“Il bisogno di sicurezza è la catena che tiene l’uomo schiavo della paura”. Questa è l’intima convinzione del giovane scrittore ebreo Carlo Raimondo (Ghedalià Ram) Michelstaedter, morto suicida a soli ventitré anni. Secondo Michelstaedter l’istinto primordiale che è alla base di quella che lui chiama “philopsichia” (cioè l’amore per la vita) dell’uomo contemporaneo sarebbe proprio “la sopravvivenza dell’uomo non la sua realizzazione”. Questo attaccamento morboso alla vita che rievoca quella fase di totale dipendenza del neonato dalla madre dalla quale fa fatica a “liberarsi” “fa sì che egli si adatti, che sfugga al rischio e al dolore, amando irrazionalmente la vita e provando – altrettanto irrazionalmente – paura della morte”.
Una riflessione che ben si attaglia alla psicologia dell’odierno homo consumens: l’uomo consumatore che si trasforma in consumato dall’oggetto stesso dei suoi desideri: il vivere, anzi, il sopravvivere. Questo verme interiore che non muore mai, che lo rosicchia e lo consuma lentamente si chiama paura.
In effetti siamo circondati da paure, sono fuori di noi, dentro di noi, le respiriamo come un miasma velenoso che ci annebbia e ci soffoca. La cosiddetta “civiltà dell’informazione” si alimenta delle vittime della paura tanto da poter essere definita una vera e propria “mangiamorte”. I nostri figli, vittime inconsapevoli non meno dei genitori, vengono sottoposti fin da piccoli a questo trattamento despiritualizzante che li introduce al mondo mediante due atteggiamenti paradossalmente contrastanti eppure così affini: la paura e l’ottimismo.
Tutti ricorderanno come quest’anno scolastico si fosse aperto all’insegna del catastrofismo ecologista adombrato dal grande orologio che segnava minaccioso il conto alla rovescia del pianeta a causa dell’inquinamento e del surriscaldamento provocati dall’uomo (ricordate i patetici Fridays for future?). Ebbene il desiderio di sicurezza, salute e benessere nel presente unito ad un’ansiosa incertezza per il futuro è stato il motore delle messe in scena in favore del panteismo ecologista di bassa lega cui abbiamo assistito negli ultimi mesi dello scorso anno.
Simultaneamente le bambine vengono educate fin da piccole a diffidare dei maschietti mediante la paura della “violenza” di cui potrebbero esserne oggetto. Mentre ai maschietti viene inoculata la paura di sé stessi; la paura (e la colpa) di essere “maschi”. Una cultura dunque avversa al maschio e al padre in quanto tale. Lo scopo di tale cultura, sostiene lo psicoterapeuta Claudio Risé, “è quello di dimostrare che questo padre, non ancora accusato di abuso, va espulso di casa perché potenzialmente abusivo”.
Inoltre la paura di ammalarsi, di soffrire e infine di morire è divenuto il leit-motiv che sostiene tutta l’economia e la dis-società (come acutamente la definì Marcel De Corte) contemporanea. La “salute” è il primo interesse, il primo e l’ultimo augurio rimasto in un mondo svuotato di valori trascendenti, spirituali ed eterni. D’altra parte, come cantava Manfredi, “quando c’è la salute c’è tutto” no?
La paura del “figlio” e a fortiori del figlio malato è divenuto uno stile di pensiero, fobia diffusa che alimenta il business degli aborti e del traffico di organi. L’egoismo alchemicamente trasformato in compassione.
Ma in fondo la principale delle paure che tutti dobbiamo nutrire è la “paura del conflitto”, ossia quello iato primordiale dell’essere umano che ci spinge a cercare la verità, la giustizia e la pace combattendo per esse fino, se necessario, al supremo sacrificio della vita.
Avendo perciò demonizzato tutte le virtù guerresche, virili quindi indomabili, si è prodotta una società di individui innocui e spauriti, incapaci di reagire ai soprusi e all’oppressione perché disimparati alla resistenza e al combattimento. Tutto deve essere avvolto in un clima irenico e balocchesco, come se non ci fosse un domani, salvo poi rinchiuderci improvvisamente nella paura dell’aria, dell’acqua e dell’uomo.
Ci hanno disattivato e siamo divenuti passivi. Per assicurarsi più saldamente il potere i burattinai hanno dirottato la sana e incancellabile aggressività umana verso i compagni “disertori” dell’ordine costituito. Siamo cioè diventati persecutori gli uni degli altri. Ecco dunque la paura delle denunce, delle ritorsioni, delle sanzioni da parte dello Stato. Il modo migliore per deresponsabilizzare qualsiasi cittadino e svuotare di contenuto etico qualsiasi professione anche la più nobile a partire dal medico, il giurista e l’insegnante.
Si direbbe quasi che ci sia una vera e propria “fabbrica delle paure”, ne sono dimostrazione le innumerevoli “fobie” create a tavolino da veri e propri team di esperti del settore. Basti pensare ad esempio ai concetti fumosi e pretestuosi di omofobia, transfobia, xenofobia, antisemitismo ecc. promossi a veri e propri atteggiamenti criminali e socialmente pericolosi che, per proteggere la società, è necessario estirpare alla radice mediante (guarda un po’!) allontanamento sociale e rieducazione. Modalità tanto care ai totalitarismi del XX° secolo e tornate urgentemente di grande attualità.
Ora la traccia dell’omelia mediatica non è cambiata ma si è fatta più solenne e minacciosa. Oggi più che mai la paura si è mostrata essere il migliore e più formidabile cane da pastore per spingere il gregge ora a destra ora a sinistra, dandogli in pasto ora il terrore del contagio e della morte, ora il fatuo ottimismo arcobaleno dell’“Andrà tutto bene”.
Come si può parlare dunque ancora di popolo, di nazione o di società nel desertificato panorama attuale? Siamo stati ridotti in “poltiglia sociale”, agglomerati veramente “insolubili e indigeribili” rintanati in casa e avvelenati dallo stesso pane che ci è stato spacciato come “senso civico”, ossia la paura del contagio. Avere paura è diventato, tutt’a un tratto, essere responsabili.
Eppure, sia per la fine del mondo preconizzata dall’eco-terrorismo sia per le sirene della pandemia universale l’obbiettivo, la causa e il nemico da isolare, neutralizzare ed abbattere è sempre lui: l’uomo. L’essere umano è il cancro del pianeta (ricordate?) ed ora è anche il vettore del male tra gli altri uomini. Quella cui stiamo assistendo è quindi l’autentica concrezione dell’homo homini lupus; ora sì che siamo diventati davvero pericolosi gli uni per gli altri.
Per questo gli uomini e le donne di oggi sono pronti a consegnare sé stessi ai propri aguzzini, disposti a svendere la propria libertà per un piatto di pillole. Porgiamo i nostri polsi ai carcerieri per chiedere noi stessi di essere incatenati in cambio della salute e della sicurezza, come uno schizofrenico che chiede di essere internato per paura che possa fare del male a qualcuno.
Questo è il segnale più chiaro che stiamo entrando nel “mondo nuovo”. Non c’è nessuna dittatura infatti che non si fondi sulla paura né alcuna schiavitù che possa persistere fintanto che perdura la minaccia (compensata da qualche triviale piacere). Anche gli ebrei per paura della morte avrebbero rinunciato alla libertà, pagata a così caro prezzo, fino a rimpiangere addirittura la schiavitù d’Egitto. D’altra parte è vero che “mamma Iside” dava loro la frusta e le catene ma anche la carne e le cipolle! E come diceva giustamente Benjamin Franklin: “Chi rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza”. Per questo della generazione che uscì dall’Egitto nessuno, eccetto Giosuè e Caleb, entrò nella Terra Promessa. “Perché ci hai fatto uscire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?” (Es 17,3). Come a dire: perché ci hai liberato? Meglio la schiavitù che la morte!
La stessa dinamica la ritroviamo nel Mito della Caverna di Platone in cui gli schiavi prigionieri della menzogna, manovrata da sapienti burattinai, hanno imparato fin dalla loro infanzia a scambiare l’inganno per la verità, preferendo la “comodità” e la “sicurezza” delle catene, alla fatica, alla responsabilità, al rischio della libertà.
Questo è il motivo simbolico-archetipale per cui il padre libera e la madre incatena. L’unica soluzione è dunque “uscire” dall’inganno, da quella che definirei l’«illusione della sicurezza»,per diventare uomini veri cioè esseri umani capaci di giungere alla piena realizzazione mediante l’esercizio della libertà. Infatti mentre la madre provvede, per natura, alle necessità di sopravvivenza del figlio, il padre invece provvede acciocché il figlio impari a rinunciare a quelle stesse necessità per diventare “altro” rispetto alla madre che sempre sarà tentata di irretire il frutto delle sue viscere.
Essa perciò da simbolo di vita può diventare oscuro luogo di morte: la platonica caverna uterina, mondo buio e realtà incompleta, in cui l’embrione-uomo viene concepito ma dal quale deve uscire per potersi salvare. Morte interiore dunque nell’educazione, effettiva ed esteriore nell’appropriazione della libertà del figlio. Basti pensare all’empia pratica dell’aborto mediante il quale ancora una volta si sacrifica la libertà, quindi la vita, del figlio per un presunto benessere e comodità della madre.
Claudio Risè spiega chiaramente che l’odierna società dei consumi assume il ruolo e l’aspetto della “grande madre” interessata a mantenere i suoi figli (i cittadini) in una fase orale di dipendenza vitale da sé stessa (Il padre. L’assente inaccettabile, San Paolo, 2003, pp. 164). E lo strumento più efficace per tenere i figli attaccati a sé è infondergli la paura e l’insicurezza in sé stessi. “Sarò io a proteggerti – suggerisce la società del benessere, la “grande madre” – ci penserò io a te, da solo non ce la puoi fare, non provarci nemmeno perché senza di me non sei niente”.
Pertanto il “mondo nuovo” in cui ci stiamo addentrando, malgrado noi, si svela ai nostri occhi come la riproposizione di un modello così antico e vicino alla nostra esperienza come è quello simbiotico-materno. L’individuo, il figlio, il cittadino scompare fagocitato dal tutto. Le virtù paterne-maschili della libertà e del coraggio cessano di essere un valore e la paura e il conformismo divengono l’unica carta di circolazione possibile.
Un’ottima catechesi su questo tema ci viene dal film “Apocalypto”, capolavoro cinematografico di Mel Gibson, utile da riscoprire in tempo di reclusione. Dopo aver incontrato una tribù in fuga dai persecutori il protagonista del film, Zampa di giaguaro, cacciatore figlio di cacciatori, resta turbato e suo padre avendolo notato gli chiede: “Che cos’hai visto in quelle persone nella foresta?”, “Non capisco”, risponde il figlio. “Paura. La paura che distrugge – continua il padre – Loro ne erano infettati. Hai capito? La paura è una malattia. Striscia nell’anima di chi la prova…Ha già contaminato la tua pace…” E conclude ricordandogli la vocazione dell’uomo, del padre: “Non ti ho cresciuto per vivere nella paura”. E tale sarà l’ultimo testamento che il padre lascerà al figlio, in una sequenza capolavoro, prima di essere giustiziato: “Figlio mio – dice fissandolo con amore – Non avere paura”.
Quest’invito risuona come un vero e proprio annuncio pasquale che esce dalla tomba dove l’avevano sepolto. “«Nolite expavescere!» Non abbiate paura!”. Queste sono le prime parole dell’angelo nella Domenica di Pasqua. La speranza e il coraggio laddove c’è sgomento e paura. Ancora una volta il Padre ci libererà dalla paura armandoci per la battaglia: “Fatevi coraggio! Io ho vinto il mondo” (Gv 16,33).
3 commenti su “La fabbrica delle paure e l’abolizione dell’uomo”
Articolo strepitoso. Condivido ogni sillaba. Grazie!
molto bello…. Mi viene in mente l’invocazione del Salmo:
“Expecta Dominum, viriliter age,
confortetur cor tuum et sustine Dominum.
Bellissimo!! Appropriati quei richiami all’esodo degli ebrei, che vogliono tornare indietro, alla sicurezza del piatto di lenticchie.
Una ulteriore analisi va fatta per la identificazione della grande madre o il sostituto del padre:
Non credo che sia la società dei consumi, anche qui è una grande illusione di potere consumare all’infinito alle spalle di chi lavora: Per centrare il bersaglio dobbiamo andare alla secolarizzazione della figura paterna-materna, che gli ideologi del comunismo di tutti i tempi (compreso Hobbes, Hegel …) ripongono nello statalismo, che diviene cosi statolatria pagana, soppiantando cosi ogni libertà e respinsoabilità individuale.
A un certo punto anche gli ebrei, che avevano gustato la libertà e si autogestivano con le tavole della Legge e alcune istituzioni in mano ai Giudici: però a un certo punto si sono invaghiti della grandezza apparente degli imperi limitrofi: vollero anch’essi un re e quindi uno STATO. E il Signore, pur sapendo che andavano incontro a tasse e servilismi di altro genere con perdite di libertà, acconsentì perché provassero . Sappiamo come è andata a finire.