in Germania.
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Intanto però al paradosso si aggiunge il paradosso, e a dar man forte alla insipienza dei giudici è arrivata la sapienza della chiesa.
All’indomani della morte indotta per fame e per sete in virtù di una sentenza che non avrebbe dovuto essere applicata, il segretario della Cei, rappresentante di una chiesa tanto imbelle da rimanere in un silenzio indegno durante la lunga preparazione dell’assassinio della ragazza e per il tempo della sua oscena agonia, con uno zelo a dir poco surreale, si affrettò ad auspicare un intervento legislativo che regolasse il “fine vita”. Visto che questa morte inflitta su autorizzazione del giudice suona in effetti molto male alle nostre orecchie, deve avere pensato il cardinale, bisogna che la decisione sul come e quando morire vada rimessa all’interessato e che sia il legislatore a fornirgli lo schema normativo. Insomma ci vuole una legge sul testamento “biologico”. Anche perché oggi, si sa, tutto quanto è buono e fa bene è naturalmente biologico. Ma sfuggiva al cardinale come il famoso soggetto autodeterminato, che dispone in anticipo gli interventi che altri faranno su di lui, consegna a costoro una volta per tutte la propria sbandierata autodeterminazione, con tanto di esenzione da responsabilità. É uno che senza accorgersene rinuncia alla indisponibilità della propria vita e la sacrifica prima all’arbitrio del terzo e infine a quello del potere. Insomma, si legalizza in modo trasversale il piano eutanasico avviato dalla cassazione. Così si sono aperte, benedette da una chiesa che ha smarrito il senso della propria funzione e della propria vocazione insieme ai principi primi della legge naturale, le porte alla eutanasia per via testamentaria.
Il cardinale è stato esaudito. E così, dopo un adeguato tempus lugendi concesso al popolo, sempre incline a rimuovere i ricordi troppo impegnativi, per spegnere la commozione e dimenticare l’orrore consumato nella clinica di Udine su autorizzazione del giudice di ultima istanza, arriviamo al disegno di legge sulle Dat. Ora di novo in discussione alla Camera. Esso riproduce nei punti chiave lo schema elaborato per il caso Englaro da Luccioli e compagne otto anni fa, facendo proprie in modo surreale proprio quelle argomentazioni logicamente erronee e giuridicamente illegittime.
Sicché tutti quei motivi di sconcerto, che avevano indotto a considerare la sentenza del 2007 come nigro signanda lapillo, sembrano essersi sfocati fino a dissolversi. C’è quella equiparazione della nutrizione ad una terapia, che all’inizio è sembrata paradossale persino a chi se l’è inventata. Torna la delega de futuro ad essere soppressi per mano e secondo il criterio di uno sconosciuto carnefice. Torna l’idea, ormai consacrata ufficialmente e democraticamente, della vita come bene di consumo il cui valore dipende dal mercato che fissa i parametri della sua “dignità”. Il bon ton è assicurato dall’intervento del notaio, che colloca automaticamente le Dat fra i beni di lusso. Mentre il tutto si armonizza culturalmente col commercio internazionale di carne umana e con la riduzione in schiavitù degli indigeni europei lobotomizzati, con l’azzeramento della storia e della vera cultura, con la manipolazione dell’educazione e la propaganda delle perversioni sessuali, con il controllo del pensiero e della coscienza da parte dei guardiani della democrazia, con l’abolizione di diritti quesiti espropriati in nome della libertà, con tutto quanto sta oscurando la verità e la bellezza sotto una valanga di parole senza senso declamate da attori ubriachi ma sicuri di sé . Insomma la galleria si va arricchendo di giorno in giorno a ritmo sempre più serrato, dei quadri appesi da un vento di venefica follia. Sta a tutti noi raccogliere le forze per uscire di nuovo a riveder le stelle.
5 commenti su “La giurisprudenza politicamente corretta. Dal diritto all’autodeterminazione alla soppressione del diritto alla vita – di Patrizia Fermani”
Siamo liberi di morire, e di abortire, ma non di difendere la nostra salute e quella dei nostri figli contro leggi coercitive come l’ultima della Lorenzin. Un assurdo, se non fosse in realtà una delle tante strade per arrivare allo stesso fine: ridurre l’uomo a poco più di un prodotto o animale: cavia quando serve agli interessi di case farmaceutiche che pagano bene i politici, vittima quando non è più produttivo o pesa sul bilancio dello Stato. Togliendo di mezzo Dio alla fine si toglie di mezzo anche la sua immagine, cioè l’uomo. Mi chiedo solo una cosa, quando sopraviveranno solo i ricchii e potenti, chi stirerà le loro camice? Un mondo di soli furboni e ricchi non si reggerà, chi tra loro si sottometterà a fare i lavori umili, se gli umili scompariranno? Li aspetta solo la guerra, prima contro l’uomo di buon senso, poi contro se stessi. Ma la risposta probabilmente sta nel fatto che il loro fine o a dir meglio, il fine di chi li guida, non è tanto la ricchezza o il potere, ma mandare più anime possibile all’Inferno.
In effetti è proprio così: manovrati dal grande burattinaio questi signori si stanno scavando la fossa. Verrà il loro turno. E non dimentichiamoci che chi li istiga mira esclusivamente a portarli nel suo “regno”. In altre parole il diavolo non vede l’ora di arraffarseli e di certo non si può permettere il lusso di farseli sfuggire e di dar loro il tempo di redimersi. L’intento di godersi il proprio status quo, sfoltendo l’umanità da “zavorre”, stride con il progetto di colui che non vede l’ora di terminarli per impossessarsene. Veri e propri burattini.
Al fondo di questo progressismo folle e intossicante si trova sempre la stessa cosa: uccidere la verità, in nome di una idea pervertita di libertà. Finché il discorso (politico, religioso) non sarà riuscito a liberarsi da questa radice velenosa, il precipizio non avrà fine.
Dal punto di vista giuridico tutto il discorso regge. Mi preme sottolineare, tuttavia, che questa involuzione dei principi normativi riflette il lento ed inesorabile declino dello stato di diritto di derivazione laica. Una società che è giunta al suo tracollo inevitabilmente diffonde le sue idee perniciose in ogni aspetto politico, giuridico, sociale ed economico.
La Costituzione italiana è rigida, ma è da 20 anni che si ciancia di esecutivo forte.
Dietro questa manfrina altro non si nasconde che l’imposizione del pensiero unico; non ne usciremo con una semplice ribellione. Ci attendono giorni durissimi e non escludo tempi di barbarie come accadde alla fine dell’impero romano.
Finirà che saremo tutti chiamati alla DAT. Poi, man mano che crescerà il numero di quelli disposti a farsi ammazzare (con gli italiani eterno fanalino di coda in Europa, rimbrottati perché si adeguino ai progrediti paesi del nord come chiede l’Europa), gli altri saranno sempre più segnati a dito come arretrati egoisti nemici della società, e aggiungiamo pure dell’umanità. Infine gli ultimi refrattari saranno assoggettati per legge al trattamento eutanasico, volenti o nolenti