La fantasmagorica produzione vaticana di documenti simildottrinali si è arricchita ultimamente della “Dignitas Infinita” che già nel titolo ha ingenerato qualche allarmata perplessità. Perché nei più maliziosi è nato spontaneo il sospetto di un supporto concettuale approntato per dare dignità, è il caso di dirlo, all’avventuroso “Fiducia Supplicans”, nel senso cioè che si sia voluto affermare la dignità estesa in senso quantitativo a qualunque manifestazione umana, in virtù della qualitativa superiorità umana.
Il sospetto, fugato a prima vista dalle sacrosante riconferme della morale cattolica per cui va rispettata la dignità dell’uomo in sé in quanto creatura – rispetto ovviamente che non esclude affatto la possibilità di giudicare antiumane le sue azioni – ha trovato poi conferma in certe ambiguità del testo e soprattutto nelle dichiarazioni con cui l’immaginifico custode della dottrina lo ha presentato alla stampa.
Purtroppo tutto questo appartiene ormai più al folklore vaticano che alla fede e alla fine lascia il tempo non proprio luminoso che trova.
Ma è anche vero, per altri versi, che proprio sul tema della dignità umana, nelle sue articolazioni storiche, teologiche e filosofiche, occorre fermare l’attenzione per decifrare i tanti fenomeni inediti che segnano la contemporaneità e che a quel concetto per vie diritte o distorte si ricongiungono.
Infatti, oggi come non mai appare chiaro che siamo giunti alla resa dei conti tra i due modi fondamentali in cui, attraverso una storia millenaria, ha preso forma la idea della dignità umana.
Da un lato quella per cui essa deriva all’uomo dall’essere creatura generata, secondo la immagine michelangiolesca, da un Dio che la sovrasta. Dall’altro, l’uomo che col tempo non ha riconosciuto più alcuna dipendenza, nulla più in alto della propria volontà e immaginazione, e che attinge ad essa la propria dignità e il proprio valore.
Tra questi due poli passa tutta la parabola di una civiltà che si identifica, appunto, con la storia del proprio pensiero prima teologico, poi filosofico, quindi scientifico. Una parabola che va appunto dalla idea, consacrata nel libro della Genesi, dell’uomo creato da Dio a Sua immagine e somiglianza, trapassata nel dogma della Incarnazione, e poi dissolta a poco a poco fino a rovesciarsi nel dramma moderno “dell’umanesimo ateo”.
Un rovesciamento che appare a noi in tutta la sua compiutezza, ma che non sfuggì all’occhio attento di chi ne presagiva il compimento.
Se la creazione in sé apparve al suo creatore “molto buona”, questo doveva implicare che anche i suoi frutti futuri sarebbero stati “molto buoni”, secondo le aspettative divine. Ma come sappiamo le cose sono andate diversamente. Il peccato di orgoglio ha tradito quelle aspettative con la caduta degli angeli e quella dell’uomo, ed è stato dettato dal desiderio dell’uomo di farsi uguale a Dio e la cui pericolosità era stata presagita lucidamente da un popolo dalle spiccate attitudini speculative e che pure aveva coscienza del grande valore dell’uomo.
La tentazione della onnipotenza è stata alla base della perdizione di Adamo. Anche Prometeo si è perduto per avere osato troppo, ma a differenza di Adamo il suo era stato un gesto filantropico, anche se indirettamente aveva indotto nell’uomo “le false speranze”.
Infatti era stato punito per motivi oggettivi. Adamo invece ha peccato di superbia come chiunque voglia assumere un ruolo che non è suo. La conseguenza punitiva ha avuto presupposti diversi, ma noi siamo metaforicamente figli di entrambi.
Dopo la scomparsa del mondo antico e la lunga gestazione di quello cristiano che vi si era innestato, totalmente polarizzato sulla volontà e la legge di Dio, l’umanesimo riapre la finestra sul valore dell’uomo e delle sue opere, sul suo essere “meraviglia” come lo definiva Marsilio Ficino e che, come tale, mostra la propria natura divina.
Tuttavia l’esaltazione dell’uomo nella trattatistica più antica, come negli umanisti del xv secolo, come scrive De Lubac, non era al contempo diminuzione di Dio, ma semmai proprio la rappresentazione della bontà e grandezza, della onnipotenza divine.
“Attingendo alla Genesi e a San Paolo, i Padri della Chiesa e poi i medievali, avevano trasformato lo gnothi seautòn dell’oracolo di Delfi che invitava l’uomo a comprendere di essere soltanto un essere mediocre separato dagli dei da un abisso incolmabile, prigioniero nel grande universo del quale doveva subire le leggi. Ora con la stessa formula lo invitavano, al contrario, ad esplorare le profondità del proprio essere, certamente non per scoprirvi illusoriamente una essenza divina, niente faceva loro più orrore, ma per cogliervi il segno di un destino superiore, una chiamata al di là di tutti i limiti che sembravano rinchiuderlo”.
In ogni caso, col tempo ha preso forma la contrapposizione tra due fondamentali punti di vista.
Da un lato quello per cui grandezza dell’uomo e grandezza di Dio sono inseparabili. Dall’altro l’idea che l’uomo faber fortunae suae rivendica titanicamente la propria indipendenza da Dio finché arriverà a postulare la sua inesistenza. Per questa via sarà addebitato proprio all’umanesimo di avere gettato le basi per la eliminazione di Dio. Inoltre, e per altro verso, se le regole della convivenza le detta l’uomo che le può fare e disfare a proprio piacimento e a seconda del prevalere di questo o quel potere, lo Stato diventa etico non in quanto custode di un’etica teleologicamente orientata al bene comune, ma perché posta al servizio del potere.
La possibilità di questa ambigua trasformazione dell’uomo era già stata osservata da Pico della Mirandola per il quale “nell’uomo nascente il Padre infuse germi di ogni specie di vita”, germi che potranno produrre sia l’animale celeste che il bruto, in ragione di una natura cangiante e metamorfica.
Pico, convinto di essere in perfetta ortodossia cristiana, nella sua Oratio mette in evidenza la Dignità dell’uomo in quanto capacità, in virtù della libertà del volere donatagli da Dio, di farsi angelo o bruto. Non solo dunque di essere libero di scegliere, come voleva sant’Agostino, tra bene e male, ma di essere dotato di natura cangiante e metamorfica e dunque di poter percorrere strade opposte e assumere forme opposte. Tutto ciò sembrò agli occhiuti ma non sprovveduti censori vaticani il presagio pericoloso di pericolose rivendicazioni di autonomia spirituale e di futura totale licenza.
Dunque qui già si annidava il possibile equivoco. La dignità è di qualunque creatura umana in quanto tale, per cui solo a Dio è dato disporne (nel senso per cui è stato detto “nessuno tocchi Caino”), o nel senso per cui qualunque manifestazione, qualunque decisione di vita è giustificata in nome di quella dignità, come, a pensar male, forse vorrebbe Tucho Fernandes?
Insomma, in prospettiva si poneva già il problema se l’uomo è buono in sé in quanto creatura, e le sue azioni siano di conseguenza anche buone, o in quanto capace di bene e nei limiti in cui agisca per il bene proprio e altrui; inoltre, e infine, che cosa sia veramente il suo bene presente e futuro.
Mentre poi ci si è dovuti chiedere, e oggi la domanda è diventata lacerante, se l’uomo faber sia ora in grado di dominare ciò che è diventato capace di produrre, quali siano i frutti buoni della sua acquisita conoscenza del mondo e della natura, se gli sfugge di mano ciò che realizza, o perde la capacità di valutare anche il peso delle proprie idee, dato che anche il pensiero in sé è una forza capace di produrre il bene e il male.
E soprattutto cosa può accadere, come accade, se a tenere in mano le leve del potere che domina i mezzi spiritualmente e materialmente distruttivi, siano quelli che, nella visione di Pico, appartengono all’altra faccia dell’umanità, o quanto meno non abbiano nel loro orizzonte il bene comune. Sicché, alla fine, l’esito ultimo della libertà assoluta e della autodivinizzazione, per paradossale eterogenesi dei fini, è quello del trapasso nell’opposto del nuovo paradiso promesso, e l’onnipotenza diventa strumento di distruzione e autodistruzione.
Non per nulla, in seguito, il tema della trasfigurazione dell’uomo in demonio, preconizzata da Pico come “iconografia della trascendenza deviata”, diventerà un tema molto frequentato nella letteratura moderna, come osserva ancora De Lubac, soprattutto in quella russa dominata proprio dal rapporto con la trascendenza. Basti pensare al Dostoevskji dei “Demoni” o dei “Fratelli Karamazov”. Ma l’abisso della perdizione è presente ormai in tutti gli autori cattolici del diciannovesimo secolo, che in ogni caso presuppongono appunto la perdita dell’orizzonte normativo, non la sua inesistenza.
Oggi però nella concezione antireligiosa, ateista, libertaria, sostanzialmente nichilista e autoreferenziale, l’uomo, se non intende neppure assomigliare ad un dio in cui non crede, confida ugualmente nella propria onnipotenza, e si riconosce legislatore di se stesso.
Prende corpo tangibile l’abisso tra la concezione per cui il valore dell’uomo sta nella propria filiazione divina, e nella sottomissione ad una legge superiore, e quella più euforica che medita di un potere sciolto da limiti persino di ordine naturale.
Tuttavia si tratta di una concezione che non appartiene coscientemente ad una massa alle prese con la vita quotidiana, la quale semmai la assorbe per osmosi dallo spirito del tempo, ma ad una minoranza di individui, immersi nella deriva gnoseologica e nella degenerazione culturale propria della cosiddetta civiltà occidentale. Una minoranza di potere diventata capace per contingenze storiche di dominare le vite, ma anche di manipolare gli atteggiamenti mentali altrui.
Infatti alle due concezioni, quella che sente il divino come principio creatore e ordinatore, e quella dell’umanesimo ateo impegnato a far valere la forza creatrice della propria libertà, questa è diventata determinante e politicamente egemone, disponendo di tutti i mezzi pratici per realizzare i propri obiettivi.
Inutile dire, però, che la disumanizzazione copre dominanti e dominati, se, per dirla con le parole di De Lubac: “non c’è più uomo, perché non c’è più nulla che trascenda l’uomo”.
Ora, la volontà di potenza, che va di pari passo con i miraggi di libertà assoluta e autodeterminazione negatrici di ogni presupposto normativo, comporta anche la necessità di eliminare lo spettro delle conseguenze del proprio agire, impone di non volere vedere e sapere. E questo richiede a sua volta la cancellazione della memoria insieme alla percezione del pericolo incombente: ovvero la cancellazione di tutto ciò che, facendo prendere coscienza della realtà, aiuterebbe i più a ricostruire il proprio orizzonte umano e ad attivare le necessarie difese.
Per questo, tra falsa emancipazione e falso umanesimo, si è arrivati alla plausibilità dell’era atomica.
Infatti alle due visioni, quella dell’uomo che sente l’obbligo morale di modellare le proprie azioni sulla legge divina, e quella di chi si intende liberato da ogni imperativo trascendente, oggi si è aggiunta quella apocalittica della volontà di potenza distruttiva, che fa dell’uomo un creatore di segno opposto. Grazie alla potenza atomica, l’uomo contemporaneo compensa il vuoto che ha scavato intorno a sé con la propria capacità distruttiva come una creazione rovesciata: se egli non si è creato come specie privilegiata, ora sa di avere il potere di autodistruggersi. E non è poco nella visione allucinata del nuovo superuomo.
Quanto tempo rimane per arrivare alla autodistruzione umana? Si chiedeva già Norman Causins in un saggio del 1946, a ridosso delle bombe statunitensi sulle città giapponesi. Se la guerra è ineliminabile perché appartiene al destino umano, sarà ineliminabile l’impiego autodistruttivo dei mezzi ora a disposizione. E aggiungeva: “è un curioso fenomeno naturale che solo due specie pratichino l’arte della guerra: gli uomini e le formiche, ed entrambi viventi in complesse organizzazioni sociali”.
Solo che ora, la guerra, da mezzo per un qualunque fine pratico, compreso quello della affermazione di potere personale, dettato dallo spirito di conquista che fu di condottieri antichi e moderni, appare dare tragicamente forma estrema alla allucinazione del potere che riscatta la precarietà umana proprio attraverso la sua capacità di distruzione totale. E, al di là di ogni possibile calcolo utilitaristico, tutto ciò assume il significato metafisico, appunto, della capacità distruttiva quale rovescio della potenza creatrice divina. Cosa che si connette naturalmente anche alla dimenticanza alienata e quasi ostentata, o della ignoranza intenzionale, delle conseguenze.
Una ignoranza che sembra non risparmiare né gli impresari ufficiali della guerra, né in particolare le masse ad essi sottoposte.
Infatti sono queste che dovrebbe teoricamente poter cambiare la rotta della autodistruzione grazie al potere critico che induce a cambiare “perché connesso con l’istinto di sopravvivenza”. Un potere critico che, nell’era atomica, di fronte alla potenza distruttiva raggiunta dalla scienza, dovrebbe essere tanto potenziato da essere in grado di scongiurare proprio il pericolo dell’autodistruzione. Invece l’uomo moderno, osservava ancora Causins,“attraversa una crisi della decisione, perché il dilemma che lo riguarda più da vicino è quello tra la volontà di cambiare e la capacità di cambiare, e oggi la volontà di cambiare sembra essere venuta meno”.
Il fenomeno d’altra parte va letto alla luce del fatto che l’immane potere distruttivo è comunque in mano a pochi decisori, e proprio la volontà dei più è sovrastata e manipolata da quella dei detentori del potere che dimostrano in massimo grado spregiudicatezza e irresponsabilità, sicché la stessa percezione del pericolo è stata ottusa dal frastuono delle mille stimolazioni, che, distraendo le masse dalla realtà effettuale, le immerge nel fumo di quella virtuale.
Come nella confusione dei piani concettuali non viene più percepito il valore né la sostanza dei fenomeni, così qui viene meno la capacità di giudizio e di comprensione dei nessi causali.
Insomma, tra sottomissione forzata alle decisioni prese dall’alto, e incapacità critica indotta, anche lo istinto di sopravvivenza è messo fuori gioco nella sua funzione conservatrice da un meccanismo che sotto traccia ne inceppa la potenza determinante.
Questo quadro di inconsapevolezza autodistruttiva va a congiungersi con quello della guerra che da strumento di sopravvivenza diventa proiezione appariscente della volontà di potenza fine a se stessa, che da un capo si trasferisce ad un popolo o viceversa, o trova nel loro connubio una sintesi poderosa. Ma oggi sembra prevalere in ogni caso quella arroganza solitaria del potere che assume le vesti anonime di uno stolido competitore col divino sempre più stordito dalla ebbrezza di poter tenere in pugno il mondo intero.
Nessuna immagine può rappresentare in modo più icasticamente eloquente il senso tragico di questa follia senza speranza come quella ideata dal genio di Stanley Kubrick per il finale del suo Dottor Stranamore, col generale che vola a cavalcioni del suo “ordigno fine di mondo”, sventolando inebriato il cappello da cow boy.
Eppure la vertigine di questa apocalisse annunciata ci investe di fatto da vicino se, girando per questa Italia che ebbe il benigno destino di diventare culla insuperata e insuperabile di bellezza, pensiamo sgomenti alla sua precarietà.
Una bellezza donata ma poi ricreata, che ha allevato un popolo in sé mite e vitale, ma anche ottimista e contemplativo. Un popolo che di quella bellezza ricevuta e restituita, sempre rinnovata si è nutrito magari inconsapevolmente, di città in città, di borgo in borgo, mentre all’ombra di quelle pietre poteva arricchire la propria sensibilità anche con l’arguzia di infiniti linguaggi capaci di fissare esperienze e pensieri nuovi o tramandati come i corredi nelle casse spesso intonse di spose promesse e spose mancate.
Un patrimonio di bellezza pubblica e domestica che ha provato già l’acconto immane, feroce e belluino della distruzione totale, e continua ad essere esposto senza difese al suo compimento. Perché il potere distruttivo è governato anzitutto dallo stesso pensiero tragicamente alienato che guidava la guerra aerea angloamericana nel secondo conflitto mondiale. Quello inglese per cui le città d’arte andavano colpite per motivi tattici, e quello statunitense sempre in vigore per cui la distruzione serve alla ricostruzione.
In una nuova apocalisse distruttiva non si porrà il problema di sopravvivere perché non varrà la pena di sopravvivere. Di fronte alla scomparsa di Venezia per la bestialità dei distruggitori, sarebbe comunque intollerabile condividere ancora con essi la stessa terra. Perché non sarà valso a nulla coltivare la speranza di un lascito fecondo per quel tanto o poco di noi che potrebbe continuare a generare nell’anima di quelli venuti dopo.
In passato, anche quando la memoria dei padri si sbiadiva, rimanevano le pietre resistenti al tempo e agli uomini, la terra e le bellezze tramandate dalle mani e dallo spirito nelle prospettive di colline e montagne, acque e cieli benigni.
Ora lo stupore e l’incanto rapito, la commozione per la bellezza trovata o cercata, ora li dobbiamo vivere in controluce, ovvero nella luce sinistra del timore, nella angoscia premonitrice di avere di fronte solo immagini fuggevoli perché condannate a sparire.
Ora la nuova visione apocalittica non contempla la mano invisibile di un dio che colpisce i peccatori come nella iconografia medievale di Giotto o in quella della Sistina, ma l’inferno che viene dal cielo una volta creato come inviolabile.
Ma una domanda sorge spontanea: c’è una vera coscienza di tutto questo? Oppure anche l’idea di questo immane pericolo alimentato dalla irresponsabilità politica viene elusa dai più?
Di certo abbiamo a che fare almeno con due fattori decisivi: una consapevolezza della realtà indebolita e la rimozione difensiva.
Non bisogna dimenticare come la normalizzazione della follia metafisica della guerra moderna quale premonizione apocalittica sia venuta a maturazione puntualmente proprio con la seconda guerra mondiale. Perché la cancellazione di tanta parte di storia ha sortito l’effetto di cambiare anche un atteggiamento interiore.
L’averla subita dalle generazioni che l’hanno vissuta, il suo dejà vu, rimosso però secondo un meccanismo psicologico ben conosciuto, ha fatto rientrare l’indicibile nella plausibilità destinale. In una sorta di interpretazione popolare diffusa e fatalista della fenomenologia hegeliana.
L’assuefazione che rende normale l’anormalità e la volontà inconscia di rimuovere la memoria dell’insopportabile, hanno per un certo tempo allontanato il ricordo di quella tragedia vissuta in prima persona. Esso è stato dissotterrato soltanto quando risultava ormai disinnescato perché, estraneo alle nuove generazioni e sterilizzato dalle vecchie in un armadietto ben custodito, aveva perduto la sua capacità di sorreggere l’intelligenza delle cose.
Ora che una grande catastrofe di proporzioni inedite si è già verificata, ma è diventata solo un racconto storico, che coinvolge al più la filologia politica, il distacco con cui viene guardata dai più è lo stesso col quale viene vissuta a teatro la più tragica delle vicende. E questo la rende ripetibile, ma proprio nella realtà sempre attuale che non viene colta.
Anche in questo caso sembra di toccare con mano un ottundimento della sensibilità collettiva riscontrabile, del resto, in ogni campo della vita pratica. Per diminuita consapevolezza critica, per offuscamento della coscienza, per rimozione, per volontà di non affrontare la realtà, per incapacità di rappresentazione, perché si vive in un mondo alternativo in cui l’effimero è reale e il tragico solo surreale. È questa la chiave di una inconsapevolezza diffusa. È come se nelle voragini aperte dalle bombe di allora sia stata seppellito anche l’istinto di sopravvivenza e il dovere morale della difesa, la capacità di discernere e di valutare con disincanto quanto si muove sopra le nostre teste, e viene sottratto alle nostre anime.
Ora, se è vero che solo un Dio ci può salvare, si tratta di recuperare quella ragione donata agli uomini perché capace di assicurare loro una vera dignità. Che non si identifica con la ragione calcolante pseudo scientifica a cui ci siamo asserviti, e tanto meno col compiaciuto adattamento ai falsi miti, ai falsi valori, alle false promesse che tengono banco nell’avanspettacolo di una politica truffaldina e irresponsabile.