di Piero Nicola
Si prova un vivo rammarico scorrendo le vite di intellettuali che ebbero istruzione religiosa, crebbero in famiglie praticanti e finirono nell’incredulità.
Allora, dubitiamo giustamente dell’intelligenza, del talento, dell’erudizione, che non bastano alla fede, sebbene essa riceva conferma dal Creato e dal diritto corso del pensiero.
Orsola Nemi, pseudonimo di Flora Vezzani (1903-1985), donna di fini tratti e intelligente, fu manifesta cattolica nel periodo che va dall’esistenzialismo alla Sartre, dal comunismo dei colti e dei proletari in lotta di classe, dalla debolezza ideale e spirituale dei moderati, sino allo scivolamento di costoro e all’imperversare della liberazione di sinistra. Ella restò ferma nella corrente delle ideologie e delle conquiste pseudo-umanitarie. Ancorata ai principi che reggono la città terrestre scendendo dall’alto, alla svolta del Boom economico ruppe l’indugio e, sforzando la sua indole profondamente femminile, mise in satira l’impero delle novità, che avevano la principale attrattiva del nuovo, dello stravagante nell’arte, in una moda culturale populista, di lì a breve destinata ad inciampare nell’alienazione, nell’incomunicabilità, nel vacuo disincanto dei benestanti meno affaccendati (La dolce vita).
Col suo stile asciutto e pulito, alieno da inquadramenti, con le sue idee ragionevoli e incrollabili, la Nemi stette diritta anche nel giro delle multiformi relazioni nel suo ambiente, nonostante una innata curiosità e una poetica spinta ad internarsi nell’inconoscibile attraverso la fantasia.
E venne classificata tra gli scrittori minori del Novecento, quando invece la sua figura impresse un segno considerevole, sia nell’ambito propriamente letterario ed editoriale, sia nel meglio dei lettori. Numerose sono le favole che scrisse, brevi e lunghe; numerosi i pezzi comparsi sulle terze pagine dei quotidiani e sulle riviste, con cui collaborò narrativamente o criticamente. Fu insigne e attiva la sua fabbrica di traduzioni d’opere inglesi e francesi. I romanzi, dalla foggia originale e più o meno fantastica, le valsero premi e riconoscimenti.
Nata a Firenze, la sua famiglia si trasferì a La Spezia, dove rimase sino al 1940. Una poliomielite, contratta in età tenerissima, la lasciò menomata, pur consentendole di reggersi in piedi. Restò orfana del padre, ufficiale dell’esercito caduto nel 1915. In memoria di lui avrebbe assunto il nome di Orsola, essendo il giorno dedicato a questa santa quello in cui egli aveva reso l’anima. Con la bella madre, morfinomane, ebbe sempre rapporti difficili. Fu educata a Badia a Ripoli nel collegio delle Suore Belghe, dove rimase felicemente sino al 1918, dovendo allora tornare a casa con la nonna e la zia, a causa delle ristrettezze economiche della famiglia. Non portò a termine un corso di studi; si costruì una cultura di autodidatta, alimentata dalla passione per le lettere. Le sue iniziali prove di poesia e di racconti pubblicati, risalgono ai primi anni ’40. Nel 1939, aveva fatto l’incontro cruciale della sua esistenza con il corrispondente letterario del New York Time, Henry Furst, americano di origine tedesca, letterato attivissimo e di valore, collegato al gran mondo della cultura. Amante dell’Italia e in Italia da tempo, era stato consigliere di D’Annunzio nella spedizione di Fiume, dopo essersi convertito al cattolicesimo nel 1914. Abitava a Recco in un torrione medievale adattato e ampliato ad uso di abitazione. Lì, non di rado si formava un cenacolo, un convegno di artisti eminenti. Orsola Nemi se ne giovò, ed ebbe serenità e soddisfazioni.
Allo scoppio delle mondiali ostilità, Enrico, che si prendeva cura come un padre del piccolo Maurizio, figlio di una famiglia disagiata, dovette tornare in America, lasciando il bambino a lei, che, da quel momento, trasferirà la sua dimora in vari luoghi: a Pietrasanta da sua madre, e dove il lavoro la chiamava: a Milano dall’editore Bompiani, a Roma da Longanesi. D’altronde, Recco era diventata una località inabitabile, bersagliata senza tregua dai bombardamenti rivolti al sovrastante ponte della ferrovia. Le traduzioni che le davano il pane, sottraevano tempo alla propria scrittura. Gli Stati Uniti entrarono in guerra; di Enrico mancavano le notizie, e qualche malinteso si era già avuto, minacciando il loro sodalizio. Orsola rimase a Roma sino al 1945 pubblicando versioni, racconti e fiabe con l’Editore Documento, dopo che Longanesi era passato al Sud. Venuta la pace, il Frust fece ritorno; la torre di Recco fu di nuovo dimora e cenacolo; ripresero a lavorare insieme e separatamente. Egli, da antifascista si trasformò in una specie di nostalgico.
Il Golfo di Genova e quello spezzino sono il paesaggio che specialmente ispira Orsola Nemi. Gli uliveti, le palme, le viti, i fiori e le piante del giardino, i familiari animali domestici, gli uccelli, il mare riempiono la sua amorosa osservazione, calata con grazia nelle pagine del Taccuino di una donna timida 1955-1965. Nel 1950 i due solidali, futuri sposi, ed il ragazzo Maurizio vanno a stabilirsi sopra il paese di Cervo, nella Riviera di Ponente, ancora dominando la distesa marina. Tre anni più tardi, vi si affacciano da una villa nelle vicinanze di La Spezia, dove trascorreranno le estati, mentre d’inverno abiteranno la casa di Roma, che pure è loro città congeniale. In una esauriente tesi di laurea del 2006 intitolata Orsola Nemi: tra vita e letteratura, la figlia di Maurizio, Francesca Rotta Gentile, riporta un’intervista fatta a suo padre, il quale, tra l’altro, ricorda come ogni volgarità fosse bandita nella vita di Orsola e di Enrico.
Tre romanzi della nostra autrice aprono e chiudono, a uguali intervalli, il decennio compreso tra la vigilia dell’Anno Santo ed il miracolo economico italiano.
Del primo libro, Maddalena della Palude (1949), il critico Giuseppe De Robertis rileva la “leggerezza di tocco della scrittrice, su una materia che si sarebbe prestata a una pittura accesa”. Ella prende spunto da un documentato fatto di stregoneria avvenuto nel Seicento in Provenza. Ciò a significare che gli episodi fantastici e gli andamenti favolistici impiegati convengono alla concretezza del soprannaturale. Durante il processo per negromanzia a lui intentato, un prete fu allora costretto a confessare di aver fatto un patto col diavolo, per cui aveva attirato nei suoi misfatti diabolici la gente del luogo. Due suore lo accusarono di averle condotte in un sabba.
Nel romanzo, Luigi, un ragazzo d’indole ombrosa e rimasto orfano, benché di forte intelletto, soffre della nessuna considerazione riservatagli dai compaesani, eccettuati il curato e il signor Madolo della Palude. Luigi rinviene in uno scritto del defunto zio sacerdote dei versi incomprensibili, che hanno il potere, prima d’affogarlo in un orribile disgusto di sé, quindi di manifestare il demonio, richiamato dal suo stesso cattivo sentimento di rivalsa. Egli abbocca alle promesse di successo, divenendo succube del malefico per brama di superiorità, propria dei letterati che ritengono di possedere i mezzi con cui dominare il mondo. Il giovane, pur uscendone scosso, secondo il disegno demoniaco viene appagato conquistando il cuore di Maddalena, figlia di Madolo, e facendola sua. La ragazza si sente peccatrice, angosciata, ma per amore segue l’amato sino al limite del sabba. Infatti, nel frattempo, Luigi, in seguito a una relazione intrattenuta con la vedova Soriana, del pari legata al diavolo, è stato trasportato con lei, mutati entrambi in uccelli straordinari, in un convegno di tregenda, dove accanto ai piaceri carnali sta la Pietra di Immaginazione, un oggetto prodigioso che i letterati si contendono per poter trasfigurare ogni cosa in bellezza, sé stessi inclusi. Successivamente, Luigi riesce a portarvi Maddalena. Ella però, sgomentata dalla perversione, s’allontana; invoca il nome di Cristo, e un tuono le risponde cancellando il sabba.
Da prima, l’autrice ha introdotto un altro personaggio, Luca, tacito innamorato della giovane, allievo pittore irrequieto, ed ora suo soccorritore. Quando ella si riprende dal malanno che l’ha colpita, dura fatica a staccarsi da Luigi; finché si reca al monastero, dove Luca lavora al restauro di una cappella. A sua volta, egli si ammala gravemente e, mentre le sofferenze di lei non sono servite, l’artista le insegna che il vero amore redime, coi necessari dolori, anche colui al quale vengono dedicati. In quel modo, egli offre la propria pena estrema alla ragazza.
A questo punto, Maddalena decide di prendere il velo e di confessare. La stessa Soriana chiede il perdono umano e divino, quando, ricoverata nel convento, riceve le cure dalla sua vecchia rivale, che l’assiste per le conseguenze della ferita che Luigi le ha procurato sparandole. Questi è uscito di senno; incendia il bosco del villaggio. Il tribunale lo condannerà ad essere giustiziato come “incendiario, negromante e corruttore della persona di Maddalena della palude”. E s’intende che ella contribuisce alla sua degna morte, essendosi votata ad espiare per lui, imitando l’atto che Luca aveva compiuto per lei.
Il secondo romanzo, d’argomento marinaro, s’intitola Rotta a Nord (1955).
Moorhouse, comandante inglese del Dei Gratia, approda a Gibilterra rimorchiando il brigantino Mary Celeste, e dichiara di averlo incontrato in Atlantico senza nessuno a bordo. Egli richiede i diritti del recupero. Le autorità aprono l’inchiesta, che non approda a nulla, sicché gli sarà riconosciuta una somma di denaro.
Nuovamente, alcuni elementi della storia coincidono con il vero accaduto: il misterioso ritrovamento della nave andante alla deriva carica e inabitata. Orsola Nemi adotta persino i medesimi nomi dei capitani e del bastimento che fece la scoperta. Questa volta, il fantastico deriva dallo spiritismo, e non riguarda l’assenza di imbarcati, che si spiega con un piano piratesco attuato da Moorhouse in combutta con uomini del Mary Celeste.
Mary Celeste è una giovane americana, orfana adottata dalla zia Vittoria, donna autoritaria: governa un cantiere navale e non vuole che la nipote si sposi onde averla per sé. Giunge in porto il capitano Briggs per riparazioni alla sua nave Amazon. È un uomo singolarmente affascinante, imperturbabile e avventuroso. Tra lei e la ragazza scaturisce l’amore. I due si sposano a dispetto della zia, che rompe i rapporti con la nipote.
Dopo un’introduzione oggettiva, sono le memorie e le note del viaggio vergate da Mary a narrare la sua storia, l’andata della coppia a New York, la folle esplorazione in cui il marito la coinvolge piuttosto suo malgrado. Il nostromo della nave ribattezzata Mary Celeste è medium; ha rivelato l’esistenza di un cimitero delle navi affondate in tutti i mari, raggiungendo il quale si oltrepassa la meravigliosa soglia del mistero, situata nell’oceano iperboreo. Ma, sin dalla formazione dell’equipaggio nel sordido angiporto newyorchese, tiranneggiato da sensali violenti e senza scrupoli, la spedizione che farà rotta a nord, assume aspetti orribili, rinforzati, in navigazione, da ubriachezze, risse crudeli, ribellioni, acque minacciose, quasi animate da lividi serpenti. Questa crudezza è resa dal secondo diario, lasciato dal giovane cuoco di bordo, il ligure Rossino, silente e fedele innamorato della signora, il quale porta a termine la loro vicenda.
Mary sta a poppa col marito. Egli si destreggia nel suo distacco enigmatico, suona il pianoforte, ascolta il medium. In lui ha parlato la defunta zia Vittoria, chiedendo il perdono della nipote. Mary, cattolica, non è tuttavia riuscita a perdonare. Quando lo farà pietosamente, sarà troppo tardi.
Dunque, il racconto della sposina ha proseguito col tono dolente e gentile con cui ella ha cominciato scrivendo:
“Come uccelli dalle piume colorate, e dalla voce persuasiva che fossero partiti con noi, appollaiati sulle verghe e le coffe, e che poi giunti nel freddo e nell’abbandono, fossero caduti […] e le piume fradice e sbiadite avessero scoperto le zampe deboli e i corpi miseri, così quaggiù caddero e morirono i nostri nobili desideri. Si vide che quelli in apparenza più alti erano i più deboli e perduti. Non so se ci salveremo, ma bisogna che io racconti nel modo più chiaro quello che ha sovvertito la nostra vita”.
Finalmente appaiono le navi morte: di ogni foggia e d’ogni tempo. Da un loro albero si leva un gabbiano. La promessa di ricca preda si è avverata: la ciurma e l’infido comandante in seconda sono placati. Tuttavia la cosa non ha seguito. Gli oggetti degli scopi trascendenti o venali sono svaniti. Nella collisione della nave con un lastrone di ghiaccio, Mary resta schiacciata dal piano. Prima di morire, chiede il rosario. Suo marito, che si ostina a starle accanto come vivesse ancora, ha perduto calma e controllo. Viene assassinato e sepolto in mare. Invertita la rotta, si prende terra alle Azzorre, dove li attende il capitano della Dei Gratia, che attuerà la messinscena della Mary Celeste rinvenuta come incredibilmente abbandonata. Il cuoco Rossino provvede alle esequie cristiane della sventurata. Quanto al nostromo medium, che ha raccolto gli scritti riportati, si converte e diventa sacerdote.
Nel 1960 l’Editore Ceschina stampa Il sarto stregato. All’immaginario fenomeno d’un cappotto altrui che, indossato, suscita una voglia di darsi alla professione del vecchio proprietario, si applica l’ironico e sovente esplicito smascheramento del ceto critico-letterario sulla cresta dell’onda. Un vecchio cappotto lasciato da uno scrittore ad un giovane sarto di paese affinché lo rivolti, non viene ritirato, e l’ignaro artigiano lo indossa. Da quel momento, l’illetterato Alfredo Fantappié è preso dalla smania di dedicarsi alla scrittura, e perde la pace. In lui coabitano due persone: il giovane semplice e quello che arde d’un’ambizione quanto mai impegnativa e di difficile conseguimento. Lo riduce in questo stato l’impegno, assunto col critico letterario Squinci venuto al villaggio, di comporre un romanzo dal successo immancabile. Il critico se la sta passando male, e conta che l’opera sgrammaticata d’un incolto riesca consona al momento storico, al superamento dei vecchi canoni e schemi. A tanto apprezzata grezza semplicità, fa spassoso riscontro il linguaggio oscuro del critichese in auge, usato dal mentore. Egli prepara un premio letterario e una giuria che renderà gloria e fortuna nondimeno a se stesso. Ma, alla vigilia della premiazione, il malcapitato Frantappié, frastornato nel vortice delle nuove conoscenze e dei dubbi, non ha ancora trovato la forza di stendere un solo rigo. L’imprevisto è una costante dell’arte di Orsola Nemi. E giunge con naturalezza e ben accetto, tanto più contribuendo alle levità di questo divertimento.
Gli eventi incalzano. Alfredo, che dorme con indosso il magico cappotto, eccitante col suo sorprendente calore, sebbene spaventato e con in mente la fuga, ubbidisce al pungolo di Dioscoride Sguinci; di getto, per improvvisa ispirazione, “partorisce il frutto di una spossante discesa nell’inferno”. Davanti alla giuria, che non ha letto il dattiloscritto, gli scrupoli sconfortanti lo riafferrano, getta nel caminetto acceso il fascicolo da consegnare. Il critico Dioscoride si precipita tra le fiamme e salva il capolavoro. In quel frangente, si fa vivo il proprietario del cappotto; lo ripiglia “spogliando pubblicamente Frantappié del suo talismano”. La giuria decreta la vincita del romanzo, considerato una rivelazione. Egli può tornare lieto alla macchina da cucire, riavendosi del tutto.
Lo stesso non avviene di Dioscoride. I due uomini erano ospiti di una cugina del sarto, zitella ancora vitale, ed ella vuole trattenere il critico con sé. Di fronte alla sua resistenza, lo minaccia di riferire il di lui pensiero segreto. Egli confessò di disprezzare l’arte moderna. “‘Quei libri sgangherati, sconci, tetri, io li prenderei con la paletta della spazzatura, per levarli di mezzo. Invece ne dico bene’”. “‘La poesia è fatta per gli uomini che ne hanno bisogno. Ora invece gliel’hanno tolta […] E della prosa che ne hanno fatto? Assassini! Si vergognano del proprio paese, non l’amano, vanno a cacciarsi nei dialetti […] per nutrirsi di rifiuti. Quando mancano nella lingua l’ordine, la dignità, l’armonia, mancano da per tutto […]’. Nel buio completo, con voce fortissima e calma Dioscoride dichiarò di essere un traditore”.
Il vecchio critico piega il capo al ricatto della donna. La sposerà. Ciò non toglie un suo ultimo sfogo patetico:
“‘In questa letteratura odierna, che si finge umana ed è retorica, si finge schietta ed è artificiosa, ribelle ed è conformista dell’oscenità e del populismo perché il vento tira da quella parte, io non ci credo. Io amo la buona prosa, il verso ben timbrato, le idee chiare, l’esposizione pulita e soprattutto il coraggio morale’ […] ‘Bene, bene, caro, anch’io’ disse sorridendo il direttore, ‘molti credo, sono di questo parere. Tu sei un nobile ingegno, caro. Ma che ci vuoi fare, caro. L’hai detto anche tu, il vento tira da quella parte’. ‘Ma fingo di crederci’, urlò Dioscoride interrompendolo. ‘Fingo di credere in questa roba che ora è di moda. Anch’io mi servo di quel gergo diabolico che confonde le carte in tavola […] Sono un vile’”.
“La Nemi, più pietosa che maligna, ci dà l’occasione di considerare i burattini della fregola modernistica come povere vittime d’un calcolo sbagliato, che li può arricchire, certo, ma non salvare” osservava Pietro Cimatti su La fiera letteraria del 21 maggio 1961.
Il libro di racconti I gioielli rubati, del 1958, ricevette il Premio Femminile Bagutta, che ella decise di rifiutare, in tal caso non già, come fu detto, per antifemminismo, ma perché il valore dell’opera doveva giudicarsi indipendentemente dal sesso che l’aveva prodotta. Per uguale principio, credo che oggi ella sarebbe contraria alle quote rosa d’ogni genere.
Nel 1972, pubblicando I Cristiani Dimezzati, ella ha sentito di dover estendere la sua critica, gagliarda, per ridestare i fedeli intorpiditi nei nuovi ignavi pregiudizi. “È stato accettato come norma, anche dai cosiddetti credenti, che la religione è una cosa e la vita un’altra, quindi l’uomo pensa a metà e vive a metà […] Se la religione, cioè la fede da cui essa proviene e che manifesta, è staccata dalla vita, in quale campo si attua?”.
Il cristiano dimezzato “non trova nulla da obiettare, tutto accetta. Sempre si sente impacciato, sempre si sente abusivo quando intravede la parola Scienza […] Malsicuro di sé […] e ha ragione, perché non vive quel che crede”.
Né ella risparmia il dialogo, i nuovi cieli e le nuove terre promessi, e la riforma liturgica. Insomma, sbugiarda le male derivazioni del recente Concilio.
Sin dal suo Taccuino di una donna timida 1955-1965, Orsola Nemi preveniva e ammoniva gli incamminati sulla via del declino cattolico.
“La Chiesa di Santa Maria Maggiore, nonostante il soffitto dorato col primo oro arrivato dall’America, i suoi mosaici, la solenne architettura, mi faceva, quella sera, pensare a una stazione. Era l’andirivieni ordinato e affaccendato delle persone che ci diede quell’idea; entravano e uscivano con l’aria di venire per uno scopo preciso, necessario. Molte di loro nel passare davanti ai confessionali da cui usciva la bacchetta dei penitenzieri, si inginocchiavano. La bacchetta si abbassava, toccava le teste a una a una […] Quel che mi piaceva era l’invisibilità di chi manovrava la bacchetta. Sui pilastri, cartelli bene in vista specificavano l’altare laterale a cui ogni quindici minuti si distribuiva la Santa Comunione; altri cartelli sui confessionali indicavano in quali lingue il fedele poteva confessarsi […] Un confessionale era munito di uno speciale apparecchio acustico per la confessione dei sordi […] Era una stazione di transito in cui tutto era disposto per aiutare i viaggiatori, l’ultima stazione era molto più avanti. Nell’uscire sulla piazza mi stupii di non essere arrivata: tutto era così ben preparato e io anche” (1955).
“Senza fede, senza speranza, senza carità è stato, è e sarà sempre molto difficile vivere con se stessi e con gli altri, per non dire che è impossibile qualsiasi vita umana. La storia delle nostre sciagure è in gran parte la storia del nostro cieco bisogno di queste tre forze, della nostra sbagliata ricerca di esse. E qui l’insegnamento scientifico non ci aiuta” (1956).
“Sentendo parlare tanto di libertà, mi sgomento: penso a quel tale che, camminando al buio, fischia per farsi coraggio” (1956).
“Sembra […] che il mondo, o almeno il genere umano, debba finire per pazzia collettiva e generale, per il ripudio, il rinnegamento del Bene dell’Intelletto. Se ne vedono chiaramente alcuni segni. Il culto del numero, la preminenza concessa nelle decisioni più gravi alla maggioranza dei voti. Argomento sottoposto a mutare e che non può dimostrare nessuna verità” (1956).
“Penso a quelli che vorrebbero fare della nostra religione una specie di protestantesimo, con le chiese squallide e le monache vestite come hostesses; o meglio, assistenti sociali invece di monache. I preti che leggono Freud, dicono che in Plexus di Henry Miller v’è del buono, vogliono allineare la Chiesa, sono sensibili alle istanze sociali, e non stanno mai fermi. Questi si vergognano di Padre Pio…” (1962).
“Chi ha detto che la religione è un oppio, non sa che sia religione. La nostra religione, per la sua stessa natura, acuisce la coscienza, non ci consente la perdita di un solo grammo di responsabilità. Anzi, perfino dei pensieri ci rende responsabili; è tutt’altro, quindi che favorevole al sonno. Mentre la cordialità laica e arruffona nasconde le forbici da castrare e le manette sotto il grembiule di portinaia facile alla commozione” (1964).