Talvolta, presi dalla polemica nei confronti dell’argentino più famoso, Jorge Mario Bergoglio, ci capita di affermare che la nazione sudamericana ha dato all’umanità solo tre grandi: il calciatore Maradona, Carlos Gardel, mitico ballerino di tango e Jorge Luis Borges, il poeta e scrittore del realismo magico. Qualche amico si duole dell’esclusione di Juan Domingo Peròn, ma confessiamo un invincibile fastidio per la sua demagogia eccitata, sudata e tanto sudamericana. Non per caso, fu sempre fieramente detestato dall’aristocratico Borges. Nel nome dell’amore tenace per il vero Jorge (Borges, ovviamente), siamo rimasti sorpresi da un saggio che pone nel pantheon delle influenze intellettuali di Borges Herbert Spencer 1820-1903), il positivista inglese, tra i padri dell’anarchismo individualista.
Spencer, ingegnere privo di cultura filosofica, lesse Auguste Comte con entusiasmo, fu ammiratore e divulgatore delle teorie evoluzioniste di Darwin, oltreché del francese Lamarck, biologo, scienziato ed enciclopedista. Il suo orizzonte può essere descritto come darwinista, con sfumature vicine a Henry David Thoreau e Max Stirner. Capace di affrontare un ampio ventaglio di argomenti, raggiunse una notevole autorità, sino a divenire l’intellettuale europeo più famoso negli ultimi decenni del XIX secolo, segnati dall’avanzata della tecnica e dall’ottimismo scientista. Nel 1902, poco prima della morte, fu proposto senza successo per il premio Nobel, destino condiviso con lo stesso Borges, che non ottenne mai il riconoscimento, preferito finanche al mediocre narratore guatemalteco Miguel Angel Asturias.
Borges, nato a Buenos Aires nel 1899, figlio di un avvocato e docente di psicologia , effettivamente fu ammiratore di Spencer attraverso il padre che se ne professava entusiasta seguace, definendosi “anarchico spenceriano”. Un percorso intellettuale abbastanza comune tra i sudamericani colti del tempo, intrisi di spirito massonico quanto afflitti da complessi di inferiorità nei confronti delle mode europee.
Nella vecchiaia intristita dalla cecità, Jorge Luis Borges narrò un aneddoto dell’adolescenza trascorsa a Ginevra, in cui il padre, durante una passeggiata in un ventoso pomeriggio di agosto, tra le bandiere ondeggianti del ponte sul Lemano, mentre un sacerdote camminava davanti a loro, gli disse: “registra nella tua testa molte delle cose che stiamo vedendo in questo momento: quelle bandiere che volano o quel prete che attraversa la strada; perché sicuramente quando avrai la mia età non ci saranno più. A lungo termine, Spencer avrà ragione. “La previsione non si è ancora del tutto avverata, e un connazionale dell’autore di Aleph è diventato papa, esprimendo tesi e utilizzando un linguaggio che Borges avrebbe aborrito, un peronismo plebeo intriso di retorica collettivista, l’esatto contrario delle convinzioni del grande scrittore.
Insieme, padre e figlio Borges festeggiarono in Svizzera la rivoluzione sovietica, tanto che il giovane poeta celebrò l’evento nella sua prima lirica, I salmi rossi. Presto padre e figlio si ricredettero, sgomenti dinanzi al sangue di una dittatura omicida. Fu la devozione per il padre all’origine della vicinanza a Spencer, ma siamo certi che mai Borges condivise l’espressione del britannico “sopravvivenza del più adatto”, che Charles Darwin avrebbe poi fatto propria, tanto estranea al suo sfaccettato universo assai poco positivista. Addirittura, Borges si iscrisse una volta al Partito Conservatore argentino, “come uno scherzo”, disse, ma non troppo.
In un’intervista del 1981, Borges svelò parte delle sue predilezioni morali, letterarie, esistenziali ed anche politiche. Grande conoscitore dell’antichità greca, affermò di “preferire all’Odissea l’Iliade, dove l’eroe però non è Achille, ma Ettore. Sì, ho simpatia per i vinti, i reietti, purché intervenga a riscattarli, come nei personaggi di Conrad, l’individualismo e quella categoria dello spirito iberico che è “el honor”.
Di qui l’amore per la figura del Chisciotte e l’ammirazione per il personaggio di Lord Jim di Joseph Conrad. Scrisse splendidi versi dedicati a un soldato confederato sudista, morto combattendo per il generale Lee: “sei piedi di terra saranno la tua gloria, / Il dolman grigio si chiazzò del tuo sangue /mentre alta s’agitava la bandiera”. Aveva un rapporto totale con l’infinito, ma chissà se raggiunse mai Dio, “l’Anànche, il caso, colui che, in una biblioteca infinitamente grande, illimitata e aperiodica, detiene il catalogo dei cataloghi”. Pure, in punto di morte, nel 1986, volle accanto a sé un sacerdote cattolico, poiché “sono un uomo etico, come Kierkegaard”.
Noi pensiamo che Borges sia stato uno scrittore religioso, nel senso letterale del termine; religione è ciò che lega, unisce, e nessuno, nel Novecento, ha cercato con altrettanta tenacia l’infinito, l’assoluto, la totalità, sia pure attraverso le strade più impervie, i sentieri più tortuosi. Anarchico sì, per civetteria intellettuale, forse per utopia da uomo di genio, ma conservatore per istinto, anticomunista con la stessa passione con cui avversò ed affrontò il peronismo del suo paese. Critico per aristocrazia intellettuale del consumo e della democrazia di massa (“l’abuso delle statistiche”, la “superstizione della democrazia” nel racconto “L’altro”), scrisse al riguardo una frase significativa: “viviamo in un’epoca molto ingenua; la gente compra prodotti la cui eccellenza è vantata dalle stesse persone che li vendono”. La fonte inesauribile della sua ispirazione fu il mistero insondabile della vita, tanto lontano dal positivismo soddisfatto di Spencer, di cui forse lo intrigava l’apparente apertura all’inconoscibile ostentata dell’inglese, che non uscì mai, tuttavia, dai binari del materialismo.
In Borges, la sensazione prevalente è quella dell’inafferrabile, di ciò che sta irrimediabilmente al di là della nostra comprensione. La sua fu letteratura profondamente filosofica, nutrita di una cultura sterminata, trasfusa nei racconti- il vertice della sua arte- con leggerezza, in piccole dosi successive, una cornice di sapienza ineludibile e insieme non conclusa. L’effetto è un’invenzione continua, un viaggio ardente e temerario intorno a temi universali: il tempo, l’eternità, la morte, la personalità e il suo sdoppiamento, la pazzia, il dolore il destino, fusi nel sentimento drammatico dell’unicità dell’esperienza individuale e nel labirinto inestricabile dell’esperienza e dell’immaginazione, svolti con un’eleganza, un rigore formale, una classicità unici.
La sua cultura fu fortemente influenzata dalle radici europee, ma il respiro è universale. Le sue incursioni in Oriente, Egitto, India, l’amore profondo per Dante, attraverso la cui lettura imparò l’italiano, la conoscenza della cultura dell’altra America, quella statunitense di Mark Twain, Walt Whitman, Conrad, Henry James, non gli fecero mai dimenticare la sua identità di argentino. Amò e descrisse la cultura popolare del suo popolo artificiale, innesto diseguale di Spagna e Italia con vane ambizioni british, il gioco di carte detto “truco”, la sensualità nostalgica del tango nelle milonghe fumose, i modesti eroi popolari delle periferie, il vuoto sterminato del paesaggio della pampa percorso da silenziosi uomini a cavallo.
E ancora il gusto del mate, la bevanda nazionale, preparata da don Isidro Parodi, strambo investigatore che risolve casi labirintici chiuso nel carcere dove è detenuto ingiustamente. I racconti imperniati su Isidro Parodi furono l’esito di una collaborazione – la chiamò impresa intellettuale- con un importante letterato argentino, Adolfo Bioy Casares.
Fu straordinario traduttore dall’inglese e dal tedesco, lingua conosciuta leggendo il poeta romantico Heine e gli amatissimi filosofi dell’Ottocento, in particolare Schopenhauer. La sua opera di traduttore è un esempio scintillante di prosa classica, levigata, uno spagnolo di grande fascino, “castizo”, ovvero puro e insieme rispettoso dell’autore tradotto. In una poesia di età matura, intitolata Un lettore, giacché tale si considerò sempre il cieco del quartiere Palermo, Borges scriveva: “altri si vantino delle pagine che hanno scritto, a me danno orgoglio quelle che ho letto”.
Interamente argentino fu il suo esordio letterario con Fervor de Buenos Aires, un atto di amore alla città che contiene, enorme e circondata da spazi infiniti, il sentimento dell’esistenza nel continuo interrogarsi sul mistero dell’identità, della realtà, del tempo.
Il più dotto dei poeti moderni, conoscitore di ogni civiltà e di tutte le storie, era irrimediabilmente “portegno”, il nome popolare degli abitanti di Buenos Aires, nella controllata emozione dell’uomo “civilizzato”, ma impregnato della poetica dei sobborghi dalle umili “casitas”, non più la grande capitale e non ancora la solitaria pianura, limite e frontiera, luogo di insicurezza ed angoscia, in cui l’universale si specchia nel quotidiano. Emblematico è il finale di Rimorso per ogni morte, una breve lirica di classico nitore da Luna di fronte. “Libero dalla memoria e dalla speranza, / illimitato, astratto/ quasi futuro/ il morto non è il morto: è la morte.”
I suoi racconti, il loro nucleo, la sfera di emozione non si possono riassumere, ma solo vagamente rammemorare. Sono allusive metafore di archetipi, sogni di sogni, memorie di memorie; nemmeno si rammenta il memorioso Funes che non può dimenticare, metafora anche dell’insonnia. Dicevamo di considerare Borges, al di là dell’adesione – che non vi fu – a fedi organizzate, un poeta religioso, assai distante dall’immagine di devoto di Spencer. Ermetico, spesso allusivo, fu un esploratore dell’infinito dalle mille possibilità e sfaccettature. Ne sono esempio le prove più elevate della sua vasta opera, i racconti Finzioni e il celeberrimo Aleph, pieni di complessità filosofica e umanissima commozione di fronte alla grandezza e miseria dell’uomo, ricchi di invenzioni fantastiche, metafisiche, ricerca continua di qualcosa di definitivo sempre inafferrabile.
Nei racconti, in cui invano si cercherebbe una trama vera e propria, Borges ci trasporta in una dimensione misteriosa e affascinante, un labirinto di apparenti divagazioni, allusioni ove simmetria e disordine compongono un disegno i cui contorni si scoprono nel tempo, rileggendo e meditando. I temi più ricorrenti sono quelli del tempo, dell’eternità e della memoria, visti come dedali inestricabili e talora come fardelli, come nel caso di Funes, l’uomo che ricordava tutto e presto morì, travolto dal sovraccarico e dall’impossibilità di dimenticare, gettare la zavorra dell’anima.
Finzioni è la prima grande prova di Borges. La prima parte comprende i racconti del Giardino dei sentieri che si biforcano, un titolo assai borgesiano. Le tematiche spaziano dall’universo inteso come sequenza di processi mentali, biblioteca infinita e imperscrutabile (La biblioteca di Babele). Il destino dell’uomo appare indecifrabile, regolato dal puro caso. In tutti i racconti la riflessione filosofica si intreccia con la trama, spesso intessuta degli aspetti dell’enigma poliziesco. L’irrealtà della letteratura, la finzione del titolo, diventa così la chiave per interrogarsi sul senso del mondo.
L’opera di gran lunga più celebre è Aleph, diciassette racconti, dei quali fondamentali sono il primo e l’ultimo. Nell’“Immortale”, l’intera tematica dell’autore raggiunge il suo vertice con una profondità che lascia senza fiato. Un tribuno della Roma imperiale, appresa l’esistenza di una mitica città degli immortali, intraprende un tormentoso viaggio di ricerca. Giunge in una terra pietrosa abitata dai trogloditi, uomini senza il dono della parola e privi di vitalità; sono loro gli immortali, raggiunti dopo un’angosciosa ascesa in una grotta. Diventa anch’egli immortale, ma scopre che è la mortalità a renderci uomini. Privati della fine, gli uomini non sanno più vivere, così il viaggiatore inizia un arduo ritorno, verso un fiume in grado di restituire, con la mortalità, la vita stessa. Una riflessione domina: “essere immortale è cosa da poco: tranne l’uomo, tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte; la cosa, terribile, divina, incomprensibile, è sapersi mortali”.
Ecco una forma particolare di ricerca religiosa: l’ansia inesausta di infinito, la fatica di Sisifo-Borges che, alla sommità del cammino, non trova la luce, cade ma continua a cercare nel labirinto, convinto, come Amleto, che ci siano più cose in cielo e in terra di quante ne possa contenere la nostra orgogliosa sapienza e che “la vita è troppo misera per non essere anche immortale.”
Singolare è il racconto “Lo Zahir”, termine arabo che indica ciò che dà ossessione, dipendenza, fuoriuscita dal reale. Lo Zahir è solo una moneta da venti centesimi, ma il suo possesso diviene per l’Io narrante, Borges medesimo, idea fissa, psicosi. Che cosa siamo, se un oggetto insignificante arriva a sostituire ciò che chiamavamo vita? Nello “Zahir” vi è una densa pagina sul denaro, considerato astrazione e futuro. “Qualsiasi moneta, è, a rigore, un repertorio di futuri possibili. Può essere un pomeriggio in campagna, può essere musica di Brahms, può essere caffè, può essere le parole di Epitteto che insegnano il disprezzo dell’oro; è un Proteo più versatile di quello dell’isola Pharos.”
L’Aleph conclude la raccolta. Il vedovo della donna amata dal protagonista scopre un punto luminoso nella cantina di casa. È l’aleph, il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli, il punto in cui convergono tutti i punti. Non era che una “piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore; poi compresi che quel movimento era un’illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che racchiudeva. (…) Ogni cosa era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo”.
Che cosa rappresenta l’Aleph, prima lettera dell’alfabeto ebraico che simboleggia Dio e la complessità dell’universo, se non l’eternità, l’infinito, l’aspirazione inattingibile, titanica, della creatura uomo, la comprensione simultanea di tutto che le religioni riservano all’incontro con l’entità superiore chiamata Dio? L’Aleph è punto di partenza e di arrivo, soluzione finale e nuovo necessario enigma a cui allude Borges: “temetti che non fosse rimasta una sola cosa capace di sorprendermi, temetti che non mi avrebbe più abbandonato quell’impressione di tornare a tutte le cose. Fortunatamente dopo alcune notti di insonnia, mi vinse di nuovo l’oblio.”
Di Aleph si imprime nella memoria anche il sorprendente incipit, dedicato al giorno della morte della donna amata, Beatriz Viterbo. “Le armature di ferro di piazza della Costituzione avevano cambiato non so quale avviso di sigarette; il fatto mi dolse, perché compresi che l’incessante e vasto universo già si separava da lei e quel mutamento era il primo di una serie infinita”. La vita continua anche nelle sue forme più banali: ancora Proteo, il dio greco del mutamento. In una lirica matura l’inizio dell’Aleph sembra ritornare nel tema dello specchio, cui si rivolge con rabbia l’anziano poeta: “perché duplichi, misterioso fratello/ il più piccolo movimento della mia mano? / Quando sarò morto, copierai un altro/ e poi un altro, un altro, un altro.”
Si può descrivere l’opera di Borges come l’incanto di in attimo in cui le cose sembra stiano per rivelarci il loro segreto. Perché le cose hanno un segreto, ben distinto dal semplice disvelamento delle leggi fisiche e meccaniche del positivismo materialista, un enigmatico arcano che rinasce in ogni uomo. L’aleph è la sfera che racchiude il segreto dell’universo, metafora e concrezione del trascendente per gli uomini che scrutano l’anima, come i vecchi, in cui “l’animale è morto o quasi morto. Restano l’uomo e la sua anima.”
Borges fu un appassionato bibliofilo, cultore di libri antichi e vecchie edizioni. Con un espediente letterario non originale, finse di aver rintracciato in un manoscritto di Joseph Conrad il frammento originale di un vangelo apocrifo. Sono le 51 Beatitudini, o anti beatitudini di Borges, la rielaborazione del discorso della montagna di Gesù nel vangelo di Matteo. Le beatitudini, vertice della predicazione di Cristo, restano difficili da capire e soprattutto da praticare per l’uomo comune, un progetto di santità pressoché innaturale. Il viandante dell’infinito, lo scopritore dell’Aleph, colui che ha compreso l’umana ansia di eterno le rovescia come un guanto in “Elogio dell’ombra”. Chi scrive, umano, troppo umano, Dio ci perdoni, le ama con trasporto superiore alla difficile parola del Salvatore. Ne citiamo alcune, beatitudini che non conducono forse alla santità, ma esprimono un progetto spirituale di esistenza.
“Sventurato il povero di spirito, perché sotto terra sarà quello che è ora sulla terra. Felice colui che perdona gli altri e colui che perdona se stesso. Che la luce d’una lampada si accenda, anche se non c’è alcuno a vederla: Dio la vedrà. Se la tua mano destra ti offenderà, perdonala; tu sei il tuo corpo e la tua anima ed è arduo, o impossibile, stabilire la frontiera che li divide. Dà quel che è santo ai cani, getta le tue perle ai porci; quel che importa è dare. Cerca per il piacere di cercare, non per quello di trovare. Nulla si edifica sulla pietra, tutto sulla sabbia, ma noi dobbiamo edificare come se la sabbia fosse pietra. Felici coloro che serbano nella memoria parole di Virgilio o di Cristo, perché daranno luce ai loro giorni”.
Il più elevato dei frammenti ci pare quello dedicato al tema dell’odio: “non odiare il tuo nemico, perché se così fai sei in qualche modo suo schiavo. Il tuo odio non sarà mai migliore della tua pace.” Respingere l’odio perché schiavitù, abbassamento di sé, allontanamento dalla verità, ossessione maledetta e fuga dal retto giudizio è un pensiero religioso. Jorge Luis Borges non fu uno scrittore cristiano, ma non riusciamo a vederlo che come un uomo intriso di una spiritualità intensa che inclina alla trsascendenza, troppo portata alla ricerca intellettuale per essere popolare o comprensibile, ma segno tangibile della verità umanissima di un verso de La Rosa infinita: “soy ciego y nada sé, pero preveo/ que son màs los caminos”. Sono cieco e non so nulla, ma intuisco che molte sono le strade.
1 commento su “Jorge Luis Borges, il fascino del labirinto”
Grazie il saggio più bello su Borges da antologia, leggo da tempo interventi studi riflessioni di Pecchioli mi auguro di leggerli raccolti in volume come preziose gemme. Tommaso Romano