La condizione postmoderna: il labirinto nella gabbia digitale (prima parte) – di Roberto Pecchioli

di Roberto Pecchioli

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Noi occidentali postmoderni del XXI secolo viviamo, dicono, nel migliore dei mondi possibili. O almeno, nel più libero di tutti, a memoria storica. Tanto emancipati, liberati, sciolti da legami e idee ricevute da aver rinunciato ad essere noi stessi. La fine delle identità è infatti uno dei tratti distintivi, forse il più sconcertante, della lunga stagione post moderna, sbocco della modernità. In realtà, siamo talmente “post”, da essere financo posteri di noi stessi.  Liberarsi dell’ultima catena, la propria identità, è il gesto finale, autolesionistico al limite del suicidio, della post umanità che si è gettata con entusiasmo nel tritatutto.

Aristotele fondò la sua filosofia sul principio di identità: A è uguale ad A, io sono me stesso e questa presa di coscienza istituisce il Sé, superando Anassagora ed Empedocle (il simile si riconosce attraverso il suo simile o il dissimile?) e portando a compimento l’idea parmenidea di Essere (l’Essere è, e non può non essere). Corollario del principio di identità è quello di non contraddizione, giacché se A è diverso da B, il nesso logico è che B è diverso da A. Si tratta dei fondamentali, su cui poggiano due millenni e mezzo di civiltà. Revocati in dubbio, quanto meno relegati nell’insignificanza, una possibilità tra le tante di una civilizzazione che ha cessato di essere un fiume ordinato per diventare palude infetta, delta labirintico in cui, tra sabbia, golene e isolotti modificati costantemente dalle correnti, di mille canali nessuno conduce più all’alto mare aperto.

Lontano da elucubrazioni filosofiche, la realtà ci mostra un umanità postmoderna la quale non soltanto non sa più chi è, ma rifiuta di saperlo, uno, nessuno e centomila, al mattino è diverso dalla sera o dalla notte. Non più maschio o femmina, italiano, tedesco, o bianco, appartenente ad una tradizione culturale o ad una religione, ma individuo-massa plastico scisso da se stesso, di-viduo. Un’epoca trans, “en travesti”, bisognosa di un camerino teatrale pieno di costumi da affittare a pagamento per interpretare personaggi provvisori e mutanti in una rappresentazione senza canovaccio o trama, l’happening di un compulsivo spogliarsi e rivestirsi, un burlesque di massa in cui nulla e nessuno è definito, meno ancora definitivo. Le avanguardie furono gli artisti, dal Duchamp del surrealismo a René Magritte, il cui dipinto di una pipa, intitolato “Il tradimento delle immagini”, è accompagnato dalla sconcertante didascalia “questa non è una pipa”, a significare la scissione tra rappresentazione, immagine e realtà. Ma c’era ancora la modernità, con le sue certezze picconate ad una ad una, demistificate, infine “decostruite”.

In Pilota di guerra, Saint Exupéry, osservando dall’alto le rovine di Parigi bombardata dai tedeschi, scriveva un brano indimenticabile, incomprensibile all’uomo postmoderno: “Ma una folla in frantumi, se c’è una sola coscienza nella quale essa si ricompone, non è più in frantumi. Le pietre del cantiere sono un mucchio disordinato solo in apparenza, se c’è, perduto nel cantiere, un uomo, sia pure uno solo, che pensa a una cattedrale. Non mi preoccupo del fango se in quel fango è racchiuso un seme. Il seme lo assorbirà per costruire”. La folla ha prestato ascolto a chi si rotola nel fango, le pietre sono divenute rovine, detriti, polvere. Tale è il senso comune dell’ultimo mezzo secolo, quello in cui la declinante modernità si è progressivamente dissolta in post modernità.

L’aggettivo liquido è uscito dal linguaggio scientifico per entrare in quello sociologico, sulle piste di Zygmunt Bauman che ha così spiegato lo spirito dei tempi, modernità liquida, oggi gassosa, ma di un gas che, contro natura, si espande verso il basso. Il pensatore ebreo polacco americano di formazione marxista ha commesso un errore di definizione: liquida non fu la modernità, ma la sua erede diretta che Jean François Lyotard chiamò, in un libro fortunatissimo del 1979, condizione postmoderna.

Lyotard prese atto della fine irreversibile di quelle che chiamò “grandi narrazioni”, ovvero le idee, le credenze ed i valori della civiltà occidentale sorte dall’illuminismo in avanti. Si infrangeva sugli scogli il racconto dell’emancipazione generale degli individui, non era più creduto, alla prova dei fatti, il progresso indefinito, soprattutto si incrinava irrimediabilmente la fede nella verità. L’illuminismo asseriva orgogliosamente l’esistenza della verità, la sua unicità da attingere con lo sforzo titanico della ragione umana al servizio della conoscenza.

La modernità, nonostante Bauman, fu solida. Il problema è che essa sostituì principi e certezze precedenti con parole d’ordine nuove, ma altrettanto nette e definitive. La presa d’atto della loro insufficienza, quando non dell’errore che contenevano ha colto di sorpresa l’uomo occidentale, come se all’improvviso qualcuno avesse strappato un velo, l’ultimo, lasciandolo muto ed impotente dinanzi al mondo. La modernità nuda si rivelò come certe vecchie signore che non si rassegnano allo scorrere del tempo. Senza trucco vistoso, gioielli ed abiti alla moda, svaniscono le finzioni e restano i segni di una bellezza sfiorita. Ciò che accomuna le due protagoniste della nostra epoca, modernità e post modernità, è l’estraneità alle religioni ed alla trascendenza. Come il fisico Laplace presentando la sua Meccanica Celeste affermò che quella di Dio era un’ipotesi che non aveva considerato, la modernità ha consegnato un orizzonte culturale zoppo, da cui ha abolito la metafisica. Julius Evola usava malvolentieri la parola filosofia, preferendo il termine metafisica, ossia la conoscenza e lo studio di tutto ciò che è “oltre” la natura materiale.

Gettata nella spazzatura la metafisica, la modernità ha avvelenato i pozzi e tagliato i ponti dietro di sé. Screditando, irridendo, infine abolendo senza rimorso ogni dimensione “altra”, il pensiero e la prassi occidentale, ripiegati in un cieco, orgoglioso razionalismo, hanno lasciato un’eredità spuria, dimezzata. Vi è di più: enfatizzando se stessa come conclusione della storia, ha inquinato anche le parole. Postmodernità è infatti un assurdo logico, poiché, in qualche modo, cristallizza, impedisce lo scorrere della storia. Essere moderni significa, letteralmente, interpretare il proprio tempo. Poco senso dovrebbe avere diventare postmoderni, posteri di se stessi, oppure il significato ultimo della condizione postmoderna è di non condividere più i grandi racconti, senza tuttavia essere in grado di scriverne di nuovi.  La modernità, morendo, fece testamento, la postmodernità è orfana e non vuole successori. Se lo strutturalismo aveva cercato di individuare delle costanti, la postmodernità guarda al significante, alla parola nuda, senza badare al significato. Più estesa, ma per niente profonda, la cultura resta in superficie e, come tutto il resto, si fa liquida.

Tutto ruota ancora sulle parole d’ordine non più credute, sulle idee che hanno deluso o di cui è stata confutata la validità. Le nostre sono generazioni che non hanno elaborato il lutto, e, una volta uccisi tutti i padri ed espiantati gli alberi genealogici, si sono accorte di non possedere più mappe. La reazione prevalente è quella di correre in ogni direzione tra accelerazioni e rallentamenti, incapaci di immaginare una meta oltre rovi e detriti, neppure l’heideggeriana radura. Un unico imperativo: non si può tornare indietro, qualunque cosa significhi quell’equivoco avverbio caricato di negatività.

Il nuovo atteggiamento è un pastiche fatto di citazioni, rimandi, ripresa di temi e modalità del passato, confuse, affastellate, avalutative. Il motivo dominante è un’ironia disincantata e dissacrante, e poi la mescolanza, l’ibridazione. Una pentola che bolle (melting pot) ma il cui fuoco non viene né spento né attizzato. Va per suo conto, ognuno getta qualcosa nel calderone, a caso, non vi è un disegno, neppure quello dell’eclettismo. Tutt’al più, il postmoderno è una forma inedita di manierismo. Il Vasari chiamò così l’imitazione delle forme rinascimentali: poiché l’arte era giunta al massimo livello, non c’era speranza di migliorare ancora. Il manierismo postmoderno non ha un unico modello, oppure ne ha troppi, da ciascuno sceglie ciò che interessa, soggettivamente, senza un piano. Pensiamo ad opere di architettura come il teatro dell’opera di Sydney, la sede del museo Guggenheim di Bilbao o quello di arte moderna di Graz: citazioni, rimandi, echi, la cui unica costante è l’uso dei materiali della tecnologia contemporanea. L’arte, confusa con la creatività, viene giudicata con un unico criterio, quello del prezzo sul mercato, imposto da mercanti e critici compiacenti.

Perduto il centro, non lo si cerca più, anzi lo si aborre, tutto diventa periferia, non di rado escrescenza, rizoma. In ogni ambito ci si accontenta di risposte contingenti, parziali, sempre strumentali. Richard Rorty torna al pragmatismo, ed in questo si esprime l’egemonia profonda del pensiero anglosassone ed americano. Del resto, l’altra caratteristica della postmodernità è quella di essere l’abito su misura per lo zelig neoliberale ed ipercapitalista. Dalla distruzione creatrice al supermercato dove tutto è in mostra e la varietà dei prodotti, unita al febbrile ricambio delle vetrine, esprime la frammentazione etica e culturale che chiamano libertà o liberazione.

Vi è una frase pronunciata dall’io narrante nell’Aleph, dunque dallo stesso Borges, che esprime più di ogni altra e con anticipo di decenni (l’opera del grande argentino è del 1952) la trappola postmoderna: “Temetti che non fosse rimasta una sola cosa capace di sorprendermi, temetti che non mi avrebbe più abbandonato quella sensazione di tornare a tutte le cose. Fortunatamente, dopo alcune notti d’insonnia, mi vinse di nuovo l’oblio.” Ecco già delineato il tema centrale della postmodernità, il labirinto, il disorientamento, la necessità di sensazioni sempre nuove e complesse, ed insieme l’oblio come difesa estrema dinanzi al mistero che riaffiora. In un altro brano, Borges riflette in questi termini: “ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gl’interlocutori condividono; come trasmettere agli altri l’infinito Aleph, che la mia timorosa memoria a stento abbraccia?”.

La condizione postmoderna genera incomunicabilità proprio perché rigetta i codici comuni, le memorie condivise, senza istituirne di nuove, in un circolo vizioso che somiglia alla corsa vana, grottesca del criceto nella ruota che sta dentro la gabbia. Un paragone ulteriore è il moto accelerato del vagoncino sull’ottovolante nel giro della morte, che sfrutta la forza centrifuga ma non ha nessuno scopo o esito se non il brivido di un attimo, la sensazione, l’adrenalina che scuote l’umanità blasé, disincantata, scettica, annoiata per sovraccarico. Il disincanto del mondo che Max Weber attribuiva alla gabbia d’acciaio della modernità si è trasferito al nostro tempo come un paradossale reincantamento indotto artificialmente, ricercato, istantaneo, puntinista. Fuggito l’attimo, si torna allo status quo ante, da combattere con dosi nuove di eccitazioni, sensazioni, o con l’oblio che José Luis Borges accoglie come una fortuna, dopo l’insonnia febbrile.

Un grande uomo di fede e pensiero come Joseph Ratzinger, il grande incompreso Benedetto XVI, ha invano invocato una nuova alleanza tra la ragione e l’apertura alla trascendenza. Troppo tardi, i canali sono stati ostruiti definitivamente dalla modernità, che li ha nascosti tanto accuratamente da renderli invisibili ai posteri, noi. In una riflessione recentissima, il papa emerito ha messo in guardia contro due follie ugualmente distruttive, l’islamismo radicalmente religioso e l’animus occidentale radicalmente ateo.  Purtroppo, sembra davvero che la Chiesa che egli ha scelto di non dirigere abbia dimenticato l’infinito cui l’uomo anela per addentrarsi nel labirinto in cui non esiste verità, ma libera interpretazione.

Una splendida canzone scritta da Giorgio Calabrese interpretata da Ornella Vanoni, Domani è un altro giorno, narra di una tristezza profonda, e, ad un certo punto, il testo dice “proviamo anche con Dio, non si sa mai”. La postmodernità, incredula per essersi fidata della narrazione atea, non è in grado di giocare quella carta, perché, estranea ad ogni Dio, in fondo, non crede nemmeno che domani possa essere un altro giorno, nuovo e diverso.

Non a caso, l’ultima filosofia di un certo rilievo espressa dall’ultimo mezzo secolo è l’ermeneutica, ovvero una conoscenza che non si propone l’indagine veritativa, ma l’interpretazione da fornirne. Un’efficace definizione del postmoderno è del marxista Tony Cliff: la teoria di rifiutare le teorie. David Harvey, il sociologo che più di tutti ha indagato tale corrente culturale, va anche più in là, scrivendo che il postmoderno “sguazza, si immerge nelle caotiche correnti del cambiamento come se non esistesse che il cambiamento”. Con ciò, sembra chiaro che esso ha portato a compimento la modernità, rovesciandola. La prima ha attaccato tutto il passato per superarlo in una sintesi nuova, la seconda, sconvolta dagli insuccessi, si è rifugiata in una forma di nichilismo iperattivo: il nuovo fine a se stesso, dopo che travolge prima, una lavagna che cancella senza posa i suoi contenuti senza mai esprimere un giudizio di merito, poiché infiniti sono i punti di vista.

Torna alla memoria una volta ancora l’Aleph, metafora postmoderna, nella descrizione di Borges “vidi una piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore. Dapprima credetti ruotasse; poi compresi che quel movimento era un’illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che essa racchiudeva. Il diametro dell’Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa (il cristallo dello specchio, ad esempio) era infinite cose, poiché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo”. L’uomo postmoderno, che ha perduto quasi tutto, ma crede di sapere moltissimo, non è in grado di credere in nulla e cerca una nuova pietra filosofale, che sia “infinite cose”.

Non sa uscire dalla modernità, né per la strada dell’opposizione antimoderna né dell’oltrepassamento ultramoderno; si accontenta del dubbio, del simulacro, della rappresentazione autoreferenziale dominata dai media. Nulla che sia stabile lo appassiona, è al contrario affascinato dall’abbattimento degli steccati, a partire da quello sui ruoli sessuali e professionali per finire con il disinteresse per l’ordine e l’unitarietà, spodestati dal sincretismo, dal bricolage, dalla confusione ritenuta creativa e liberatoria, dall’eterno cartello “lavori in corso”, un’impresa che raccoglie trucioli e sfridi ma getta o trascura la statua intagliata.

Il postmoderno aspira ad essere una sorta di caos calmo, come il titolo del libro di Sandro Veronesi da cui Nanni Moretti ha tratto l’omonimo film. Caos, certo, ma non troppo, poiché troppo fragile è la personalità postmoderna. Significativamente, il libro di Veronesi narra di un uomo per cui la morte tragica della moglie è più un turbamento che un dolore, e che finisce per vivere in automobile, da cui osserva e sperimenta i problemi altrui. La speranza è nella bambina, più saggia, equilibrata e razionale, che lo richiama all’esigenza di dare un ordine alla vita, avanza la richiesta pressante di normalità, di responsabilità, di protezione. Un dialogo tra padre e figlia ci pare un simbolo della condizione postmoderna. “Ormai è il mondo, stellina, a non essere normale. Polimeri, ormoni, telefonini, benzodiazepine, debiti, carrelli al supermercato. (…) Ecco cos’è il mondo. Non è più normale”. In realtà un monologo, carico di nonsense, di piani non paralleli, senza un vero inizio o una fine. A suo modo, postmoderno è lo stesso Nanni Moretti in Ecce bombo, 1978, inizio dell’era liquida; l’intellettuale non si interroga più sui massimi sistemi, ma sulla partecipazione o meno ad un “evento”, come si iniziò a dire. Che dici, vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?  Scie del nulla…

Un insopportabile leggerezza di cui approfittano i due poteri forti della contemporaneità, la cupola neoliberale e l’apparato tecnologico che la sostiene. In fondo, l’errore, o il dramma del caos calmo postmoderno, è aver ridotto il pensiero speculativo a gioco linguistico e prestato fede ad una lettura rigidamente nichilistica di Nietzsche e Heidegger, o, per parlare “postmoderno”, ad un’errata ermeneutica del loro universo. La rinnovata, sinistra fortuna di questi due pensatori è la nostra disgrazia comune.

Come tutti i giganti, entrambi possono essere letti da svariati punti di vista, ed il solitario di Sils Maria non può essere compreso senza attraversare passo dopo passo la titanica operazione di trasvalutazione di tutti i valori da lui intrapresa, con esiti opposti se privilegiamo la superficie nichilista o se sappiamo cogliere il colossale sforzo mitopoietico e creativo che, davvero, fu al di là del bene e del male. Più complesso il discorso su Martin Heidegger. Per la cultura dell’Europa occidentale, purtroppo, la chiave di lettura principale di storia e cultura da oltre due secoli è stata quella illuministico – positivista declinata nelle sue numerose varianti. Per un intellettuale eurasiatico come Alexsandr Dugin, libero dagli schemi che imprigionano noi, il centro del pensiero heideggeriano è assolutamente non nichilistico. Uno dei “tòpoi” dell’autore di Essere e tempo, il celebre Dasein (Esserci), è indicato come elemento chiave, centro di gravità, (nel lessico filosofico “circolo ermeneneutico”) del sistema e della proposta politico culturale che egli chiama Quarta Teoria Politica.

Nella seconda parte del presente elaborato esamineremo più nel dettaglio le complicate linee dell’orizzonte postmoderno, e nella parte finale torneremo, in positivo, sul pensiero di Heidegger e sul Dasein come possibile sentiero d’uscita dal labirinto postmoderno, rammentando il titolo di un’opera del filosofo di Messkirch, Segnavia. Di un segnavia, siamo convinti, ha bisogno più del pane la fragile umanità ritrovatasi sciolta, liquida alle elevate temperature della modernità.

(fine della prima parte – segue)

3 commenti su “La condizione postmoderna: il labirinto nella gabbia digitale (prima parte) – di Roberto Pecchioli”

  1. Speriamo nella positività del sentiero di uscita che lei illustrerà nella seconda parte, gentile Pecchioli, altrimenti, a leggere tutto ciò di prima mattina e riconoscendolo vero, non fa un gran bene. Anche se, ricordando le semplici ma grandiose parole del Santo Curato e sempre esercitando la virtù della Speranza, possiamo consolarci: “L’uomo è stato creato per il cielo. Il demonio ha spezzato la scala che vi conduceva, ma Nostro Signore, con la Sua Passione, ce ne ha data un’altra…La Santissima Vergine è in cima alla scala e la tiene con tutte e due le mani”.

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