Di Rita Bettaglio
Giorni fa mi è capitato tra le mani un volume dal titolo decisamente intrigante “La cruna & il cammello” di Antonio Fuentes (prendete nota perché vale la pena leggerlo: A. Fuentes, La cruna & il cammello, Ares, 1994, euro 12.91). Sarà che da bambina avevo più volte fantasticato di un ago da cucire tanto grande da poterci passare un cammello e mi aveva sempre preoccupata l’eventualità che il camelide riuscisse a passarvi solo con un gobba e rimanesse incastrato, ma il titolo mi ha conquistato subito, dando il la a una serie di riflessioni.
La ricchezza è un bene o, come molti paiono pensare, è lo ‘sterco del diavolo’? Il ricco può salvarsi? Il ricco, per salvarsi, deve divenire “materialmente povero”, sempre e comunque?
Chi, come me, è nata all’indomani del Concilio Vaticano II, ha, purtroppo, inalato col latte materno una buona dose di pauperismo, ancor oggi diffuso in certi settori del mondo cattolico.
La tanto citata, quanto fraintesa, “opzione preferenziale per i poveri” si è spesso trasformata in vero e proprio errore dottrinale. Infatti se pensiamo che il ricco, a motivo della propria condizione, non possa salvarsi, dobbiamo concludere che non esista libertà nell’agire umano e che ognuno di noi sia ‘predestinato’ alla salvezza o alla dannazione eterna. Da ciò consegue che Incarnazione, Morte e Resurrezione di Gesù Cristo siano state del tutto inutili ai fini della salvezza dell’uomo. Questa è un’eresia bella e buona.
A questo punto dovrebbe sorgere nella nostra testolina del terzo millennio il dubbio che, forse, ciò che Gesù intende col termine ‘povero’ non è quanto intendiamo noi. Quando Nostro Signore salì sul monte e proclamò le beatitudini non alludeva certo a moti rivoluzionari o riscosse sociali, questo è abbastanza chiaro. Ma chi era allora questo povero cui appartiene il Regno dei Cieli? Il povero ‘beato’ è colui che è libero dai legami terreni, siano essi relativi ai beni materiali che a quelli intellettuali o affettivi. Il ricco che non riesce a passare per la cruna dell’ago è colui che è schiavo non solo dei beni materiali, ma anche di se stesso e delle proprie disordinate passioni, in una parola, del peccato. E’ colui che si è costruito idoli che hanno occhi e non vedono, hanno narici e non odorano (cfr. Sal 114,6). La povertà evangelica, quella cui dobbiamo tutti aspirare
come figli di Dio, è libertà da ogni vincolo si frapponga tra creatura e Creatore. In questo senso i molti beni materiali possono costituire un ostacolo, una tentazione, ma solo a motivo della debolezza dell’uomo e non di per sè.
Quando, poi, si scambia la miseria per povertà siamo lontani anni luce dallo spirito evangelico. La miseria, il non avere quanto richiesto dalla dignità dell’uomo, è un male e va combattuto in quanto intrinsecamente sbagliato, contrario al piano di Dio.
Gesù, vero Dio e vero uomo, era povero, ma non misero: suo padre putativo, Giuseppe, infatti, non era semplicemente un falegname ma un artigiano specializzato. La famiglia umana di Gesù era relativamente benestante; la tunica con cui salì sul Calvario era di fattura pregiata, tanto che gli stessi soldati non se la sentirono di tagliarla, poichè era tessuta in un pezzo unico. Le frequentazioni del Messia erano le più eterogenee e non disdegnò mai la compagnia di nessuno, materialmente ricco o povero che fosse. Egli ben conosceva la tentazione pauperistica, come vediamo nell’episodio dell’unzione di Betania (Gv 12). Si era a Betania per una cena e vi era anche Lazzaro, l’amico che Gesù aveva risuscitato dai morti. Maria, sorella di Lazzaro, prese una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso e ne cosparse i piedi del Nazareno. A questo punto Giuda Iscariota s’indignò per lo spreco: «Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?». Gesù allora disse: «Lasciala fare (…) I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me». In Giuda, che Giovanni definisce ladro, vediamo tutti quelli che a ogni pie’ sospinto se la prendono col Papa e col Vaticano, rei di possedere immense quanto fantomatiche ricchezze.
Teniamo inoltre presente che nella Chiesa primitiva, nella Roma della predicazione di Pietro e Paolo molte furono le conversioni fra i patrizi, fra le persone facoltose che poterono offrire alla comunità anche il loro aiuto materiale. Lo Spirito, come sappiamo, soffia dove vuole e può suscitare figli di Abramo anche dalle pietre. Ma noi uomini abbiamo il cuore stretto e arido e siamo come gli operai della prima ora che si lamentano col padrone: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Il Signore risponde a loro e a noi: “ Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. A noi sembra impossibile, e quasi ingiusto, che chi abbia già avuto molto nella vita terrena possa avere molto in quella futura, ma siamo noi che non capiamo. Ci sono ricchi poveri in spirito e poveri ricchi in senso deteriore, perchè “non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l’uomo!” (Mt15, 11). Non è ciò che si ha all’esterno, ma ciò che viene dal cuore a guastare l’uomo, ciò che pesa su di esso e lo soffoca.