Ai tempi del liceo, quando faticavo su Plutarco e Svetonio, mi venne voglia per la prima volta di prendere in mano i Dialoghi in cui san Gregorio Magno (Ɨ 604) ci ha lasciato la celebre Vita di san Benedetto (Ɨ 547). È una biografia antica, priva del nostro sguardo freddo e disincantato sui fatti; un percorso tra quadri, ognuno dei quali lascia un segno nella memoria; una traccia che ritorna a galla, un volto amico che ti sostiene nel tempo perché Benedetto e Gregorio sono uomini che avevano sperimentato quello che scrivevano, tutto.
Il Benedetto che avviciniamo ci attrae attraverso una corporeità non posta in evidenza, ma che intesse un dialogo sotto traccia con il lettore. I tempi vissuti da Benedetto erano assai tormentati (come quelli di Gregorio Magno quando scrive) e il suo viaggio di formazione finisce bruscamente appena iniziato: lasciata Norcia, arriva a Roma ma, visti i compagni che cedevano sulle strade dei vizi, non volendo precipitare nell’orrido abisso e, preferendo rinunciare agli studi, … se ne fuggì.
Gregorio dice con più precisione: ritrasse il piede (Dialoghi II, Roma, Città Nuova, 2000, II.I,1); un gesto spontaneo che si compie quando ci si vuole preservare da un pericolo che minaccia la nostra integrità fisica. Alla minaccia della disgregazione, Benedetto si preserva con la difesa primitiva dell’allontanamento fisico.
Gregorio non interpreta male, non è forse la Regola scritta da Benedetto uno strumento, un complesso di indicazioni operative (buone opere) per tentare di evitare la disgregazione, la dissomiglianza con Dio? Secoli dopo san Bernardo né comprenderà profondamente lo spirito: “la Scrittura dice della dissomiglianza avvenuta, non lo dice perché la somiglianza sia stata distrutta, ma perché è sopravvenuta la dissomiglianza. L’anima non si sveste della sua forma nativa, ma ne riveste una estranea, la quale viene aggiunta senza che la prima sia perduta” (Super Cantica, 83,2).”
San Benedetto si allontana da Roma, come potremmo fare anche noi, non per abbandonare la Fede, ma per preservarla. Fugge da un orrore. Gregorio racconta: “Si diresse verso una località solitaria e deserta chiamata Subiaco, località ricca di fresche e abbondantissime acque … si incontrò per via con un monaco di nome Romano, che gli domandò dove andasse. Conosciuta la sua risoluzione, gli offrì volentieri il suo aiuto. Lo rivestì quindi dell’abito santo, segno della consacrazione a Dio, lo fornì del poco necessario secondo le sue possibilità e gli rinnovò la promessa di non dire il segreto a nessuno. In quel luogo di solitudine, l’uomo di Dio si nascose in una strettissima spelonca” (Dialoghi II, II, 3-4).
Il luogo verso cui si dirige, il celebre Sacro Speco, era una spelonca strettissima, le rocce aspre all’interno delle quali si nasconde, diventano il simbolo fisico dell’orrore non solo di Roma, ma anche di ciò che ogni uomo scopre in sé e dal quale fugge, ma con il quale Benedetto intende misurarsi.
Non da solo – non facciamo nulla da soli – perché abbiamo necessità della mediazione e dell’aiuto dell’altro; per Benedetto, l’altro, è un monaco incontrato per caso. Si chiama Romano (ma guarda te che nome gli dà Gregorio); gli offre l’abito monastico, un segno di non abbandono; Benedetto non andrà alla deriva, si è allontanato da Roma, non dalla Fede.
Non c’è traccia di un eventuale suggerimento offerto a Benedetto di legarsi al monastero di Romano, comunità non irrilevante se anni dopo Gregorio ricorda ancora il nome dell’abate: Adeodato. Romano è lo strumento per non cadere nell’orrore, diventa per Benedetto guida all’orrido che vuole affrontare: un insostenibile senso personale di perdita e vuoto.
Rivestirsi dell’abito monastico è un ripercorrere in qualche modo il percorso del battesimo, dove si riceve una nuova veste per ricoprire la nudità, simbolo del peccato (Gn 3,7). Chissà se Gregorio con la fuga di Benedetto da una Roma corrotta (e non certo per la presenza, ormai debole, dei pagani!) ha in mente il giovane che sfugge nudo alle guardie che arrestano Gesù (Mc 14, 51-52)? Questo discepolo senza nome è un affascinante ideale; la sua nudità è simbolo di libertà interiore (per esempio dai vizi romani, veri agenti di morte) e vuole seguire Gesù fino alla fine. La sua spogliazione, come quella intrapresa da Benedetto, è emblema del passaggio battesimale che riattualizza nel cristiano la morte e la risurrezione di Cristo.
Racconta Gregorio che “dal monastero di Romano però non era possibile camminare fino allo speco, perché sopra di questo si stagliava un’altissima rupe. Romano quindi dall’alto di questa rupe, calava abilmente il pane con una lunghissima fune, a cui aveva agganciato un campanello: l’uomo di Dio sentiva, usciva fuori e lo prendeva” (DII, I,5).
In questo passaggio, d’indubbia bellezza letteraria, Romano, da sopra la rupe, fa scendere il pane; la lunghissima fune è immagine della profondità in cui è inoltrato Benedetto; dall’interno della roccia, Benedetto esce per accogliere il cibo. Romano, la rupe, Benedetto sono racchiusi nel grembo della valle, su tutto aleggia il silenzio che è il linguaggio di Dio e che, in quel momento, in quel silenzio, assiste e compie qualcosa nella loro vita.
Benedetto sta camminando a ritroso verso il Regno dei Cieli, nel grembo della terra rinasce da capo (Gv 3,3), il suo è un affidarsi in primo luogo all’opera di Dio in lui. Forse nella necessità della rinascita di cui parla Gesù nel Vangelo di Giovanni, risiede la scelta di Gregorio nel definire arctissimum specum (strettissima spelonca) il luogo scelto da Benedetto: un’immagine per dare forma concreta a un’anima ancora in conflitto? La vita cristiana come utero: l’uscita dall’utero è un fatto naturale, ma non esente da insidie…
Certamente lo è la scelta di Benedetto in quel momento; vivere in una spelonca espone a prove terribili e, infatti, nella Regola (RB I, 3-5) si preoccuperà di indicare la necessità di essere lungamente addestrati nel monastero con l’aiuto di molti prima di esporsi ad singularem pugnam eremi (al particolare combattimento dell’eremo).
In quel luogo di solitudine, l’uomo di Dio nascosto in quella strettissima spelonca non sembra aver portato con sé qualcosa, sicuramente non aveva una bibbia tascabile (!), non si parla di libri. Li ha avuti da Romano? Non lo sappiamo; quelli erano luoghi poveri, i libri allora erano un bene molto costoso, difficilmente passava inosservata la scomparsa anche temporanea di qualche pergamena. In ogni modo, Benedetto ha nulla o poco più. Questo vuoto di cose lo porterà a scoprire una nudità ben più grande di quella esteriore; quante volte avrà trovato quello spazio strettissimo occupato da apatia, noia, spossatezza di anima e cuore …
Avrà rimpianto, come gli ebrei nel deserto, l’orrore che l’aveva spinto lì e che non è facile da sopportare (tant’è che le immagini lo perseguiteranno, ma questo discorso porterebbe altrove)?
Benedetto, scegliendo un simile luogo, accetta di convivere con la percezione di sé vista dall’interno di un abisso che fa toccare con mano, frequentemente, che siamo fragili come cristalli.
Quante volte in quell’eremo avrà incontrato la luce fredda di un mattino che segue magari un brutto sogno.
Quante volte avrà avuto l’impressione che stava per arrivare l’autunno con il suo passo di sciagura Nel viaggio di ritorno alla Fede, quando si deve ricomporre insieme ogni cosa da capo, questo deve essere messo in conto; è l’abicì del ritorno, della conversione. Confrontarsi con il ribollio della mente, con le angosce che possono invadere l’anima, non è da tutti e per tutti e ne troviamo forse una traccia nella Regola, dove Benedetto pone l’accento a più riprese sulla necessità della ‘lectione divina’.
Noi l’abbiamo spesso fraintesa: essa è in primo luogo e soprattutto memorizzazione! Non limitiamoci a motivarla con l’assenza… della luce elettrica; Benedetto ha sperimentato sulla sua pelle il confronto con i propri fantasmi, la necessità di dover far fronte a forze che appaiono soverchianti.
La memoria è uno scrigno che emerge da un grande caos e solo Dio può infondere quiete, Benedetto ha imparato che memorizzando le parole bibliche (soprattutto i salmi) Dio pacifica la nostra mente e ripara la nostra anima.
Noi abbiamo trasformato la lectio divina in una lettura meditata, cioè controllata dalla nostra mente, un esercizio in fin dei conti introflesso e oggi, sollecitati da molte parole vacue, abbiamo necessità di distanza e bonifica del teatro dell’assurdo nel quale ci siamo cacciati.
Andiamo avanti! Gregorio Magno è maestro e ci propone un episodio da non lasciar scivolare via. Benedetto ha compiuto un cammino severo in quegli anni; si è posto nella situazione di non contare su nulla che non sia Dio. Scompare Romano, il suo angelo, e si trova solo: ”Lontano com’era dagli uomini, il servo di Dio ignorava persino che quel giorno fosse la solennità di Pasqua” (DII, II,7).
Proprio in quel giorno, una spinta misteriosa spinge un prete della zona che stava per iniziare il pranzo pasquale a cercare Benedetto nella sua solitudine. Gregorio non ha problemi a raccontarci che Benedetto non sapeva neppure che quello fosse il giorno di Pasqua… (Quindi non teneva conto neppure delle domeniche…).
Siamo di fronte a un caso, non eccezionale per l’epoca, di massima esposizione al digiuno sacramentale. Non solo: Gregorio accenna al fatto che neppure il prete che lo va a trovare ritiene di dover celebrare la Messa per lui.
Soffermiamoci sulla sequenza dell’episodio: spinto dallo Spirito del Signore il prete trova Benedetto e cosa fanno subito? Pregano insieme, benedicendo il Signore. L’irrilevanza della Fede, un tratto incoraggiato nel cristiano dei nostri giorni, ha come terreno fertile la perdita di consapevolezza della sacramentalità del mondo di cui l’antica liturgia, conservandone invece la purezza della Fede, ne era lo scrigno prezioso.
Benedetto e il suo ospite incontrandosi, –subito – pregano, poi si siedono a conversare, poi mangiano; e non si preoccupano della Messa, nonostante sia il giorno di Pasqua… Abbiamo un ricordo nella Regola di questo modo di procedere (RB 53, 4-5) quando Benedetto chiede che la prima cosa da fare con l’ospite è pregare insieme.
Stiamo andando verso tempi in cui la Messa (parlo di quella vera!) sarà un fatto rarissimo, così come la maggior parte dei sacramenti. O fuggiamo verso l’ennesimo manufatto liturgico (la domenica della Parola di Dio!) o riscopriamo le nostre radici.
Il tanto di moda monachesimo del deserto era assai sobrio (assai) di sacramenti. Gregorio Magno non è certo tacciabile di poco senso liturgico, ma raccontando questi fatti ricorda implicitamente che i (sette) sacramenti sono innestati nella sacramentalità del mondo, nella presenza concreta del Signore, presupposto alla vita liturgico-sacramentale.
Noi che abbiamo perso tutto, dobbiamo reimpararne l’alfabeto, da capo. Perché come prima cosa Benedetto e il prete pregano benedicendo il Signore? Hanno una consapevolezza (ormai perduta) che “del Signore è la terra e tutto quello che la riempie; il mondo e tutti i suoi abitanti” (Sal 23,1).
Si commetterebbe peccato se, godendo del giorno di Pasqua, non si ringraziasse/benedicesse Dio: prima! Innanzitutto!
In quel giorno di Pasqua, in quella vera e propria azione sacramentale, il mondo interiore di Benedetto aveva smesso di essere muto, solitario e conflittuale. Non verrebbe mai voglia di abbandonare la lettura di san Gregorio Magno. Immergendosi nella vita di Benedetto s’impara che per misurarsi con le battaglie dello spirito occorre apprendere una propria profonda calma interiore, quella che Gli permise di affrontare Totila come si affronta un raffreddore (DII XIV -XV).
Gregorio Magno attraverso il suo racconto ci ha reso visibile l’operosità del tacere di Benedetto. Gregorio vive in tempi grami che lo mettono a dura prova, mangia anche Lui dal piatto della distruzione e il cuore della biografia di Benedetto è un messaggio da non dimenticare per comprendere il senso ultimo dell’essere cristiano:
“(Benedetto) spargeva amarissime lacrime (che) non accennavano a finire (e al discepolo disse) Tutto questo monastero che io ho costruito e tutte le cose che ho preparato per i fratelli, per disposizione di Dio Onnipotente, sono destinate in preda ai barbari. A gran fatica sono riuscito ad ottenere che, di quanto è in questo luogo, mi siano risparmiate le vite” (DII, XVII,1).
Il segreto della vita cristiana è una strettura, ciascuno di noi ha un suo passaggio impervio, se non lo compie, rimarrà non percorso, nessuno potrà farlo al suo posto.
E’ il punto dove si trova la Croce, dove si scartano cielo e terra, dove ha luogo il bacio del Signore.
San Benedetto l’ha compreso e lo esprime con il suo corpo al momento della morte: I discepoli sostenevano con le loro braccia il suo corpo debilitato; egli si tenne così, ritto in piedi, colle mani levate al cielo, e tra le parole della preghiera fluì il suo ultimo respiro (DII, XXXVII, 2).
Gregorio Magno ha deposto la penna; i Suoi scritti sono stati l’arca che ha confortato la Chiesa nel tumulto del tempo; a un tratto li abbiamo considerati come il nostro passato. Che cosa sia il diluvio dell’impostura che si riversa sul nostro presente, non basta una parola per dirlo.
1 commento su “In una strettissima spelonca”
Il racconto di San Gregorio sulla vita di San Benedetto è un balsamo per le anime, acqua per la loro sete e pane per il loro nutrimento.
Nel momento presente la barbarie prevale sulla civiltà peggio che ai tempi di Benedetto e di Gregorio, con una ulteriore preoccupazione che pone queste due domande: Abbiamo raggiunto lo stesso grado di barbarie o la abbiamo già superata?
In tutti i due casi, se sia sì o se sia no la risposta alla prima domanda, quanto aumenterà in futuro la barbarie, prima di raggiungere il massimo?