Viviamo nel tempo delle banalizzazioni di massa. E qui Hannah Arendt c’entra poco. A essere “banalizzato” nell’Italia d’oggi più che il male sembra essere il bene. Nella misura in cui con il termine “bene” si viene a fissare ciò che agli individui appare desiderabile, lo stravolgimento del bene metafisico, sotto i colpi di maglio del relativismo e del soggettivismo, ha svuotato di ogni valore oggettivo tale concetto. La vulgata corrente è che se “non si fa male a nessuno” tutto è concesso. Inutile allora porsi domande sul bene e sul male.
Al contrario l’autentica frontiera dei diritti è quella di “fare domande”. Dalla loro formulazione passa la verifica di quelli che possiamo definire i “costi sociali” del relativismo etico, cioè le conseguenze sociali delle analisi filosofiche, antropologiche, sociologiche, politiche che stanno alla base del relativismo.
Esistono dei diritti non negoziabili, attraverso i quali è possibile garantire una crescita ordinata dell’uomo e dunque delle relazioni sociali? Dove e come individuarli? Quali conseguenze ha il relativismo etico sull’organizzazione della società? Il suo manifestarsi, radicalizzarsi e radicarsi può essere ridotto alla sfera meramente privata dell’individuo?
Pensiamo ai diritti del nascituro, aggredito dalle politiche abortive. Può essere considerata una società votata al bene, una società che non considera come essenziale il diritto alla Vita, quindi alla sua tutela, già nel grembo materno?
Pensiamo ai diritti del bambino, costretto a subire la destabilizzazione familiare, attraverso il divorzio dei genitori. Non è oggettivamente prevalente il suo “bene”, nell’avere comunque una famiglia che lo sostenga negli anni decisivi della sua crescita, rispetto alla libertà dei singoli genitori?
Pensiamo, sempre in ambito familiare, al diritto a un’affettività completa, quella che nasce da un padre e da una madre. Può la “genitorialità omosessuale” garantire il bene complessivo di un bambino?
Pensiamo al senso della vita e della morte. Il progredire della scienza può arrivare al punto da banalizzare l’esperienza della morte, al punto da negare il senso della Vita?
La libertà del relativismo tanto più è assoluta, cioè senza limiti, tanto più appare foriera di nuovi traumi all’interno del corpo sociale. Con questi mali occorre fare i conti, evitando di banalizzare le questioni cruciali che sono il cuore della crisi contemporanea. Conti morali e insieme sociali ed economici, proprio per la capacità che essi hanno di segnare il corpo della società.
Viviamo in un tempo ben strano, pieno di controsensi, di contraddizioni tanto grandi quanto tenute ben nascoste al senso comune o spesso capaci di carpirne la buona fede.
Ci si preoccupa giustamente della sicurezza del cittadino e della sua salute. Gli si impongono misure atte a salvaguardarne la sicurezza motoria: caschi e cinture, controlli periodici e vincoli.
La libera vendita delle sostanze stupefacenti è proibita. Sui pacchetti delle sigarette vengono stampigliate scritte allarmanti sul rischio di morte.
Uguale zelo non sembra essere destinato ai rischi determinati dalla messa in crisi della famiglia, dall’aborto, dall’assunzione di sostanze stupefacenti e dalla discussione dell’ordine naturale,
Il soggettivismo finisce per sovrastare i diritti altrui, mentre la legge diventa un fragile paravento, inadeguato a proteggere le vittime del relativismo stesso. Pensiamoci quando, per giustificare le derive del relativismo e dell’egoismo, ascoltiamo chi dice: “non si fa male a nessuno”.