LA CRISTOLOGIA ANTROPOCENTRICA DEL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II – di Paolo Pasqualucci – quarto capitolo

di Paolo Pasqualucci

quarto capitolo

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7. Il magistero degli antichi concili ecumenici non fornisce alcuno spunto alle tesi di GS 22. Che in Cristo la natura umana sia stataassunta senza esser annientataè notoriamente verità di fede riaffermata a Calcedonia (451) contro leresia monofisita, che negava o sminuiva la realtà della natura umana del Signore. Quel grande Concilio, che adottò la cristologia ortodossa mirabilmente esposta da Papa Leone I (S. Leone Magno) nella lettera al vescovo Flaviano di Costantinopoli (c.d. Tomus Leonis), definì come dogma di fede che in Nostro Signore, “perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, [costituito, luomo] di anima razionale e del corpo, consustanziale al Padre per la divinità e consustanziale a noi per lumanità, “simile in tutto a noi fuorché nel peccato [Eb 4, 15]”; devonoriconoscersi due nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili, non essendo venuta meno la differenza delle nature a causa della loro unione, ma essendo stata, anzi, salvaguardata la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo [esse] a formare una sola persona e ipostasi […]”(1).

La frase di questo Concilio riportata in nota a GS, 22 è: in duabus naturis inconfuse, immutabiliter, indivise, inseparabiliter [Christum Dominum Nostrum] agnoscendum. I passi degli altri due Concili ecumenici, posteriori a Calcedonia, insistono sugli stessi concetti. Queste tre concordanti citazioni vogliono ricordare lassoluta realtà e perfezione della natura umana di Cristo, che non si confonde con quella divina e permane immutata nella sua subsistentia, ed il fatto che lunione ipostatica ha luogo nella persona divina di Cristo ma non è unione che provochi commistione delle due nature, che crei qualcosa di nuovo rispetto ad esse, bensì è unione di due nature che conservano integralmente la loro reciproca sussistenza e distinzione, pur venendo a coordinarsi in una particolare circumincessio nella persona divina del Cristo, nella quale la divinità penetra lumanità senza che sia vero il contrario(2).

Queste citazioni mostrano che il Vaticano II ha voluto ribadire con particolare enfasi lIncarnazione nel suo aspetto concretamente e compiutamente umano, salvaguardando nello stesso tempo la necessaria, insuperabile distinzione tra natura divina ed umana in Cristo, come già esaustivamente definita nei dogmi definiti e confermati da ben tre Concili ecumenici. Tuttavia, da questa riproposizione assolutamente corretta della verità di fede, il testo conciliare sviluppa poi, come si è visto, la proposizione singolare, secondo la quale la natura umana del Signore, “assuntae nonannientatanellunione ipostatica, “per ciò stesso è stata anche in noi innalzata ad una dignità sublime”. Approfondimento del dogma, questa proposizione, o deviazione rispetto ad esso? Se noi analizziamo il contesto nel quale si trovano le tre citazioni deuterovaticane degliantichi Concili”, troviamo qualche riferimento a siffatto innalzamento della natura di ciascuno di noi ad unadignità sublimeper opera dellIncarnazione in quanto tale? A mio avviso, non lo troviamo.

Il testo essenziale, ai fini del nostro assunto, resta quello del Concilio di Calcedonia, ribadendo in sostanza gli altri due i concetti in quello già definiti sulla base del Tomus Leonis. La professione di fede calcedoniense dichiara che Nostro Signore è consustanziale non solo al Padre ma anchea noi per lumanità”. Che significa questa verità di fede, che possiamo ritenere essersi il Signore con lIncarnazione unitoad ogni uomo”, come afferma GS, 22.2? Che forse possiamo trovare qui uno spunto per estendere il concetto dellIncarnazione sino a ricomprendervi questidea che lIncarnazione significhi lunione di Cristoin qualche modo ad ogni uomo”, ossia in modo misterioso con ognuno di noi? Che la consustanzialità del Figlio alla natura umana può allora significare che Cristo ed ogni uomo sono identici, onde luomo verrebbe a partecipare della stessa divinità del Figlio?

Ma valga il vero. Poiché con lIncarnazione lumanità del Cristo era perfetta, era giusto ribadire, contro gli eretici che lo negavano, che il Figlio di Dio è stato ancheconsustanziale a noi nellumanitàcosì come ab aeterno è consustanziale al Padre nella divinità. Ma questaconsustanzialità nellumanitànon significa, evidentemente, che Egli si è unito, con lIncarnazione, a tutta lumanità (“ad ogni uomo”). Significa che il Verbo incarnato è stato in se stessovero uomo, composto dellanima razionale e del corpo”, allo stesso modo di ogni altro uomo. Non è stato un simulacro di uomo, come pretendevano coloro che ne sminuivano o negavano la natura umana: è stato, come individuo storicamente esistito, un vero uomo con tutti gli attributi della natura umana, e quindi della nostra sostanza umana (consustanziale a noi). Simile in tutto a noi, ovviamente tranne che per il peccato. E difatti la Sua umanità è perfetta, essendo libera dalla macchia del peccato.

Lumanità alla quale il Cristo è consustanziale secondo la Definitio dogmatica di Calcedonia, non è dunque il genere umano in senso fisico, costituito da tutti noi, numericamente considerati (daogni uomo”). È una qualità, il quid che fa esser uomo luomo (humanitas, anthropótes), che si ritrova in ogni uomo, e che nelluomo Gesù di Nazareth era perfetta, poiché Egli era Dio incarnato. Egli non è perciò consustanziale allumanità nel senso di costituirein qualche modola sostanza di ogni uomo, come se, con lIncarnazione, si fosse unito anche a ciascuno di noi.

La riprova che questo sia il significato esatto della definizione dogmatica di Calcedonia, si ha, a mio avviso, nel Tomus Leonis, che ne costituisce il fondamento teologico.

Nella completa e perfetta natura di vero uomo, quindi, è nato il vero Dio, completo nelle sue [facoltà], completo nelle nostre. Quando diciamonostreintendiamo quelle [facoltà] che il creatore mise in noi da principio, e che ha assunto per restaurarle (In integra ergo veri hominis perfectaque natura verus natus est Deus, Totus in suis, totus in nostris nostra autem dicimus quae in nobis ab initio creator condidit, Et quae reparanda suscepit)(3).

Nella concisa maniera di esprimersi tipica del latino, S. Leone Magno usa il neutro plurale del pronome relativo, senza il sostantivo: il Signore è natototus in suis”, letteralmente: “tutto nelle sue [cose]” ovvero completo delle sue prerogative (o caratteristiche, qualità, facoltà) di vero Dio, etotus in nostris”, letteralmente: “tutto nelle nostre [cose]”, ossia completo nelle sue prerogative (o caratteristiche, qualità, facoltà) di vero uomo. Ma questa perfezionein nostris”, come deve essere intesa, per non cadere nellerrore? Le nostre facoltà in senso proprio quali sono? Sono quelle che il Creatoreab initioha messo in noi. Ora Egli è venuto perrestaurarle”; per meglio dire, le haassuntead reparanda, perrestaurarlenel senso dirinnovarle”.

Si vede immediatamente che il fine dellIncarnazione non è affatto inteso dal Papa come se consistesse nello svelare alluomo una suaaltissima vocazione”, intesa a realizzare una (supposta) “dignità sublimedelluomo. E perché le facoltà delluomo dovevano esser restaurate? Perché erano state corrotte dal peccato originale. Ilcreatoredi cui al testo, è ovviamente lo stesso Nostro Signore Gesù Cristo, come risulta dallinizio del Vangelo di Giovanni e da Col 1, 15-20. Egli haassuntoquelle facoltà delluomo che Egli stesso aveva creato, al fine di emendarle dalla corruzione nella quale erano cadute.

LIncarnazione è allora avvenuta per restituirci allo stato di perfezione edenica iniziale, rimasta in mododeformatoin noi? No, perché questa è unareparatio”, non unarestitutio”. Il terminereparatio” (come ci informano i dizionari) contiene lidea di emendare e rinnovare. I lessici ed i dizionari ci informano anche che, nel latino ecclesiastico, il Redentore era chiamato Reparator. Lareparatioad opera della Redenzione, ha luogo grazie a Cristo mediante lIncarnazione. E in ciascuno di noi può aver luogo, non grazie alla supposta unione di Cristo con noi ex incarnatione ma solo come imitazione di Cristo da parte nostra: di Cristo uomo appunto perfetto e vero Dio, che possiamo solamente imitare nella nostra lotta per la nostra santificazione quotidiana, con laiuto della Grazia, cioè di Cristo stesso (“senza di Me non potete nulla” – Gv 15, 5). Larestaurazioneorinnovazionedelle facoltà delluomo, come portato dellIncarnazione in quanto tale, non ha, perciò, luogo in ogni uomo ma solo in Gesù Cristo stesso, in Colui che si incarna. Egli assume in se stesso gli elementi della natura umana che erano stati da Lui creati, non quelli (corrotti) aggiuntivi dal Demonio e ci mostra come debba essere luomo nuovo, che è il vero cristiano, le cui virtù sono quelle praticate da Cristo Nostro Signore.

Continua infatti il Papa: “Quegli elementi, infatti, che lingannatore introdusse, e che luomo, ingannato, accettò, non lasciarono alcuna traccia nel Salvatore. perché volle partecipare a tutte le nostre umane miserie, fu anche partecipe dei nostri peccati. Egli prese la forma di servo [Fil 2, 7] senza la macchia del peccato, elevando ciò che era umano, senza abbassare ciò che era divino; perché quellabbassamento per cui egli da invisibile si fece visibile, e, pur essendo creatore e signore di tutte le cose, volle essere uno dei mortali, fu condiscendenza della misericordia non mancanza di potenza (4).

Glielementiche lingannatore introdusse, ad esempio lo spirito di vanità (tramite la donna), la superbia e lo spirito di ribellione uniti alla superficialità di giudizio; elementi fatti propri da Adamo ed Eva per limprovvisa debolezza della loro volontà e del loro libero arbitrio di fronte alla tentazione del Maligno, non potevano ovviamente essereassuntidal Salvatore fattosi uomo. Perciò, unicamente in se stesso, facendosi uomo, Eglirestauravala natura umana nella sua perfezione, essendo Egli senza peccato. E pertanto, pur partecipando alle nostreumane miserie”, non fu ovviamente partecipe dei nostri peccati. Prendendola forma di servo”, umiliandosi sino ad accettare lamorte di croce”, non avvilì ciò che è umano, ma anzi lo esaltò (humana augens), senza diminuire ciò che era divino (divina non minuens). E come è potuta avvenire questa esaltazione nellumiliazione? Perché il farsi obbediente a Dio sino alla morte di croce mostrò la sua natura umana nel suo aspetto migliore, che è quello dellobbedienza assoluta a Dio, quellobbedienza che era appunto mancata ai nostri Progenitori. In questa obbedienza, la natura umana apparivarestauratanella sua purezza originaria, marestauratain Cristo non in ognuno di noi.

In unaltra epistola, S. Leone Magno ribadisce il concetto: “lunione non ha diminuito le caratteristiche divine con quelle umane ma ha innalzato le caratteristiche umane con quelle divine(5). Innalzato in ogni uomo, in ciascuno di noi? No. Innalzato in se stessa, nella natura umana che era unita nella persona del Verbo. S. Tommaso espose il medesimo concetto, come concetto che ribadiva lopinione tradizionale della Chiesa. “Poiché una determinata realtà diventa più degna se esiste in qualcosa che le è superiore, ne segue che la natura umana è più degna in Cristo che in noi” (ST, III, q. 2, a. 2). Lelevazione della natura umana ad una grande dignità, che possiamo anche definiresublime”, avviene in Cristo e ciò non significa affatto che tale elevazione si trasmetta eo ipsoanche a noi”, come afferma GS, 22.2. Significa, come conclude egregiamente Bartmann, cheil Cristo è luomo ideale, non solo dal punto di vista morale ma anche da quello ontologico(6).

Se la dignità sublime della natura umana di Cristo si trasmettesse anche a noi per il fatto stesso dellIncarnazione, allora ognuno di noi diventerebbe come tale luomo o la donna ideale! Invece, lelevazione apportata alla natura umana dallIncarnazione può riverberarsi su di noi in senso solo morale non ontologico; vale a dire, quanto più ci avviciniamo a Cristo come modello di vita nellopera della nostra santificazione quotidiana. E questo perché la natura umana di Cristo è perfetta, essendo senza peccato, mentre la nostra è ontologicamente imperfetta, risultando corrotta dal peccato originale e da quello attuale(7).

Questo dunque linsegnamento costante della Chiesa: con lIncarnazione, le facoltà delluomo furono elevatema da Cristo in Cristo, nostro modello, il nuovo Adamo, dal quale proviene la vita eterna, non in noi. Da Cristo, chevolle essere uno dei mortali (voluit esse mortalium)”: con lIncarnazione, la seconda persona della Santissima Trinità volle essere uno di noi, non in tutti noi. E furono elevate per costituire un modello per noi, capace di guidarci nella difficile opera della nostra redenzione dal peccato. È la perfezione dellIncarnazione a restaurare la natura umana nella sua perfezione, ma solo in Cristo. Se Egli si fosse nellIncarnazione unitoad ogni uomo”, la perfezione si sarebbe mescolata allimperfezione, la corruzione del peccato alla divinità e allincorrotta umanità del Cristo, cosa inconcepibile.

E che la nostra natura umana debba ritenersi sottoposta alla morte e al peccato, e quindi allira divina, ciò è il risultato dellopera del Demonio, che se ne vanta, scrive S. Leone Magno, perché è riuscito a far perdere alluomo i doni divini inizialmente elargitigli dal Creatore. “Il diavolo, infatti, si gloriava che luomo, ingannato dalla sua frode, aveva perduto i doni divini (divinis caruisse muneribus); che era stato spogliato della dote dellimmortalità ed era andato incontro ad una dura sentenza di morte (Et immortalitatis dote nudatum duram mortis subisse sententiam)”(8). Da questo passo si vede chiaramente come, per il Papa, idoni divinifossero andati irrimediabilmente perduti. Luomo ne era statospogliato”. E questa fede non era opinione personale di S. Leone Magno ma rifletteva lopinione costante della Chiesa. Nellelaborazione teologica impeccabile fattane dal Tomus Leonis questa fede acquistò a Calcedonia il valore di una definizione dogmatica e quindi di dottrina perenne della Chiesa.

 

 

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NOTE

1) DS, 148/301-302; G. Alberigo (a cura di), Decisioni dei Concili Ecumenici, tr. it. di R. Galligani, UTET, Torino, 1978, p. 164.

2) B. Bartmann, I, § 92.

3) Decisioni dei Concili Ecumenici, cit., p. 154; S. Leoni Magni Tomus ad Flavianum Episc. Constantinopolitanum (Epistula XXVIII), etc., rec. C. SilvaTarouca S.I., Romae (PUG), 1932, pp. 20-33; p. 24.

4) Decisioni, p. 154; Tomus Leonis, pp. 24-25.

5) Ep. LIX, 3. Cit. in Bartmann, I, § 90 (p. 378): “per quam non minueret divina humanis sed augeret humana divinis”.

6) Bartmann, I, cit., ivi, che riporta la citazione di S. Tommaso.

7) Ciò, ovviamente, senza dimenticare gli effetti ontologici della Grazia, ovvero la cristoconformazione soprannaturale dei battezzati (Nota della Redazione).

8) Decisioni, p. 155; Tomus Leonis, p. 25.

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