Una tragedia che sembra turbare ben poco l’occidente
Di Bruno Pampaloni
Per i più distratti o pigri – e sono molti fra i giornalisti e gli operatori dell’informazione – in Myanmar (ex Birmania) si sta giocando una partita sola: da un lato la giunta militare nazionalista al potere guidata dal generale Than Shwe e, dall’altro, la gran massa dei perseguitati, vale a dire Aun San Su Ki, i monaci buddisti e la “maggior parte della popolazione civile”. Così, le persecuzioni alle etnie minoritarie (tra le quali spiccano quelle ai danni dei Karen o dei Chin cristiani) vengono spesso confuse nelle già di per sé odiose repressioni e sembrano pertanto relegate a materia per cultori. Eppure, sovente, si tratta di autentici genocidi alimentati dall’odio razziale più che da autentiche ragioni politiche o economiche. Le sopraffazioni si protraggono con rinnovata violenza in questi giorni non solo per zittire ogni opposizione ma anche per mostrare al mondo un paese finalmente “pacificato” in vista delle elezioni politiche del 2010. A proposito di queste ultime è inutile precisare che si tratterà di elezioni “pilotate”. E che, qualunque risultato esse potranno registrare, non pregiudicheranno certo l’esistenza al potere della giunta.
Un po’di Geografia.
Myanmar è grande circa due volte l’Italia (676.756 km²) e, nel 2007, contava quasi 49 milioni di abitanti. I birmani sono più o meno il 60% del totale. Almeno quindici invece le etnie minoritarie (il 40% del totale), tra le quali vanno segnalati Karen (9,5%), Shan (6,5%), Chin (2,5%), Mon (2,3%), Kachin (1,5%). Le stime riguardanti la popolazione vanno peraltro prese con estrema cautela considerato che – per evitare persecuzioni – sono molti i casi di chi assume un nome birmano o si dichiara buddista. La religione maggioritaria è il buddhismo (89,4%), seguita dal cristianesimo (4,9%). I musulmani rappresentano circa il 3,8% della popolazione. In numero ancora inferiore sono indù e animisti. Il paese è suddiviso in sette divisioni e sette stati, oltre a innumerevoli contee, spazi comunali e villaggi. Le divisioni (Tain) sono abitate principalmente da birmani, mentre negli stati (Pyinè) vivono le minoranze etniche profondamente diverse fra loro. Ciascun gruppo, inoltre, è formato da distinti sottogruppi. La provenienza è la più varia. I musulmani Rohingyas dello stato di Arakan, ad esempio, discendono dai commercianti indiani e bengalesi che diversi secoli fa attraversarono la Birmania; gli Shan appartengono al ceppo etnico Sino-Thai e sono originari della Cina; i Mon sono imparentati con i Khmer cambogiani; i Karen appartengono al ceppo mongolo (come i Pa’O e i Karenni) e, in base ai documenti storici, sono stati tra i primi a stanziarsi circa 2500 anni fa nella Birmania centrale. I Karen si sono poi insediati nelle zone collinari del paese per sfuggire alla pressione dei più potenti Mon. Sono a maggioranza buddisti ma i Karen cristiani rappresentano un consistente gruppo minoritario. In maggioranza cristiani sono invece i Chin (protestanti e cattolici). Professano il cristianesimo anche altre etnie minoritarie come i Kachin. L’etnia maggioritaria, quella dei Birmani, proviene invece dalla regione indo-tibetana ed è probabile che sia stato l’ultimo gruppo a stabilirsi nel paese. Nonostante siano dunque una popolazione di più recente insediamento, i birmani dominano da quasi duecentocinquanta anni, da quando, cioè, nel 1767, le armate del re Hsinbyushin conquistarono gran parte dell’antico Siam (Thailandia).
Un po’ di storia recente
Approfittando delle mai sopite divisioni interne, gli inglesi, nel corso di tre guerre (1824-1826, 1852-53 e 1886), occuparono il paese, integrandolo nell’Impero britannico. Nel corso della prima metà del ventesimo secolo si formarono diversi movimenti nazionalisti anti inglesi. il più importante dei quali fu il “Thakin”, guidato da Aung San, che costituì il “Burma Independence Army’, alleandosi durante la Seconda Guerra Mondiale con i giapponesi. Il “Bia” – un raggruppamento formato da nazionalisti e da comuni banditi – si macchiò di numerosi delitti ai danni delle popolazioni Karen e di altri gruppi etnici che, nel 1942, dovettero cercare rifugio in India al seguito delle truppe britanniche in ritirata dalla Birmania. Successivamente, nel 1944, come contropartita per la partecipazione ad azioni di guerriglia ai danni delle forze i giapponesi in rotta, Karen, Karenni e Kachin avevano sperato di potere ottenere, al termine del conflitto, l’indipendenza dai birmani. Dal canto suo, sempre nel 1944, Aung San, avendo compreso che i nipponici non avrebbe potuto garantirgli l’indipendenza e che le sorti del conflitto volgevano a favore degli alleati, voltò loro le spalle e schierò il “Bia” a fianco degli anglo-americani. Con questa mossa egli si accreditò presso i vincitori come il soggetto più idoneo a guidare il paese verso l’indipendenza. Ciononostante, il nuovo governo nacque a forte componente birmana, un difetto d’origine che, per quanto Aung San avesse cercato di stabilire una piattaforma comune con i rappresentanti delle altre etnie (accordo di Panglong del 1947), segnò profondamente ogni avvenimento futuro. A compromettere ancor più la situazione. Nel 1947 vi fu l’assassinio di Aung San ad opera di suoi rivali politici. Così, nel gennaio del 1948 – quando la Birmania divenne indipendente, – U Nu divenne l’uomo forte del paese. E appena insediato il nuovo leader dovette subito affrontare una rivolta dei gruppi comunisti che si proponevano di rovesciarlo. Tuttavia, U Nu venne salvato dal tempestivo intervento di unità non birmane della disciolta armata coloniale. Nonostante l’aiuto determinante di molte etnie, U Nu si volse contro i suoi ex-alleati che reclamavano la nascita di uno stato federale Egli dovette affrontare così anche l’opposizione delle popolazioni rurali e la ribellione del generale Ne Win, che era stato nominato a capo dell’esercito dallo stesso leader. Ne Win conquistò definitivamente il potere nel 1962, instaurando una rigida dittatura militare. Da quel momento nel paese si creò una situazione davvero paradossale. Da un lato il generale Ne Win andò sempre più accentuando il controllo militare, aumentando la repressione e introducendo la cosiddetta “via birmana al Socialismo” (cioè il totale controllo dello Stato su ogni cosa), dall’altro si formarono due opposizioni: una comunista, radicata in larghe aree dello stato di Shan, ed una a carattere etnico localizzata sulle colline e lungo i confini. Durante la dittatura di Ne Win la Birmania restò isolata: situazione che condusse il Paese alla miseria più assoluta. Nei primi anni ’70, Ne Win introdusse la politica dei ‘Quattro Tagli’, che si proponeva di indebolire i gruppi di opposizione perseguitando gli intellettuali e privando la guerriglia di qualsiasi tipo di sostegno. Di fatto, Ne Win avviò una dura politica caratterizzata da deportazioni di massa di civili e dalla creazione di campi di lavoro. Seguì una serie di dure repressioni alle quali l’opposizione rispose con la costituzione, nel 1976, del Fronte Nazionale Democratico, formato da nove gruppi etnici. Tuttavia il dittatore riuscì a mantenere il potere fino al 1988, quando represse diverse manifestazioni guidate da monaci buddisti e da studenti che ebbero luogo in molte città del paese (le sue truppe eliminarono circa 3.000 oppositori). I democratici birmani si unirono allora agli altri gruppi etnici nell’Alleanza Democratica della Birmania per combattere assieme il regime di Ne Win che, alla fine, fu costretto a cedere il potere ad una giunta militare (SLORC), instauratasi nel settembre del 1988. Lo SLORC attuò misure ancora più repressive, se possibile, di quelle imposte da Ne Win, perseguitando e massacrando migliaia di civili. Ma i militari dovettero fare fronte con la perdurante crisi finanziaria, accresciuta dall’embargo internazionale: situazione che li costrinse ad allentare la presa e a promuovere per l’anno 1990 una serie di riforme “democratiche” e libere elezioni. La giunta dovette fare i conti anche con il carisma di Daw Aung San Suu Kyi, la figlia del generale Aung San, considerato da molte etnie birmane l’eroe dell’indipendenza nazionale. Donna colta e determinata, Daw Aung San Suu Kyi si mise a capo di un nuovo partito d’opposizione chiamato National League for Democracy (NLD), venendo però incarcerata nel 1989. Ciononostante, nel corso delle elezioni del 1990, la NLD ottenne l’82% dei seggi, i suoi alleati il 16% e lo SLORC soltanto il due per cento. La giunta, comunque, non soltanto non volle riconoscere l’esito delle votazioni ma fece incarcerare gli eletti e la stessa Aung San Suu Kyi che restò in prigione fino al 1995. La coraggiosa attivista ha così trascorso molti degli ultimi 19 anni in galera o agli arresti domiciliari. Eliminati i rivali, lo SLORC attuò allora una svolta di marca fortemente nazionalista cambiando addirittura il nome del paese (1989) in Myanmar Naing-Ngan (in idioma birmano è l’appellativo dato all’antico regno sviluppatosi nelle pianure centrali) e quello della capitale Rangoon in Yangon, riprendendo nel contempo la politica delle persecuzioni. Il tutto mentre il Partito comunista birmano implodeva a causa della scissione del gruppo militare etnico Wa. Una scissione di cui cercò approfittare lo SLORC negoziando una tregua con i Wa e con altri gruppi, promettendo loro l’appoggio dell’esercito regolare a supporto del traffico di oppio e eroina (una pratica che quei movimenti utilizzavano da diverso tempo per finanziare le proprie lotte). Questa attività fa, ancora oggi, di Myanmar uno dei massimi produttori a livello mondiale di droga. Nel 1997, attuando un grossolano tentativo di “maquillage”, la giunta trasformò il proprio nome in State Peace and Development Council (SPDC), rafforzando in sostanza la precedente politica dei ‘Quattro Tagli’ e proseguendo la dura repressione fatta di lavori forzati, deportazioni, torture, eliminazione di civili sospettati di connivenza con la guerriglia. Oltre a ciò, per guadagnare l’appoggio di un potente alleato, la giunta favorì l’influenza della Cina, oggi maggior partner economico del regime. Tale dipendenza risulta ormai di vitale importanza per i militari di Yangon.
La situazione oggi e il dramma dei cristiani
Ma non è solo la Cina a puntellare Myanmar. Anche l’India (la più grande “democrazia del mondo”) e la Tailandia si sono mostrate molto “accondiscendenti” con il regime al potere in Myanmar. Ecco di seguito un’accurata ricostruzione degli interessi indiani e tailandesi nella regione secondo una ricostruzione fatta dal sito Asia News il 27/09/2007. “I crescenti scambi commerciali coi Paesi confinanti, rendono improbabili le sanzioni contro le violenze della giunta. Thailandia, India e Cina, interessati alle riserve di gas naturale, preferiscono generiche esortazioni ad abbassare i toni, per mantenere “la stabilità” della dittatura e del loro traffico. La preoccupazione per la “stabilità” è alla base anche degli interventi dell’Asean (Associazione dei Paesi del sud est asiatico). Da 10 anni il Myanmar è parte dell’Asean, e questo ha permesso alla dittatura di aprire il suo Paese al turismo e al commercio, ricevendo in cambio un trattamento molto tollerante. L’Asean infatti ha sempre preferito un atteggiamento di “non interferenza” negli affari interni dei membri e nel caso del Myanmar ha addirittura coniato l’espressione “impegno costruttivo”. Questo ha permesso ai Paesi membri dell’Asean di mettere mano alle risorse forestali e al gas naturale, di cui è ricco il Myanmar. In cambio, i Paesi dell’Asean hanno revocato ogni appoggio e ospitalità alle ribellioni etniche contro la giunta. La Thailandia in particolare, grazie alla sua tolleranza verso la giunta e l’intolleranza verso i ribelli, ha un volume di affari ai confini col Myanmar pari a 104, 3 miliardi di bath (circa 2,3 miliardi di euro). Il commercio, cresciuto del 5% dallo scorso anno, vede la Thailandia esportare benzina, attrezzature per la pesca, motocicli, materiale da costruzione in cambio di gas naturale .Le grandi riserve di gas naturale (circa 2500 miliardi di metri cubi), pari all’1,4% delle riserve mondiali, rendono appetibile la compagnia della giunta, al di là della sanguinosa immagine internazionale. Il Paese, oltretutto, manca di capitali e di infrastrutture per l’estrazione e la diffusione. Questo è il motivo fondamentale per cui l’India continua a mantenere uno stretto rapporto con il governo del Myanmar, fin dagli anni ’90, quando la giunta ha soppresso le elezioni vinte dalla leader democratica Aung San Suu Kyi. A tutt’oggi l’India invia tecnici, ingegneri, esperti e ha perfino il 30% delle azioni in diverse piattaforme di estrazione off-shore. New Delhi progetta da tempo un gasdotto di 950 chilometri attraverso il Bangladesh, ma finora le difficoltà esistenti con Dhaka hanno convinto Yangon a vendere il gas alla Cina. La spesa prevista per il gasdotto è di 1 miliardo di dollari. Proprio mentre questa settimana andava rafforzandosi la protesta dei monaci e dei civili a Yangon, Murli Deora, ministro indiano del petrolio, ha visitato la ex capitale e la nuova, Naypydaw, per discutere con la giunta militare nuove occasioni di cooperazione e firmare nuovi contratti di esplorazione in mare.L’India, conosciuta come la più grande democrazia al mondo, ha subito le critiche di molti attivisti anche a Delhi che chiedevano a Murli Deora di sostenere “non il petrolio, ma la democrazia”.Per accattivarsi la giunta – e per cercare di far concorrenza alla Cina, anch’essa affamata di energia, anch’essa in buonissimi rapporti con la dittatura militare – l’India offre al Myanmar anche armamenti anti-guerriglia.Un diplomatico indiano, interrogato ieri sulle vie per influenzare la giunta a non compiere un massacro contro la popolazione, ha dichiarato: “Non possiamo interferire negli affari interni del Paese… E poi, ci sono anche nostri interessi nazionali in gioco.
A tutto ciò va aggiunto che la Cina non si è fatta scrupolo di distruggere una delle foreste più rigogliose e ad alta biodiversità al mondo – quella del Kachin, stato al confine con la Cina abitato anche da una minoranza cristiana (36% della popolazione)- pur di finanziare il proprio colossale sviluppo. Infatti, secondo la denuncia fatta nel 2005 da Global Witness, un’organizzazione ambientalista con sede a Londra, “ogni sette minuti, per 365 giorno all’anno, quindici tonnellate di legname attraversano illegalmente il confine tra il Myanmar e la Cina”. Senza contare la percentuale di legname che regolarmente transita invece lungo la frontiera. Le cause di queste pratiche risalgono a dieci anni fa, quando Pechino si accorse che le sue foreste stavano scomparendo. Bandì pertanto il disboscamento e proclamò diverse aree quali ‘riserve naturali’. Ma la Cina non si fece alcuno scrupolo di trovare altrove la materia prima. Decise così di importarla illegalmente a scapito dell’ambiente birmano. Come denunciato da Susanne Kempel, uno dei redattori del rapporto di Global Witness, “a causa del disboscamento molti contadini sono costretti a lasciare le loro case.” Il motivo? Il selvaggio sfruttamento delle risorse non produce alcun vantaggio per i locali e conduce alla morte della foresta, dalla quale essi traggono il loro sostentamento. Di fatto le aziende di Pechino impiegano solo lavoratori cinesi e le guardie di frontiera impediscono ai birmani di passare il confine per cercare lavoro. In questa situazione le popolazioni migrano di villaggio in villaggio, alla ricerca di una qualche forma di solidarietà. Inoltre, sempre secondo la ricostruzione fatta da Asia News (05/11/2009) “la China National Petroleum Corp. (Cnpc) ha iniziato la costruzione di una pipeline che attraversando il Myanmar accelererà le consegne verso la Cina del petrolio mediorientale che arriva nell’ex Birmania dall’Oceano Indiano. La pipeline di oltre 770 chilometri e con una capacità di 84 milioni di barili l’anno rientra in un piano di ampi investimenti che Pechino sta attuando in Myanmar con l’obiettivo di conquistarsi un maggiore accesso a greggio e gas stranieri, indispensabili per alimentare il suo boom economico. La pipeline collegherà il porto birmano di Manday Island, sull’Oceano indiano, con Ruili, città nello Yunnan – provincia sudoccidentale della Cina – passando per Mandalay. A dare notizia dell’avvio del progetto è la stessa Cnpc, la quale però non aggiunge particolari sui tempi di realizzazione. Una volta completato il lavoro, Pechino potrà così evitare il passaggio delle sue preziose risorse energetiche nello Stretto di Malacca, tra Indonesia e Malaysia, infestato dalla nuova pirateria”
Intanto il paranoico Than Shwe, a capo dello State Peace and Development Council, dimostra notevole capacità nell’applicare la tattica del “divide et impera”: sfruttando i numerosi conflitti interetnici e interreligiosi che permeano la vita del Paese, infatti, il generale ha soffiato sul fuoco dei contrasti fra le diverse tribù minoritarie o, addirittura, di quelli intratribali. D’altra parte, in Myanmar, il razzismo permea la vita quotidiana: Karen e Mon detestano i Birmani, i Rakhine non possono vedere i Rohingyas, Shan e Wa si odiano e i Birmani hanno il complesso di superiorità nei confronti di chiunque. Senza contare che i buddisti disprezzano i cristiani e che tutti non sopportano i musulmani. Una palude di rivalità nella quale la giunta di Than Shwe sguazza a suo piacimento. Per reprimere le rivolte dell’etnia Karen, infatti, Than Shwe ha “giocato” con le lotte religiose interne agli stessi Karen e si è alleato con l’ala militarista buddista del Democratic Karen Buddhist Army (DKBA) facendone una sorta di braccio armato della giunta in operazioni di antiguerriglia contro il Karen National Liberation Army (KNLA), guidato prevalentemente da comandanti cristiani. Lavori forzati, deportazioni di massa, torture, omicidi, spogliamento di ogni avere sono all’ordine del giorno nei villaggi cristiani. Va ancora ricordato che, a tutt’oggi, i Karen cristiani sono l’unica minoranza a non avere mai concordato un cessate il fuoco con la giunta al potere. Pagandone pertanto il prezzo più sanguinoso. Il cessate il fuoco e relativi accordi “sottobanco” rientrano infatti tra gli strumenti utilizzati dal regime per mostrare al mondo un paese finalmente “pacificato”. Fino a quando non è scoppiata in tutta la sua violenza la rivolta dei bonzi, d’altra parte, la giunta aveva sempre favorito il buddismo theravada praticato dalla maggioranza della popolazione. I cristiani venivano sottoposti a una tassa annuale per sostenere la religione buddista ma, in caso di conversione, potevano ottenere l’esenzione dai lavori forzati a servizio dell’esercito. Inoltre le scuole cattoliche erano state confiscate dallo stato e ai cristiani ancor oggi sono vietati ruoli dirigenti o il possesso della Bibbia.. I militari hanno distrutto le grandi croci erette sulle cime delle colline e dei monti che dominano i villaggi abitati dai Chin. Stessa sorte per le edicole religiose e altri segni cristiani. In una area dove i buddisti rappresentano una minoranza esigua ai Chin è fatto obbligo di costruire grandi statue di Budda e templi buddisti. Proprio gli stessi monaci buddisti perseguitati, infine, si sono spesso prestati ad “internare” nei loro monasteri i bambini cristiani separati dalle loro famiglie. Quale sia il livello di paranoico isolamento raggiunto dalla giunta militare è testimoniato dalla costruzione di quella che è diventata la nuova capitale nella giungla, Naypyidaw, dotata di piste aeree, ospedali, hotel a cinque stelle, campi da golf e bunker nel centro montagnoso del paese, a 400 chilometri dalla vecchia Yangon. Naypyidaw ha pure una valenza strategica nella lotta contro le etnie minoritarie essendo assai vicina a molti dei loro rifugi. E in effetti il bollettino di guerra si annuncia ogni giorno sempre più drammatico. Insomma, il silenzio degli innocenti è più che mai reale in questa martoriata regione dell’Asia.