SINDACATO LIBERI SCRITTORI ITALIANI
AULA MAGNA DI PALAZZO SORA
MERCOLEDI’ 26 GIUGNO 2013
PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI
PRIMO SIENA
“ INCONTRI NELLA TERRA DI MEZZO”, Solfanelli Editore, 2013
Intervento di
Pietro Giubilo
Il libro che ho l’onore di presentare , insieme ad altri, certamente più illustri, relatori, è un’opera che induce alla riflessione sul percorso intellettuale e politico di una parte della generazione nata prima o a cavallo degli anni della seconda guerra mondiale .
E’ un itinerario nella “terra di mezzo”, cioè in un luogo tra un’Italia culturale e politica fisicamente distrutta e un’altra Italia, uscita dalla guerra, alla quale, una parte di giovani italiani, non sentiva di appartenere compiutamente.
In questa patria differente, gli incontri di Primo Siena possono essere anche gli incontri che molti di noi hanno avuto negli anni ’50, per alcuni, e ’60 e ’70 per altri.
Spero che vorrete perdonarmi se mi lascerò sedurre, per poco, dalla tentazione di partire, in queste mie argomentazioni, da qualche ricordo autobiografico, anche per comprendere meglio l’animus con il quale ho letto il libro.
Sono nato nel 1942 a Roma e avevo poco più di un anno quando mio padre, da poco rientrato dall’Africa, dove era andato volontario, portò tutta la famiglia al Nord, a Sacromonte , vicino a Varese, arruolandosi come ufficiale nella Guardia Nazionale Repubblicana.
La mia prima formazione politica è avvenuta nei racconti di mia madre e di mio padre di quegli anni , per i quali conservo anche qualche immagine di serenità familiare che – è quasi incredibile – il dramma della guerra non era riuscita ad eliminare dalla nostra conduzione di vita.
Erano racconti che descrivevano un rapporto buono con gli abitanti di quelle zone nelle quali eravamo arrivati da poco. Rapporto che mutò solo a seguito delle azioni dei partigiani, all’indomani del 25 aprile.
Mia madre sfuggì miracolosamente alla diffusa e “democratica” abitudine del taglio dei capelli o altro , mentre mio padre salvò la vita solo per l’intervento degli americani che lo condussero al campo di concentramento di Coltano, dove passò alcuni mesi, alloggiando in piccole tende e dormendo sulla terra nuda. Noi lo aspettammo a Como, dove ci eravamo trasferiti, insieme alla famiglia della sorella di mio padre, nell’aprile del ’45.
Data la giovanissima età, soltanto successivamente ebbi la consapevolezza di essere stato un privilegiato , rispetto ai tanti che uscirono orfani dalla guerra civile.
Il ritorno a Roma è il ricordo più netto di quel tempo: accovacciato sulla “camionetta” che ci riportava a casa, dopo il viaggio in treno, andando dalla stazione Tiburtina a Piazza Ragusa, dove si trovava la casa lasciata nel ‘43 , scorsi , soltanto incuriosito e senza sgomento, i palazzi feriti o distrutti dai bombardamenti.
Tornati a Roma trovammo la casa, risparmiata dai bombardamenti, ma occupata dagli “sfollati”, una famiglia che se ne era impadronita, e nella quale , peraltro, eravamo in affitto, e con essa convivemmo diverso tempo, fino a quando , all’ennesima incursione della polizia che notificava denunce penali al nostro convivente, mio padre , perentoriamente, gli impose di uscire di casa.
Furono gli anni , della borsa nera per cercare cibo, dell’epurazione di mio padre che si inventava mestieri nuovi, della tessera annonaria per i consumi contingentati; anni difficili, ma affrontati con coraggio e serenità e soprattutto, con la mia famiglia, messa a dura prova, ma rimasta coerente e fedele alle idee di sempre.
Mi fermo qui.
Dal mio esempio familiare ho avuto l’indicazione, per la vita, di una ricerca di un itinerario che, lasciato un mondo e un ideale sconfitto, riuscisse a ritrovare la conferma ad un ancoraggio ideale e politico, forte e ben radicato sui valori propri della natura umana , civile e spirituale .
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Questo libro di Primo Siena è dettato dall’esigenza di descrivere e ripercorrere alcuni di quegli ancoraggi culturali e ideali che consentirono alla generazione che abbiamo indicato ed alla quale, pur meno anziano, appartengo , di formarsi e consolidare le proprie convinzioni per , poi, contribuire, ognuno nel proprio campo, alla vita dell’Italia.
E’ il cammino di chi, consapevole del ritrovarsi nella terra arida e devastata delle distruzioni morali e fisiche della guerra e sentendo al proprio interno e nell’ambito di ciò che restava della comunità familiare o civile un riferimento altro e superiore , ricerca e trova le ragioni culturali e intellettuali per fondare in se stesso quella città dei valori che nessuno può più distruggere .
Proprio a questo proposito sono significative le parole di Siena sulla sua famiglia, l’affetto, la stima, nelle difficoltà dei giorni difficili di quei tempi.
Come viene fuori dal testo del libro e dalle storie delle idee dei protagonisti, c’è un filo comune che collega personalità intellettuali diverse per formazione e luoghi nei quali scrissero e operarono.
Questo filo comune è la concezione dell’uomo e della vita, spirituale e non materiale, razionale e non dialettica , ideale e non positivista, metafisica e non immanentista che costituisce lo spartiacque della condizione umana e delle ragioni sulle quali fondare la Città e lo Stato.
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Da dove parte l’itinerario di Primo Siena ?
Inizia con Giovanni Gentile, ripercorrendo lo sforzo di conciliare il filosofo di Castelvetrano con Julius Evola.
O meglio, ricorda il suo “tentativo … volto … a far convivere … gli apporti culturali di Evola e quelli di Gentile” ( pag. 15 ).
Ritengo questo passaggio abbastanza centrale rispetto al senso di questi ”incontri nella terra di mezzo”.
C’è, infatti, una vasta parte della generazione, alla quale, in quale modo, mi sento di appartenere che, rispetto alla filosofia di Gentile, si fermò, nella lettura e nell’approfondimento, leggendo il famoso articolo di Evola : “Gentile non è il nostro filosofo”.
Questa linea interpretativa evoliana , di fatto, emblematicamente, rappresenta quell’indirizzo aristocratico, ma, anche, un po’ settario, che impedì a molte valide energie di recare un apporto intellettuale e politico ad una destra che fosse più in grado di influire sulle vicende politiche del Paese.
Non che Gentile avesse un qualche lasciapassare nella temperie culturale del dopoguerra, tuttavia l’aristocratico isolamento e la susseguente apoliticizzazione a cui conduceva il pensiero evoliano restrinsero gli orizzonti operativi di molte intelligenze. Con Gentile, peraltro, l’antifascismo aveva chiuso i conti, con la sua barbara e criminale uccisione e pochi se la sentirono di valutare il grande apporto del filosofo di Castelvetrano alla cultura italiana.
Cosa che , invece, compie, con coraggio e lucidità, Primo Siena.
E la compie con un interpretazione creativa, non una vera forzatura, nel descrivere la “possibile riconversione” del pensiero gentiliano al cristianesimo .
Consentitemi di approfondire, per un momento questo aspetto, sul piano storico e politico , più che su quello filosofico per il quale, ammetto, di non essere adeguato.
Siena riferisce che Gentile , citando gli scritti dei “Discorsi di religione” sosteneva che con “la caduta della destra, nell’ultima fase dell’Ottocento, la politica italiana rompeva nuovamente con la religione e la Chiesa cattolica, per rivendicare una laicità che portava solo il vuoto nello Stato e nella scuola; vuoto dal quale bisognava uscire comunque, giacchè il problema dell’attinenza tra cultura, religione e stato è problema che investe la coscienza di ciascun cittadino” ( pag. 18 ).
Era il 1920 quando Gentile scriveva queste cose, individuando un tema di grande attualità, per allora, ma che non abbandonerà l’Italia per quasi un secolo ; in molte polemiche di oggi, infatti, percepiamo questa stessa problematica, quando, ad esempio, anche un esponente di rilievo della destra, che ha mostrato tutti i suoi limiti culturali, politici e umani, come Gianfranco Fini, espresse la sua netta contrarietà ad un ruolo pubblico della religione.
C’è un altro aspetto intelligentemente riferito da Siena su Gentile , questa volta tratto da “Genesi e struttura della società”, quando sostiene che “la legge ha l’inderogabile necessità del divino” ( pag. 28 ) . Io qui però vorrei spingermi un po’ più oltre e , senza avventurarmi nel suo pensiero, ritengo necessario ribadire che la vera contrapposizione , sul piano giuridico e dello Stato, tra laicità e religiosità è che il diritto positivo non può non aver radici nel diritto naturale, come, poi, avremo modo di rilevare in altra parte del mio intervento.
Infine, una ulteriore citazione di Gentile da parte di Siena, mi trova sensibilmente attento: “ La politica – ha scritto nel suo ultimo libro – è una immanente attività dello spirito umano. E chi, sinceramente e, sapendo il significato delle proprie parole, si proponesse di restar fuori d’ogni politica, dovrebbe rinunziare a vivere” ( pag. 29 ).
E’ questa una dimensione della politica ormai quasi scomparsa e che idealmente, per rimanere nell’ambito della religiosità desunta da Siena su Gentile, ricollego all’idea che anche Paolo VI ebbe della politica come “ la più alta forma di carità”.
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Condivido il quadro selettivo che Siena pone nei riguardi di Julius Evola che ebbi modo di conoscere ed incontrare nei primi anni ’60. In quegli anni un gruppo di cattolici tradizionalisti, provenienti dal Messico, diffuse alcune pubblicazioni, durante i lavori del Concilio Vaticano II.
Appresi da loro la storia della rivolta dei Cristeros, che agirono risolutamente contro il governo massonico e le sue leggi anticattoliche degli anni ’20,ed ai quali è dedicato un libro di Baget Bozzo che, allora, lessi con attenzione ( “Il cristianesimo nell’età post moderna” che contiene un profondo saggio sull’”integrismo di Maritain” che, come mi disse lo stesso autore, piacque al Cardinale Siri ) . La vicenda drammatica e di grande rilievo è riproposta oggi da un libro di Mario Iannaccone ( “ Cristiada “: l’epopea dei cristeros in Messico”, Lindau ).
La mia attenzione a diciotto anni, verso Evola nel ’60 e nel ‘61 , recuperava i suoi testi politici degli anni ’50 ,ma coincise, con l’uscita di “Cavalcare la Tigre” – , con la indicazione della apolitia che, di fatto , come ben spiega Siena , significa , anche, se non soltanto, “un ripiegamento dell’azione nel pensiero” ( pag 64 ) .
Condivido, comunque, quanto affermò Fausto Gianfranceschi e riportato da Siena – e che sentii dalla sua viva voce in un dibattito – che “pur non essendo Evola cattolico, paradossalmente, le sue opere riuscivano , in chi di noi lo era, a rafforzare la convinzione che la filosofia perenne della Chiesa fosse l’unica forma di pensiero vivente e istituzionalizzato in grado di dettare regole di azione e di giudizio”( pag. 65 ).
Ma non sempre era così facile nobilitare agli occhi di un cattolico l’opera evoliana. Mi ricordo – è questo un episodio simpatico – che sempre nei primi anni ’60, mantenendo un certo residuo delle idee del Barone, con l’amico Maurizio Giraldi, che Piero Vassallo ricorda sempre con tanto affetto, argomentando su religiosità maschile e femminile , ricevemmo da Gianni Baget – allora non ancora sacerdote – una risposta tranchant: “ Si, una religiosità per i gabinetti !”.
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In tale contesto, l’omaggio di Siena per Guido Manacorda, del quale non ho avuto modo di leggere le sue opere tranne che “ Il bolscevismo” nell’ edizione del 1942, ci sta tutto.
Non era l’ “ aristocratico pagano”, ma si definiva , come ricorda Siena, l’”aristocratico cristiano”( pag. 69 ).
Siena, poi, ricorda le sue denunce del “ conformismo che ammorbava anche allora la cultura contemporanea” ( ivi ), – e che dire di oggi – , siamo a quella che Baget definiva “la dittatura delle lettere della sinistra”!
Manacorda, scrive Siena, provava ”avversione all’idealismo di Benedetto Croce”, indicava come necessario “riscattare l’uomo dalla anonima massificazione collettiva”, tentava di ricostruire il rapporto tra destra e cristianesimo.
C’è , in Manacorda un aspetto che voglio cogliere e che traggo dalla conclusione del citato libro sul Bolscevismo.
Lo scrittore di Acqui, ma vissuto in Toscana, nel rintracciare “gli elementi che hanno concorso alla creazione, costruzione e sviluppo del bolscevismo”, ne indica quattro: la “ Germania di tradizione hegelo-semitica”, la “Santa Russia con i suoi riflessi bizantini e asiatici”, l’”America ultra-industrializzata, la “Francia illuministica”.
Però, essendo state “le grandi democrazie, chiuse e come incapsulate nelle logore forme dei loro ‘immortali principi’ … ben poco avevano sentito e ancora meno provveduto , di fronte alle esigenze nuove e alla straripante marea del Quarto Stato”; di fronte a questo fallimento i nuovi regimi ( dittatura marxista, Germania nazional socialista e lo “stato fascista di concezione romana” ) , avevano sviluppato “convergenze”.
Manacorda arriva a scrivere che “ i Fascismi non senza varia e movimentata vicenda, hanno per lungo tempo mantenuto rapporti con l’URSS”.
Ma, ed è giusto ricordarlo, Manacorda, rammenta anche il mussoliniano “ o Roma o Mosca”, criticando i più stretti rapporti tra URSS e Germania negli accordi di Rapallo 1921 e Mosca 1939.
Anche Guido Manacorda appartiene, a quell’importantissimo filone di cultura che si accostò al fascismo in nome della “impossibile conciliazione , anche temporanea, della dottrina e prassi comunista con la dottrina e l’azione cristiana” ( pag 79 ), ma che , purtroppo, fece in tempo ad assistere alle premesse di un diverso impegno in senso filo marxista di alcuni settori dell’associazionismo cattolico.
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E, dopo Manacorda, Siena incontra Attilio Mordini.
Già il titolo del capitolo che lo riguarda, “un ghibellino del XX secolo “ (pag. 85), mostra come il libro colga – ed è vero – il forte indirizzo antimoderno di questo scrittore ed è , appunto, come ha evidenziato Carlo Fabrizio Carli nella prefazione a un libro a lui dedicato, la sua visione di un imperium cattolico lo rende vicino al suo “antico concittadino” autore del De Monarchia.
Siena rammenta come questa figura ascetica conobbe, per un lungo anno, il carcere nel quale “incubò i germi della malattia che lo porterà alla tomba a soli quarantatrè anni” e come svolse la sua attività in quella Firenze nella quale incubava il cattolicesimo progressista dei Balducci, dei Gozzini e “dello stesso La Pira”, ai quali Mordini “osava opporsi con argomenti di profondo spessore teologico” ( pag. 86 ).
Certo, un cattolico tradizionalista, negli anni che prepararono la temperie dello spirito conciliare, era anche un anticonformista e venne messo da parte dal “nuovo corso”, insieme a tanti altri illustri scrittori e teologi, pensiamo solo al padre Cornelio Fabro.
Al massimo, in quegli anni, l’impegno “conservatore” della Chiesa si spingeva, ancora solo per alcuni anni, a difendere l’unità politica dei cattolici intorno alla DC , ma guai all’idea di una “difesa della fede nell’ordine civile”, come aveva tentato di proporre Gianni Baget, duramente ammonito e zittito.
Non ascoltando la disillusione di Gianni Baget , insieme ad altri, tentammo di operare dentro il partito cattolico, collaborando negli anni ’70 alle idee presidenzialiste di Celso Destefanis, Ciccardini e Zamberletti in”Europa ’70 “ , fino ad arrivare, negli anni ’80, a sostenere l’impegno politico del movimento di Comunione e Liberazione, finanziando, con Vittorio Sbardella che ne era il direttore politico, un settimanale “ Il sabato”, che formò un bravo direttore Alessandro Banfi, e nel quale scrivevano Augusto Del Noce, Giano Accame, Antono Socci ed altri sostenendo una posizione tradizionalista e, comunque, contraria alla linea ecclesiale e teologica del Cardinale Martini. Ci eravamo illusi che nel partito democristiano ci fosse ancora la possibilità di contrastare seriamente l’emergere della società radicale e della sinistra a suo servizio.
Tornando ad Attilio Mordini oltre la richiamata “concezione virile e militare del Cristianesimo perenne, che Attilio seppe vivere da uomo autenticamente libero” ( pag. 93), e “il significato eroico del Cristianesimo”( ivi ), mi ha colpito l’attenzione che Mordini ebbe per la legge naturale e su cui si sofferma il libro di Paolo Rizza citato da Siena.
“Un ulteriore elemento che comprova l’attualità del pensiero mordiniano – scrive Rizza – è rappresentato dalla valorizzazione delle società naturali che risultano decisive per il costituirsi di un vero ordine civile …; tra queste società naturali di uomini, chiamati a realizzare la propria specifica vocazione in conformità alla legge naturale, intesa quale concretizzazione della lex aeterna, assume una posizione privilegiata la famiglia”.
Dopo alcuni decenni, finalmente , una rinnovata attenzione sulla legge naturale è stata introdotta da Benedetto XVI come testimoniano sia la “ricerca … per un nuovo sguardo sulla legge naturale”, presentato dalla Commissione Teologica Internazionale nel 2009, voluta dal Papa, che lo stesso intervento di Ratzinger al Reichstag di Berlino il 22 settembre 2011 che contiene una netta critica al positivismo giuridico di Hans Kelsen ed è, sostanzialmente , alla base del tema dei principi non negoziabili.
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Continuando negli “incontri”, i riferimenti a Silvano Panunzio, autore che non avevo avuto modo di conoscere e approfondire, mi hanno sollecitato ad acquistare un suo libro del 1996 “ La conservazione rivoluzionaria”.
Debbo confessare che non si è trattato di una lettura facile, non tanto e non solo per uno stile non scorrevole, ma per la difficoltà ad articolare quella differenza tra sociologia antropologica e sociologia tradizionale d’indirizzo spirituale che Siena pone a base della comprensione dei fatti storici e dei contenuti culturali dell’autore.
E’ interessante, invece, l’ulteriore motivazione che proviene da Panunzio alla rilettura di Vico e della Scienza Nuova , del saggio di Juan Donoso Cortes su Cattolicesimo, Liberalismo e Socialismo, delle Avventure di Pinocchio ed altri autori e testi che, più approfonditamente, possono essere interpretati.
C’è un aspetto che ho colto nella lettura del testo su “ La conservazione rivoluzionaria”: quello nel quale Silvano Panunzio ritiene fallimentare i tentativi di interpretazione della crisi della civiltà moderna portati avanti da Rousseau e Marx.
E questo fallimento , spiega Panunzio, è perché non comprendono, soprattutto Marx, che “la tebe è nel progresso tecnico, nell’industria meccanica e … tutto ciò non può essere redento in alcun modo , ma solo cancellato dalla faccia della terra”, fino a giungere, nell’ultima parte, a prevedere “nuovi cieli e nuove terre”, con la “scomparsa … della falsa civiltà meccanica e del mondo finanziario-industriale che prima l’ha prodotta e poi avrà contribuito a cancellarla”.
Mi sembra che con Silvano Panunzio siamo in presenza di una visione troppo deterministica e utopistica : nell’ultimo paragrafo titola: “nuove famiglie regali-sacerdotali e nuove comunità produttive pastorali-agricole”.
E’, a mio avviso, una visione integrista , politicamente impercorribile.
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L’incontro con Michele Federico Sciacca descrive un’altra pagina importante dell’itinerario di Siena , questa volta, a conferma di quel passaggio al cristianesimo favorito anche da quella cultura sviluppatasi in epoca fascista.
L’ inizio del capitolo riferisce della lettura, da parte del filosofo di Giarre, della Spagna franchista, riportata nel 1955 nella rivista “Carattere” e sulla quale aprì una polemica la sinistra democristiana lombarda, con un articolo sul periodico “Prospettive”, con accuse a base di “filo fascismo” ( pag. 107 ) rivolte al filosofo.
Non sono sorpreso di questa “attenzione” della DC di allora verso Sciacca.
La sinistra democristiana in Lombardia, che si identificava con Dossetti, possedeva un connotato più ideologico che sociale. L’idea di caratterizzarsi in senso antifascista dipendeva dalla lettura del “monaco principe”, come l’hanno definito in un libro recente Saleri e Baget Bozzo, della storia dopo la “catastrofe” della guerra e del fascismo. Questo connotato “antifascista” di Dossetti nei primi anni ’50, sarebbe riapparso anche nei primi anni ’90, utilizzato per gettare l’allarme di un possibile ritorno del fascismo attraverso Berlusconi.
Questo attacco del partito democristiano avvenne nonostante che Sciacca, indirizzato da Gentile – come sottolinea Siena –, si fosse dedicato sin dal 1935 “ allo studio intenso dell’opera di Antonio Rosmini” ( pag. 110 ).
Ed è uno studio straordinariamente ricco di suggerimenti per l’itinerario culturale dei giovani di destra volto , come riferito, sia ad “evitare le trappole dell’anticultura illuminista”, sia nel denunciare l’influenza nietzschiana sullo stesso marxismo rispetto alla costruzione dell’”uomo futuro”, assoluto e perfetto, espressione pubblica delle regole e dello stato.
Siena riconosce, e a me fa molto piacere, che Piero Vassallo è stato il massimo sostenitore , attraverso Sciacca, dell’”approdo cattolico della filosofia gentiliana” ( pag. 112 ).
Siena si rammarica per l’ottusità di Almirante che invece di avvicinare Sciacca, preferì “affidare il settore culturale del suo partito ad un barone rosso della filosofia accademica: Armando Plebe” che tentò “mediante un’azione di trasformismo culturale, di accreditare un filone della cultura romantica assieme ad una fumosa attualizzazione filosofica dello storicismo”( pag. 115 ).
E c’è un altro aspetto che è bene sottolineare.
Sono convinto, ancor più di Siena, della improponibilità della definizione di Veneziani su Sciacca come del “Marcuse cristiano”, in quanto se è vero che nel volume citato da Siena “L’oscuramento dell’intelligenza” viene denunciato “l’occidentalismo nelle due forme neocapitalista e comunista in avanzata via di convergenza dell’una e dell’altra per una società universale tecnologica” (pag. 117 ) , che sembrerebbero avvicinarlo ad alcuni assunti del pensiero di Marcuse, invece, in una lunga nota alla fine del secondo capitolo del libro sull’” oscuramento”, Sciacca spiega che “ le varie forme di ‘contestazione’ di questi ultimi anni , sia nei contenuti che nei modi di volerli realizzare , non credo si possano ritenere sinonimi di risveglio contro la tecnocrazia, né una forza di opposizione di cui quest’ultima debba ancora preoccuparsi: non solo sono un suo derivato, ma, in certo senso, la consolidano”.” La contestazione infatti “ – prosegue Sciacca – “ non mette in discussione le negazioni metafisiche ontologiche teologiche del Settecento e dell’Ottocento, cioè accetta i presupposti da cui muove il ‘sistema’ che vuole distruggere; con il suo anarchismo finisce per contribuire alla eliminazione di quanto vi era ancora nel marxismo-leninismo di spinta morale e ‘religiosa’ , di pensiero dialettico e di dottrina della rivoluzione, cioè consuma fino in fondo quel processo di riduzione del marxismo a puro sociologismo operato dalla società del benessere , che, in tal modo, corrompendo lo stesso marxismo, già manifestazione dell’Occidentalismo , può spingersi a un grado ulteriore di corruzione” ( L’oscuramento dell’intelligenza, L’Epos, Palermo 2000, pag. 112 ). Sono, sostanzialmente, le stesse tesi di Del Noce sul “tradimento della rivoluzione”.
Piero Vassallo, in una mail che mi ha inviato, proprio in questi giorni, con riferimento alla “biblioteca di Primo Siena”, sottolinea, a questo proposito come Herbert Marcuse, sostenesse “con piena ragione dal suo pulpito sragionante “ , “che il principio di identità e non contraddizione è la radice del fascismo”.
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Proseguendo nella ricerca degli autori che Siena incontra nel suo itinerario troviamo Vintila Horia.
Siena si sofferma sul contenuto dei due celebri romanzi dello scrittore rumeno “ Dio è nato in esilio” e “Il cavaliere della rassegnazione” e, giustamente, ne trae la conclusione che, nei suoi saggi, Horia “ha proposto la ritirata nel bosco interiore dell’anima, rifugio dell’uomo integrale, perseguitato dall’intolleranza dei dogmatismi prodotti dai paganesimi di destra e di sinistra, falsamente contrapposti in un epoca che s’è distinta come il ‘regno della quantità’, secondo la definizione di Guénon” (pag. 127 ).
E, verso la conclusione del capitolo, aggiunge un’altra riflessione particolarmente centrata : “ La sua sensibilità di poeta metafisico gli permise di cogliere come la ‘vibrazione del denaro ‘ , estesasi globalmente nei tempi moderni , abbia attutito e talora annullato nell’uomo contemporaneo la consapevolezza del rischio esistenziale, inducendolo a rifugiarsi nella fallace sicurezza prodotta dal totalitarismo della tecnologia che gli provvede tutte le possibili comodità materiali, mentre gli sottrae il senso autentico della morte, cioè la consapevolezza di transitare da uno stato vitale ad uno stato spirituale dove il soggetto umano , liberato dal corpo perituro, raggiunge la pienezza e compiutezza dell’essere” ( pag. 132 ).
E’ evidente che se anche i suoi scritti non cadono nella tentazione dell’esoterismo, tuttavia il suo messaggio è analogo all’atteggiamento finale di Evola del “Cavalcare la Tigre”, all’immagine del “convitato di pietra”, al tema del Waldgang nel “ Trattato del ribelle” di Ernst Junger , al quale lo scrittore rumeno ha dedicato uno dei capitoli delle “Considerazioni su un mondo peggiore”, tradotto da Claudio Quarantotto nel 1982 e pubblicato in Italia .
Anche in questo caso, nella sostanza , siamo nel rifiuto e nell’inutilità dell’impegno politico , tema che non è stato di incentivo all’azione politica per la quale, invece, molti giovani della destra , decisero di impegnarsi.
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Avviandomi alla fase conclusiva di questo intervento e tralasciando alcuni autori che , invece avrebbero meritato un esame ( Marino Gentile, Giovanni Papini, Ferdinando Tirinnanzi, Emilio Bodrero e Charle Maurras, ) mi soffermerò, prima di concludere su Romano Guardini, su due autori, per alcuni versi, assimilabili: Russel Kirk e Carlos Alberto Disandro, che, confesso, mi era sconosciuto fino alla lettura di questo libro di Primo Siena.
Il Russel Kirk accompagnato da Mario Marcolla , nella descrizione di Siena, mi ha riportato alla mente le analisi geopolitiche che, negli anni ’60, mi impegnarono, con Maurizio Giraldi, sul tema dell’Europeismo e dell’Occidentalismo , – che pubblicammo su due periodici di battaglia “Europa combattente” e “ Corrispondenza Repubblicana” – che riflettevano gli approfondimenti di Marcolla su gli Stati Uniti. Da Marcolla e Giraldi era stato creato a Torino un sodalizio di giovani , composto anche da Ennio Innaurato e che ebbe familiarità con Augusto Del Noce , come ricorda, con puntuale attenzione, Luciano Lami nel suo pregevole “Introduzione a Augusto Del Noce”, prefato da Francesco Mercadante.
Il pensiero di Russel Kirk ci mette dinnanzi all’”altra America”, quella del pensiero conservatore; al “miracolo di Filadelfia” cioè al carattere non giacobino , non “francese” della rivoluzione americana; al posto significativo che appartiene al diritto naturale nelle “Radici dell’ordine americano “, sottolineato da Marco Respinti; alla coincidenza con le analisi di Edmund Burke sul piano “pervicace e sottilmente diabolico” per “ distruggere lo spirito cristiano , delle utopie sovversive scaturite dall’illuminismo” ( pag. 141 ).
Un’America che, come sottolinea Siena, “raggiunta l’indipendenza dal Regno d’Inghilterra”, realizzerà “una struttura sociale e politica pluralista” , “secondo i meccanismi di una rappresentanza federale basata sul reciproco consenso tra le varie istanze sociali” ( pag. 143 ).
L’analisi sul pensatore americano si conclude con le riflessioni circa il significato della vittoria degli stati del Nord su quelli del Sud nella guerra civile.
“ Da allora – scrive Primo Siena – la mentalità commerciale, affaristica del negozio facile ed economicamente redditizio impose alla mentalità rurale, campesina, avventuriera del sud il proprio modello , incubatore di una vita urbana ed industriale che si eresse come un muro invalicabile contro le aspirazioni americane, dando inizio all’avventura degli expatriates fuggitivi dal Nordamerica; i quali – come Gertrude Stein, Wyndham Lewis, Thomas Eliot, Ezra Pound – cercarono in Europa le radici culturali alla quali ancorare la loro identità originaria” ( pag. 148 ).
Anche per alcuni fatti successivi che Siena descrive, si giunse al ”tramonto del sogno americano” e , forse, proprio in questa condizione vanno ricercate le cause di quelle decisioni, sul piano politico, che nel ‘900 indussero sempre gli Stati Uniti a rientrare nell’ambito del disegno storico, politico e strategico dell’Inghilterra.
Mi ha aiutato a capire questo passaggio il testo che riguarda Carlos Alberto Disandro.
La prosa di Primo Siena scorre sui concetti della ”linguistica” del Disandro con gli accostamenti a Silvano Panunzio e a Attilio Mordini.
Ma il mio interesse segue quello di Siena quando questi spiega che “ fu attraverso il contributo intellettuale di Carlos Disandro che riuscii a comprendere il pericolo, nelle sue diverse sfaccettature geopolitiche , della ‘rivoluzione culturale’ nordamericana propagata dai nefasti alchimisti del Council on Foreign Relations e che – spiega Disandro – ha coperto l’utilizzazione delle guerriglie contro nazionali, sotto l’innocente e pomposo nome di diritti umani ‘ ( pag. 195 ) “.
“ Lo spazio dell’America del Nord – spiega Siena sulla base delle idee del Disandro – fu colonizzato in maggioranza dai puritani evangelici europei ed anglofoni guidati dalla legge mosaica del Vecchio Testamento interpretata fanaticamente”. “ Di conseguenza – continua Siena – questa America puritana ed anglofona si sviluppò secondo una geopolitica talassocratica di tipo fenicio , influenzata da una inclinazione commerciale di tipo marittimo ed associata alla dottrina religiosa del calvinismo secondo cui ‘il successo economico è un segno della predilezione di Dio ‘ “( pag 198 ).
Ed anche questo spiega l’accostamento tra Gran Bretagna e Stati Uniti nell’interventismo delle due guerre mondiali.
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Su Romano Guardini, l’ultimo pensatore che desidero estrapolare dal libro di Siena, non entrerò, anche se considero interessantissima quella sottolineatura sulla “slealtà caratteristica dell’Epoca Moderna verso il cristianesimo che considera la religione cristiana come una semplice ‘introduzione’ ai valori naturali che ogni uomo può coltivare senza dover professare la propria adesione alla trascendenza divina” (pag. 172 ).
E, proprio a questo riguardo, invece, leggerò una non breve citazione da uno scritto di Romano Guardini del 1933, contenuto nel volume VI della sua Opera Omnia, edita in Italia da Morcelliana ( Brescia 2005), si tratta di un commento al salmo 127 e che abbiamo pubblicato sul sito “Cultura per la partecipazione civica” che curo insieme a Massimo Anderson e Fausto Belfiori .
Che inizia “Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori” e si conclude: “Come frecce in mano a un eroe sono i figli della giovinezza. Beato l’uomo che ne ha piena la faretra : non resterà confuso quando verrà a trattare alla porta con i propri nemici”.
La prima parola è “patria” [Vaterland]. Esprime qualcosa di grande, di luminoso di potente. Quando diciamo “patria”, pensiamo ai monti che si ergono grandiosi, ai fiumi con le loro correnti quiete, alle coste e all’ampio mare. Pensiamo ad alte foreste e al grano duro maturo, alle città con il loro lavoro, allo spazio dell’aria ed alle profondità delle miniere.
La seconda parola è “terra natia” [Heimat]. In essa vibra qualcosa di interiore, di intimo. La terra natia è origine, in certo modo è una cosa sola con la madre e il suo grembo buono. Fondo terrestre e grembo materno: lì stanno le radici essenziali dell’uomo. La terra natia è il riparo; ciò che è nostro è lì custodito, e lì possiamo sempre cercarlo. Sulla “patria” si basa la fierezza gioiosa, alla “terra natia” corrono le radici del cuore.
La terza parola è “popolo” [Volk]. Indica le persone [Menschen] che appartengono alla stessa patria e alla stessa terra natia. Questa parola comprende ciò che esse sono e ciò che acquisiscono col loro lavoro; la loro natura e ciò che operano su se stessi; ciò che li rallegra e ciò che li angustia, il loro amore e la loro sofferenza. Comprende gli uomini ed il loro destino. Ed anche i loro genitori, i progenitori, gli avi, sempre più indietro nel passato lontano infinito intreccio di vite, catena infinita di destini.
L’ultima parola è “Stato” [Staat]. Denomina l’ordine che il popolo stabilisce per sé, la costituzione che esso si dà, il diritto che istituisce per presentarsi con onore tra gli altri popoli della terra. Lo Stato è il modo in cui un popolo diviene adulto nella storia, si assume le sue responsabilità e agisce.
Prestiamo ascolto ancora una volta alle quattro parole, così diverse nel loro senso: patria, terra natia, popolo, Stato – e che tuttavia indicano un “tutto” [ein Ganzes]! L’opera è al servizio di questo “tutto”.
Sono gli uomini a costruire quel “tutto”. Di uomini è fatto il popolo, sono gli uomini a formare lo Stato. La terra e la patria sono spazi e mondi umani. Ma non sono stati gli uomini a creare la terra, né a far nascere il popolo.
C’è stata un’epoca in cui questo non era avvertito. Si credeva che la scienza e la cultura dovessero dissolvere la fede in Dio; soltanto dei minorenni e degli anormali potevano ancora averla. Con la guerra la situazione è cambiata; proprio gli uomini più onesti e profondi hanno cominciato a sentire che Dio sta dietro ad ogni cosa. Dio ha formato la “patria”, e in essa i monti e le pianure, i campi e le profondità della terra. È il Suo splendore ch’essa riflette. Egli ha creato le profondità dell’uomo, del sangue, dell’animo, dello spirito, e gli ha dato una protezione e una radice profonda: il grembo materno e la “terra natia”. Ma questa è solo un’immagine d’una realtà più profonda, di quella “terra natia” che è eterna. Anche il “popolo” è un mistero divino. C’è anche il popolo come realtà semplicemente naturale, che non sa donde viene e dove va. In senso cristiano, esso è un frammento di Provvidenza. In ogni popolo c’è storia; ma tutta la storia da Cristo in poi ha acquisito un nocciolo sacro. Così in ogni popolo si trova un mistero della guida divina di Dio, e ad ogni popolo è offerta la possibilità di farsi guidare o di essere “di dura cervice”: [Dt 31.27(N.d.C.)] “scegliere la vita oppure la morte”. Lo Stato è fatto d’altra parte dagli uomini, dalla loro forza, dal loro intelletto e dalla loro fiducia. Ma ciò che sta nell’intimo dello Stato, maestà [Hobeit], diritto, autorità, viene da Dio e vive soltanto se lo Stato teme Dio.
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Credo che questo brano colga nel profondo, la ricerca, gli aneliti, gli orizzonti culturali e politici della generazione della “terra di mezzo” : la sua determinazione a ritrovare i valori naturali e identitari di patria, terra natia, popolo e stato, oltre che di nazione e di civiltà, ed anche la sua ricerca spirituale, l’inquadramento complessivo della sua visione del mondo e della vita, nella fede. In sintesi la sua vocazione ontologica.
Concludo come ho iniziato, con un riferimento autobiografico.
Le mie riflessione su questa importante opera di Primo Siena, a volte sono state accompagnate da riferimenti alla mia personale ricerca e, sento, parimenti , di ringraziare tutti coloro, presenti o assenti, che ho incontrato nel mio percorso: da Maurizio Giraldi a don Gianni Baget Bozzo, da Celso Destefanis a Piero Vassallo, da Fausto Belfiori a Giano Accame , da Claudio Leonardi a Pierpolo Saleri, da Massimo Anderson a Vittorio Sbardella, da Francesco Mercadante a , appunto, Primo Siena.
Ma, come insegna il salmo commentato da Guardini, anch’io, credo, che invano, mi sarei impegnato a costruire, se il Signore non avesse edificato la casa.