Davanti alle tragedie, alle disgrazie, ai drammi quotidiani, la domanda più in voga è “Dio dov’è?”. Ma domandarsi dove sia il Padre Onnipotente, Creatore del Cielo e della Terra, significa almeno inconsapevolmente, edulcoratamente, ammettere che non ci si crede per nulla, o ci si crede poco e insomma si hanno dei dubbi: sulla sua presenza, sulle sue capacità, sul suo grado di attenzione.
di Léon Bertoletti
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Stralci di pensiero, stracci di fede. Mi riferiscono che l’interrogativo molto in voga davanti alle tragedie, alle disgrazie, alle fatiche, ai drammi quotidiani – tra giornalisti, editorialisti, commentatori e, ahinoi, perfino tra gente di chiesa più o meno istruita, più o meno in carriera – sia «Dio dov’è?» o, in una versione impercettibilmente più devota, «Dio, dove sei?». Il quesito diventa titolo, diventa articolo, diventa frase a effetto buttata lì in dibattito o in trasmissione. Si è sentito, mi dicono, anche qualche monsignore giurare che sì, certo, come no, pure lui se l’era posto e se lo poneva (se è vero, scusate, cadono proprio le braccia). Parlare è fare, come insegna la psicologia del comportamento.
La parola è azione perché, in fondo, dire è agire, cioè comportarsi. Non a caso il linguaggio volgare, osceno, impudico, sporco, sconcio, zotico, rozzo e incivile, le parole e le frasi triviali (una volta si sarebbe detto «erotica verba, sordida verba et rustica verba») sono giudicate la definizione di un carattere, di una personalità; il segnale di una mancanza di educazione, di dignità, di consapevolezza del proprio status intellettuale e morale. Appare evidente, allora, che domandarsi dove sia il Padre Onnipotente, Creatore del Cielo e della Terra, significhi almeno inconsapevolmente, edulcoratamente ammettere che non ci si crede per nulla, o ci si crede poco e insomma si hanno dei dubbi: sulla sua presenza, sulle sue capacità, sul suo grado di attenzione. Vi sembra un’inezia? In realtà è un fatto gravissimo, proprio un guaio. Un guaio anche maggiore quando lo si compie per venire accolti sulle pagine della stampa mondana, per ottenere l’approvazione dei circoli intellettuali e dei salotti.
Qui non c’è più da arrabattarsi in punta di teologia se l’Eterno ci mandi o no i suoi castighi, se (come del resto si continua a dire nell’Atto di Dolore) li abbiamo meritati; no, qui c’è proprio da interrogarsi se chi si professa fedele, almeno lui, ha ancora una briciola di fede e, alla luce di questa, anche di ragione. Se gli è rimasto un po’ di atteggiamento spirituale di fiducia, di fedeltà, di confidenza e di sale in zucca. Se ha conservato l’idea di verità, di stabilità, di fondamento sicuro, di terreno solido. Se ammette il Disegno divino e la Provvidenza. «Se voi non credete, non riuscirete nemmeno a comprendere» suona un indagatissimo passo di Isaia (7,9). Anche chi affronta la religione da un versante scettico non dovrebbe faticare e capire che la logica, lo sguardo, la forza del credente non possono prestarsi a simili giochetti. Se Dio c’è (e noi lo professiamo) la domanda giusta non chiede, quindi, dove accidenti si trovi. Sarà, piuttosto, questa: «Mio Dio, perché?».
Quanto alla risposta, l’Ufficio divino dell’8 febbraio propone quella di Girolamo Emiliani. «Perché vi abbia trattato così, egli solo lo sa» scrive il santo nelle “Lettere ai suoi confratelli”. «Tuttavia possiamo individuare tre cause. Anzitutto il Signore nostro benedetto vi avverte che vuole accogliervi tra i suoi figli diletti, purché perseveriate nelle sue vie: così infatti si è comportato con i suoi amici e li ha resi santi. La seconda causa è questa, che desidera vivamente che voi sempre più confidiate in lui e non in altri, perché, come ho detto, Dio non compie le sue opere in coloro che rifiutano di porre soltanto in lui tutta la loro fede e speranza, ma ha sempre infuso la pienezza della carità in coloro che erano dotati di grande fede e speranza, e in essi ha compiuto grandi cose. Perciò, se sarete ricchi di fede e di speranza, egli stesso, che esalta gli umili, farà in voi grandi cose». Maltrattandovi, affliggendovi, stremandovi, facendovi disprezzare da tutti, privandovi degli oggetti e delle persone care, «vi imporrà di scegliere fra queste due cose: o allontanarvi della fede e ritornare alle cose del mondo, o rimanere saldi nella fede e così essere approvati da lui. Ed ecco la terza causa: Dio vi vuole provare come l’oro nel crogiuolo. Infatti le scorie dell’oro sono distrutte dal fuoco, ma l’oro buono rimane e aumenta di valore. Allo stesso modo Dio si comporta con il servo buono che spera e rimane fermo in lui nelle tribolazioni. Dio lo solleva e di quelle cose che per suo amore ha abbandonato, gli darà il centuplo in questo mondo e la vita eterna nel futuro. In questo modo egli si è comportato con tutti i santi».
Questa è la fede, signori: la fede di ieri, di oggi, di sempre. Spiace doverlo ricordare. Spiace dover redigere un promemoria e invocare un ritorno all’abbiccì per certi preti anche in alto nella gerarchia e certi esperti di religione che intasano le radio e le tv.
11 commenti su “La domanda giusta – di Léon Bertoletti”
Un paese che ha voltato le spalle a Dio e lo bestemmia tutti i giorni non deve nemmeno chiedere “perchè”.
Può sembrare duro da accettare e difficile da mettere in pratica, ma è così: non è Dio a doversi adeguare a noi, bensì sta a noi accettare la sua volontà
e certamente saremo ricompensati.
La parola più abusata dal 1789 in poi è stata LIBERTA’. Ebbene Dio ha sempre rispettato la libertà dell’uomo sin dal primo essere umano. L’errore di quel primo uomo fu un atto di libertà e Dio aveva due sole possibilità: rispettare quella libertà o eliminare le conseguenze di quell’atto libero a meno che il peccatore avesse chiesto perdono. Perdono non fu chiesto e Dio, che è amore e giustizia, non poteva che scegliere per la libertà del reo confesso ma non pentito. La colpa sarebbe stata pagata dai posteri. Fu un amaro destino in cambio della sorte di vivere. Il progetto Uomo fu irrimediabilmente infranto dal primo Uomo e Dio non poteva, se non al prezzo di negare la vita, impedire che quel progetto alterato continuasse ad esistere. Tutti gli esseri umani che vennero poi erano minati nella loro natura dal guasto irrimediabile del peccato. Ma erano vivi. O vivi in quel modo che è quello nostro o nulla. Dio scelse per la Libertà, cioè per l’Uomo e lo amò tanto da sacrificare se stesso per riparare il guasto alla natura nostra che nel progetto originario doveva essere per l’eternità.
Grazie per questo articolo meraviglioso! Avevo in animo di scrivere io qualcosa del genere, ma l’Autore mi ha preceduto ed è stato capace di farlo infinitamente meglio di come sarei stata capace io. E’ stata per me anche una grande lezione di umiltà della quale farò tesoro.
Una volta si sarebbe detto più opportunamente: cosa ho fatto per meritare questo castigo?
una società senza Dio, è destinata SOLO a fallire.
Ed è quello che sta accadendo sotto i nostri occhi.
Purtroppo, molti non hanno ancora capito che: l’Uomo è un povero che ha bisogno di chiedere tutto a Dio e non di sostituirsi a Lui.
Inoltre, anche a proposito di vere e proprie bestemmie rivolte a Dio Onnipotente, non possiamo non ricordare l’antico adagio: “Piscis a capite foetet”.
Profondissimo e chiarissimo. Grazie!
Bella e profonda storia yiddish:
nella schul nasce un acceso dibattito: Lui è infinito, quindi oltre che infinito amore potrebbe anche essere infinita cattiveria .
Si decide di porre la questione ad un anziano e stimatissimo Rabbi, Shlomo.
Costui era sopravissuto, solo, ad Auschwitz, perso moglie figliolini, genitori. Minato nel fisico e perseguitato da terribili incubi, passava i giorni, in una misera stamberga, talora senza neanche un soldo per comprarsi una candela, a studiare le scritture.
In delegazione, la questione è posta a Rabbi Shlomo. Costui, dopo un terribile accesso di tosse, sfinito e rauco rispose : amici miei, non mi risulta che Lui abbia mai fatto qualcosa di cattivo.
G.Vigni
Un’altra deliziosa storia, questa volta tratta dai padri del deserto, mi pare sviluppi il giusto atteggiamento del credente davanti alle afflizioni . Un monaco egiziano si reca a conoscere i famosi eremiti della Siria. Giunto lì gli fanno conoscere un santo Abbà taumaturgo. Assiste a diverse sue guarigioni e, forse, addirittura alla resurrezione di un morto. Alla fine, quando gli chiedono un parere su tanta santità, osserva pacato. “Certo voi qui in Siria avete una strana idea della santità: qui è grande colui che riesce a piegare Dio alla sua volontà, da noi in Egitto uno è tanto più grande quanto più accetta la volontà di Dio”. G. Bortolan
Le generazioni fino ai nostri bis o trisnonni, quelle che oggi irridiamo come ignoranti, avevano più chiara coscienza che Dio, oltre naturalmente a esserci, metteva ben alla prova quelli che credevano in Lui, per confermarli sempre più a Sè: quindi non avrebbero così facilmente sostituito la sacrosanta domanda “mio Dio, perchè” rivolta a Lui presente con un rabbioso “Dio dov’è” urlato nel vuoto. Ma da qualche secolo l’uomo si è abituato a pensare e quindi a pretendere che tutto debba essere come fa comodo a lui, quindi è sempre meno disposto ad accettare la contrarietà (dalla semplice piccola fatica alla grande tragedia) come segno misterioso di azione, e in un certo senso di predilezione, di Dio. Da qualche decennio poi anche la Chiesa, che perfino nella Messa ha un po’ obliterato lo scomodo Sacrificio per concentrarsi sul più compiacente aspetto “festa”, non vuole o non sa più insegnare che la vita terrena non è un grazioso giardino di puri e gratuiti sollazzi, bensì il lavoro preparatorio a quella eterna. Che spesso è da guadagnare, appunto, con fatica e dolore.