Dopo il liberalismo la Scienza Nuova
di Piero Vassallo
Infaticabile studioso e scrittore di provata e seria vocazione anticonformista, Massimiliano Merisi ha approfondito e sviluppato ingegnosamente le interpretazioni vichiane di Rocco Montano (1913-1999) fino a proporre la lettura della Scienza Nuova quale indispensabile metodo per avviare a soluzione i problemi posti ai filosofi della politica contemporanea dalla trionfale/paradossale sopravvivenza dell’ideologia liberalista nello scenario mediatico, che rappresenta il tramonto ufficiale delle ideologie (Cfr. “Un divino piacere Politica e storia nel Vico di Rocco Montano“, Centro culturale Augusto Del Noce, Pordenone 2012).
La fine delle ideologie, infatti, è una notizia fumogena/mistificatoria, diffusa ad arte per nascondere la rovinosa sopravvivenza degli errori originali e finali, che hanno tormentato l’età moderna e tormentano l’età ultramoderna: “Tutto il pensiero politico moderno, da Machiavelli a Marx e da quest’ultimo all’attuale tecnocrazia [di stampo liberal/positivista], si configura in sostanza come una continua variazione sul tema della totale autonomia e autosufficienza dell’uomo slegato da ogni principio trascendente e creatore dei suoi propri valori: tema di matrice squisitamente gnostica, cui Vico cercherà di contrapporre, in continuità con i classici, una risposta radicalmente ed essenzialmente diversa, che, per essere stata storicamente sconfitta, non significa che non sia teoreticamente più valida dell’altra, peraltro responsabile, nella storia, di ripetute ingiustizie e sofferenze”.
In sintonia con l’insegnamento di Pio XII sul positivismo giuridico e sull’assolutismo democratico, errori “che hanno alterato e sfigurato la nobile fisionomia della giustizia, i cui fondamenti essenziali sono il diritto e la coscienza”, Merisi afferma coraggiosamente l’urgenza di rivalutare la tradizione giusnaturalistica e di affrancarla, anzi tutto, dai compromessi con le suggestioni piantate sulla via modernorum ad uso dei cattolici modernizzanti e/o aperti al compromesso con il pensiero zombi.
Di qui la giustificazione del ricorso all’intransigente dottrina dell’italianissimo Giambattista Vico, un filosofo il quale, lo ha riconosciuto l’autorevole Cornelio Fabro, in un memorabile saggio pubblicato nel 1991 nella rivista “Humanitas“, “fu acerrimo nemico dell’ateismo illuministico” e geniale banditore una civiltà che “in mezzo alle aberrazioni fa capo a Dio, reggitore dell’universo e testimonia la sua presenza nel progresso ascendente che l’uomo fa dalla barbarie del bestione verso gli albori della civiltà”.
Solamente la religione è in grado di indirizzare la società e il governo “verso quei princìpi assoluti e non creati da convenzioni o contratti, in mancanza dei quali il rischio implicito è quello del totalitarismo, magari in forme striscianti e non convenzionali“. Il potere totalizzante esercitato dal salotto adelphiano e dalla banca magica, ad esempio.
Vico “si era perfettamente reso conto che il pensiero pagano non esitava a ritenere del tutto conforme a una politica ben fatta il rispetto dei princìpi non derogabili còlti a partire da una riflessione essenziale sulla natura dell’essere umano”.
Vico si oppose con rigore impavido alla contraffatta teologia di Lutero e Calvino, all’irrealismo cartesiano e alle empie teorie di Machiavelli, di Hobbes e di Spinoza, affermando che la nobiltà degli stati discende unicamente dalla religione.
Ora il problema che la politologia d’ispirazione cattolica deve affrontare coraggiosamente e risolvere in vista del riscatto della libertà italiana, è la liquidazione del pregiudizio germanico (strutturalmente anti-italiano) imposto da Antonio Gramsci sulla base dell’immaginaria superiorità di Hegel – “che non può essere pensato senza la Rivoluzione francese e Napoleone” – su Vico, relegato “in un angoletto morto della storia”.
Gramsci ha inquinato la cultura italiana propalando la leggenda “della differenza tra dio [lettera iniziale minuscola, nel testo] e Napoleone – spirito del mondo, tra un’astrazione remota e la storia della filosofia concepita come sola filosofia che porterà all’identificazione sia pure speculativa tra storia e filosofia, del fare e del pensare, fino al proletariato tedesco come solo erede della filosofia classica tedesca” [1].
In vista dell’uscita dei cattolici dalla cattività gramsciana/hegeliana e dai vagabondaggi conformistici, Merisi rilancia la critica del magistero cattolico alle costituzioni di stampo liberale e illuministico, documenti/feticci ritenuti sacri e intoccabili dal potere mediatico e dal salotto buono ma “inficiati dal peccato originale della convenzionalità, del soggettivismo e di un’intrinseca genericità”.
Il positivismo giuridico, posto a fondamento delle costituzioni, infatti, non impedisce che lo stato liberale di John Locke si trasformi impercettibilmente nel soffocante autoritarismo concepito da Thomas Hobbes.
Al presente, l’imperioso, innaturale accrescimento del potere finanziario/cravattaro, che si è attuato in coincidenza con la crisi artificiale dell’economia di mercato, conferma la tesi di Merisi sulla inarrestabile tendenza del liberalismo alla degenerazione tirannica.
Causa della metamorfosi autoritaria del liberalismo è la tendenza dei pensieri a monte dello scisma luterano & anglicano ad avanzare “intenzionalmente contro Machiavelli ma dialetticamente in perfetta congruenza con il suo pensiero“.
La doppiezza del protestantesimo si ripercuote attualmente nel relativismo politico, “totalitarismo democratico, [all’interno del quale] non solo risulta impossibile e politicamente scorretto affermare una qualunque verità oggettiva, ma elemento meno evidente ma inevitabile, il garante della artificiosa convivenza, cioè lo stato, si rivela di necessità non meno totalitario rispetto a quello ideologicamente forte“.
Dalla falsa libertà liberale ha origine la finzione oggidì posta a fondamento delle società aperte “che, lungi dal contrastare direttamente il religioso, lo depotenziano preventivamente, neutralizzandolo nelle sue pretese di rilevanza pubblica e riducendolo a opzione fra le tante, concessa nella misura in cui essa non pretenda di valere assolutamente, e immediatamente avversata e respinta, nel momento in cui essa dovesse ambire a una dimensione veritativa“.
Fatalmente la finzione liberale si traduce in un totalitarismo democratico, in un’asfissiante tirannia fondata sul sofisma relativista, che contempla la separazione della politica dalla morale e pertanto giudica politicamente scorretta l’affermazione della qualunque verità oggettiva.
Non per caso il cattolicesimo politico si è frantumato e dissolto sotto il peso insopportabile di una costituzione fondata sulla sovranità del popolo ovvero del “si dice”. La costituzione, intesa come Vangelo bis, ha costretto la coscienza dei cattolici politicanti a camminare su una corda acrobatica, tesa sull’assenza dell’intransigentissima verità.
Dall’analisi condotta con rigore da Merisi appare evidente l’impossibilità di una rifondazione della politica d’ispirazione cristiana nel deserto superstizioso in cui la costituzione liberalista è associata al Vangelo.
Manifesto di una scuola indirizzata all’insorgenza contro la cultura del compromesso cattolico con il qualunque errore, la coraggiosa opera di Merisi è raccomandata quale dotto preambolo alla politica che deve essere (ri)fondata sulle indeclinabili verità del diritto naturale e della teologia della storia anziché sulla fragile e illusoria sovranità dell’opinione più rumorosa.
[1] “Quaderni del carcere”, Torino, Einaudi, 1975, pag. 1317