Nella lussuosa camera da letto della magione milanese di corso Venezia, immoto nel vasto letto matrimoniale, il grande uomo languiva.
Da quando le sue condizioni si erano aggravate, la giovane moglie si era fatta approntare un letto in una stanzetta contigua, da dove la notte riusciva a percepire i palpiti e perfino i sospiri di suo marito. Quando la stanchezza indotta dalle lunghe veglie aveva la meglio, allora pregava l’infermiera, assunta per l’occasione, di prendere il suo posto. Ma invero ciò accadeva di rado, perché Rosemary sapeva di dovere molto a quel grande uomo, e conosceva altresì cosa fosse la riconoscenza.
Aiace Montingelli sfiorava ormai i novant’anni. Quando la malattia, circa un anno prima, si era manifestata con un dolorosa sensazione al petto, come di una mano guantata di ferro che gli raspasse dentro, aveva subito capito che quella partita, l’ultima delle molte che aveva combattuto, egli non l’avrebbe vinta.
Ma del resto aveva avuto una vita paragonabile a poche altre, quanto a soddisfazioni. Era stato nella sua verde gioventù protagonista della guerra di Liberazione. Poi, onusto di onori e riconoscimenti, aveva utilizzato al meglio le sue doti espressive ed era diventato romanziere, mescolando nei suoi racconti epiche azioni di guerra e fuggevoli amori consumati di sfroso fra malghe e querceti. All’inizio la critica era stata titubante, avvertendo nel suo stile qualcosa di compiaciuto e lezioso. Ma poi una famosa casa editrice, assai vicina a un importante partito politico di opposizione, aveva deciso di pubblicare il celeberrimo e per alcuni insuperato “La moglie del federale” e da allora la sua fortuna critica e i riconoscimenti tangibili non erano mai venuti meno, anzi ad ogni stagione letteraria egli confermava il proprio successo, mentre altri narratori perdevano terreno o addirittura sprofondavano nell’oblio. Numerosi film erano stati tratti dalle sue opere, accrescendogli fama e ricchezza. Nelle more di tutto questo si era sposato tre volte con donne bellissime e per motivi diversi famose. Inoltre aveva ripagato il partito che dietro le quinte lo aveva sostenuto fiancheggiandolo in tutte le sue battaglie con frequenti prese di posizione pubbliche e coronando infine l’avventura politica con una trionfale elezione in Parlamento, anche se il suo apporto all’azione legislativa era poi stato – ma erano parole degli invidiosi – pressoché inesistente. Insomma Aiace Montingelli aveva avuto nella vita tutto quello che un uomo poteva desiderare, e ora poteva lasciare questo mondo senza rimpianti.
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Esmeralda, Anaïs e Rosemary si ritrovarono infine nello studio del famoso notaio Giuseppe Codicillo, noto a Milano come “il notaio dei vip”.
Delle tre, Esmeralda era di gran lunga la più attempata, anche se il volto scavato e severo recava tracce dell’antica bellezza. Nell’aprile del ‘44 aveva salvato Aiace dai rastrellamenti dei repubblichini nascondendolo in una baita arrampicata sulle pendici del monte Cistella e portandogli ogni notte un paniere pieno di cibo incurante delle pattuglie fasciste, del freddo, del buio, delle bestie acquattate nel bosco. Aveva, dopo la Liberazione, condiviso con lui gli anni pieni di entusiasmo delle prime affermazioni in campo letterario, rincuorandolo quando la critica lo stroncava, felice quando d’un tratto aveva principiato a esaltarlo. E quando egli l’aveva lasciata, aveva trovato la forza di non fare tragedie, anche perché i frequenti tradimenti dell’uomo l’avevano abituata all’idea che prima o poi la loro storia avrebbe avuto fine. Conservava ora, seduta sul divanetto di pelle accanto a Rosemary, un’attitudine composta, come di chi attende senza fretta gli eventi, non indifferente ma in fondo senza troppa curiosità.
Anaïs era stata la causa del primo divorzio di Aiace. Un po’ ninfa Egeria un po’ Pasionaria, era stata anche la persona che più di tutte lo aveva indirizzato sulla strada dell’impegno politico, affiancandolo nelle lotte per una società più equa e più giusta. Tutte le battaglie civili che avevano scandito il progresso sociale del Paese essi le avevano combattute fianco a fianco. Abbandonata infine per la giovane e bellissima Rosemary, la sua reazione era stata veemente e plateale, offrendo cospicua materia ai rotocalchi come ai quotidiani. Celebre era rimasta una sua intervista televisiva nella quale – dismesso l’usato stile misto di distacco e sofisticata raffinatezza e mostrandosi quale una vera Erinni – aveva accusato Aiace della più perfida ingratitudine, e profetizzato per lui, privo della sua guida dotta e illuminata, una lunga serie di sventure in tutti i campi dell’umana esperienza. Aiace, che aveva ormai ottant’anni e non era mai stato un litigioso, non aveva replicato. Ora Anaïs sedeva solitaria su una poltroncina, senza rivolgere alle altre due donne né uno sguardo né una parola.
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Il notaio Codicillo, che aveva ricevuto le convenute nella sua stanza personale, sedeva dietro l’immensa scrivania dall’apparenza di una plancia di aeroplano tenendo fra le mani una grande busta gialla. La mostrò alle clienti facendola scorrere davanti a sé da sinistra a destra e poi in senso contrario, in modo che verificassero che essa era intatta, con timbri e firme debitamente apposti dove i lembi erano incollati sul verso. Prese da un portapenne di cuoio un sottile tagliacarte e ne infilò la punta della lama vicino al lato superiore, procedendo con movimenti regolari e delicati a tagliarla lungo tutta la lunghezza. Poi ne estrasse alcuni fogli, riponendoli sulla scrivania di fronte a sé. Infine ne estrasse altri rigati, sui quali si distingueva facilmente la grafia grande ed estrosa di Aiace Montingelli.
“Questo non è il testamento” esordì il notaio. “Si tratta di una lettera che il Sig. Montingelli indirizza a tutte e tre voi, scritta circa un anno prima della morte, quindi quattro mesi prima del testamento. Il de cuius desiderava che vi fosse letta prima di quest’ultimo, del quale costituisce una sorta di premessa. Naturalmente il desiderio del defunto non è per voi vincolante: se non intendete ascoltare, passo direttamente alla lettura delle volontà. Ciò vale per ciascuna di voi, che può individualmente decidere di allontanarsi durante la lettura di questo messaggio”.
Eleonora e Rosemary si guardarono in viso, con un’espressione disarmata che significava: perché no? Anaïs ebbe uno scatto e aprì la bocca per dire qualcosa, ma subito ci ripensò e tacque. Il notaio attese un po’, osservandole attentamente una per una. Poi si schiarì la voce.
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“Cara Eleonora, mi rivolgo a te per prima con immutato affetto. So quanto mi hai voluto bene e quanto ti ho fatto soffrire quando ti ho lasciata. Pur tuttavia sento il bisogno di rivelare a te, così come pure alle altre mie care mogli Anaïs e Rosemary (poiché a tutte e tre ho voluto bene) chi io fossi veramente. Starà poi a voi decidere se rivelare al pubblico queste verità, o mantenerle segrete come sono sempre state. Credo che vi accorderete per tenerle per voi, ma mi affido al vostro giudizio: in fondo dove andrò fra poco non me ne potrà importare niente.
Io, cara Eleonora, sono sempre stato convintamente, sinceramente, profondamente fascista.
Ho creduto in tutto ciò che Mussolini raccomandava a noi giovani: amor di patria, virilità, ardimento, sacrificio, frugalità, e soprattutto ho creduto in lui. Sono stato figlio della lupa, poi balilla, poi avanguardista. Nel ‘44 avevo sedici anni, e mi arruolai volontario nelle Brigate Nere per riscattare la Patria dal disonore dell’8 settembre: la migliore gioventù italiana era con me. Dunque la mia partecipazione alla formazione partigiana di cui tu facevi parte non era altro che un’azione di spionaggio di cui ero incaricato dai miei superiori, e l’ordine di arresto allora spiccato nei miei confronti e diffuso mediante manifesti presso la popolazione era solo un espediente per avvalorare quella messa in scena. Capirai ora che in quella baita di cui ho parlato nel mio primo romanzo e che entrò a far parte della mitologia della Resistenza io, in verità, non corsi mai alcun pericolo”.
“L’unica ansia che provavo, in quel tugurio, era quella in attesa delle tue invero graditissime visite. Ricordi “l’attesa di Elena” nel “Piacere” di D’Annunzio? Quando Andrea Sperelli aspetta la sua amante nella garçonniere? Ecco, la mitica baita nel bosco altro non fu che una rustica garçonniere. A proposito, quello sì che era un grande scrittore. Io, diciamolo pure, non lo sono mai stato. Avevo la critica dalla mia parte, e di conseguenza le case editrici, gli organizzatori dei premi letterari, e giù giù fino ai manuali scolastici e ai professori di scuola, l’ultima obbediente ruota del carro. Tutti costoro mi hanno spacciato per un grande scrittore. Ma tu ed io sappiamo il perché di questo successo, vero?”
Eleonora era rimasta impietrita, tanto che un osservatore estraneo a quanto stava avvenendo avrebbe potuto pensare che non avesse udito, o non avesse capito quello era stato letto. Poi il suo viso finora impassibile cominciò ad alterarsi e gli occhi ad arrossarsi; e infine le lacrime ne fluirono, e fievoli, appena percepibili singhiozzi uscirono dalle labbra semichiuse, finché ella si coprì il viso con entrambe le mani rimanendo immobile in quella posa drammatica quanto sincera.
Il notaio si interruppe e, senza scomporsi, premette un pulsante sulla scrivania. Dopo poco la porta dell’ufficio si aprì, ed entrò col passo svelto e il fare disinvolto di chi è abituato ad affrontare simili circostanze la segretaria di rango più elevato, quella che gestiva il sancta sanctorum dell’ufficio. Teneva in una mano un fazzolettino bagnato nell’acqua fredda e, chinatasi di fronte ad Eleonora, dolcemente le scostò le mani dal viso e cominciò ad umettarglielo col fazzolettino. Il notaio attese che l’operazione si concludesse, sempre tenendo il foglio fra le mani. Poi riprese la lettura.
“Mia cara Anaïs, come era facile, per me e per te, lottare contro quello che chiamavamo il regime democristiano. Erano gli anni sessanta e settanta, ricordi? Come era facile, dicevo, quando avevamo dalla nostra parte i quotidiani, le riviste, le case editrici, il cinema, gli artisti. Quando i premi letterari erano una storia interna della nostra parte, ma ora posso tranquillamente dire: della tua. Quando, se uno di noi finiva in galera per aver messo le mani addosso a un questurino – di solito un povero giovane che rischiava la pelle per uno stipendio da fame – bastava una ben orchestrata campagna di stampa per farlo mettere fuori con tante scuse, e regalargli la corona di martire! E quanti di noi erano a libro paga del grande fratello dietro la cortina di ferro? Io no: almeno di questo obbrobrio sono rimasto innocente.
E ora, cara Anaïs, due parole sulle nostre – ma anche qui posso dire le tue – battaglie sociali. Ricordi i tempi della legge Merlin, quando marciavamo insieme contro lo sfruttamento delle donne da parte dello stato lenone? Fu forse la prima di tante cause meritorie che ci videro in piazza. Ebbene sappi che, in cuor mio, ho sempre considerato il casino come un’istituzione benemerita, sostegno della famiglia e della società”.
A questo punto Anaïs, che da qualche minuto si era fatta rossa rossa in viso e stringeva le labbra come a voler trattenere parole audaci, emise una specie di rantolo e svenne.
Non crollò dalla sua poltroncina, ma si accasciò sul bracciolo destro con la testa e le braccia spenzoloni, e in quella posizione rimase.
Il notaio Codicillo, senza scomporsi, premette un pulsante sulla scrivania e di lì a pochi secondi la porta si aperse, lasciando entrare la segretaria di prima.
Questa trasse dal taschino il flaconcino dei sali e lo collocò sotto il naso di Anaïs; poi, quando le smorfie sul viso di questa fecero intendere che si stava riprendendo, cominciò a darle delicati schiaffetti su entrambe le guance.
“Mena! Mena quella stronza!” urlò allora la donna che Anaïs aveva definito “una montanara zotica che la sorte aveva messo fra i piedi di Aiace”. “Più forte! più forte!” squittì all’unisono quella che era stata da lei definita “sgualdrinella con l’illusione di saper scrivere”. Nel frattempo il notaio Codicillo attendeva silenzioso. I suoi occhi scorrevano sulla lettera di Aiace, anticipandone mentalmente la lettura. Un lieve sorriso era comparso all’angolo della sua bocca.
“Sì, il casino – proseguì il notaio quando la donna intellettuale fu completamente tornata in sé e le altre due si furono acquietate – quel luogo accogliente in cui generazioni di giovani hanno vissuto il loro apprendistato grazie a signorine premurose e pazienti, senza le quali nel talamo nuziale non avrebbero saputo nemmeno da che parte voltarsi! Quel luogo in cui innumeri padri di famiglia hanno trovato piacevole quanto innocuo sfogo agli istinti, e così facendo hanno evitato più impegnative avventure, e di conseguenza la fine dell’armonia familiare, della famiglia stessa! Ricordati in proposito, cara Anaïs, l’aureo detto di Sant’Agostino: “Togli le meretrici dalle cose umane e tutto getterai nel caos delle libidini”. Per conto mio, lo si potrebbe incidere sul portone d’ingresso dei tribunali”.
“Bastardo” borbottò fra i denti la donna interpellata dall’aldilà.
“Ed ora a noi, mia cara, bellissima, giovanissima Rose. Tu hai amato in me lo scrittore – l’uomo non lo potevi certo amare – e hai creduto davvero che io apprezzassi in te la talentuosa benché ancora acerba scrittrice. Ti sbagliavi: io amavo il tuo splendido *** (qui il notaio Codicillo, tacendo, sollevò il dito indice e disegnò davanti a sé una sagoma circolare). Tondo, elastico, aereo, svettante, come sospeso nell’aria, terminante quasi a punta: quel *** (il notaio replicò il gesto) che riusciva perfino a smuovere i precordi di un vecchio, e sovente te ne ho dato prova. Quanto al romanzo che hai pubblicato, e alle critiche che parlavano di te come di una scrittrice promettente, credi che furono assai generose, e in qualche modo da me suggerite. Vedi, una buona recensione, in Italia, non si nega quasi a nessuno, specie se si ha un santo in paradiso: naturalmente, un santo democratico”.
Rosemary fin dalle prime parole a lei indirizzate era caduta preda di una crisi respiratoria di chiara natura nervosa, rapidamente aggravantesi. Si faceva vento con la mano vicino alla bocca, e gli occhi bellissimi erano spalancati e pareva stessero per uscire fuor dalle orbite come quelli di una ranocchia. Eleonora cercava di rincuorarla con discreti colpetti vibrati sulla schiena scossa dai violenti tentativi di riempire d’aria i polmoni.
Il notaio Codicillo, senza scomporsi, allungò la mano verso il campanello, e nuovamente la porta si aprì lasciando entrare la segretaria. Questa si posizionò di fronte a Rosemary e subito estrasse dalla tasca della giacca blu un flaconcino spray. Lo spruzzo del medicinale investì il viso della giovane fra naso e bocca, e dopo un paio di minuti la bella Rosemary aveva riacquistato una respirazione normale, pur mantenendo un’espressione affranta.
***
“E ora, mie care, mi rivolgo a voi tutte insieme per palesarvi un ultimo segreto. A quest’ora avrete certamente già celebrato il mio funerale laico, vero? Intendo, una di quelle turpi pagliacciate a base di discorsi politici, brindisi, pugni chiusi levati al cielo e quell’orrenda canzonaccia – che tanto aborro da non volerla neppure nominare – che avrete certamente cantato in coro. Si è trattato, diciamolo pure, di una vergognosa parodia dell’unico vero funerale: quello che si celebra in chiesa. E alla Chiesa della mia infanzia, alla fede di quando ero bimbo, sappiate che ritorno ora che sono al termine della giornata terrena. Ho detto ritorno, ma in realtà non me ne ero mai distaccato del tutto. Solo ne ero distratto, a cagione della vita vissuta accanto a voi sotto le luci della notorietà abbaglianti ed effimere. In un angolo del cuore conservavo però la fede semplice della contadina – perché di contadini io sono figlio, non di maggiorenti di paese, magnati dell’industria o celebri attori – quella fede che si nutre dell’immagine miracolosa, del santino, dell’ex voto, della giaculatoria, della benedizione impetrata e ricevuta in ginocchio dal prete. Insomma, di tutto ciò che per voi è credulità e superstizione. Ed ecco perché qualche giorno fa con questo mio passo ormai incerto, ho varcato l’ingresso di una chiesa e mi sono confessato (oh, quanto a lungo!) ho ricevuto l’assoluzione, e ora posso sperare che Dio voglia accogliermi, come quel padre amorevole che nella parabola accoglie il figliol prodigo, e posso affrontare questo grave passo con qualche serenità”.
Il notaio sospese per un momento la lettura, lanciando un rapido sguardo indagatore sulle tre donne.
Le quali ora gli apparivano in un’attitudine diversa da quella precedente; scemata un poco la passione rabbiosa, si faceva largo nell’animo loro un desolato stupore: avevano vissuto accanto a quell’uomo per tanti anni, e mai lo avevano conosciuto!
“Ora, che dirvi? Posso immaginare i vostri sentimenti. Ho recitato una lunga commedia è vero, ma non ho mentito a me stesso. Ero consapevole dell’inganno, e dentro di me sorridevo, pensando al mio vero io, tanto diverso da quello che tutti credevano, che il mondo credeva. E siccome voi facevate parte di quel mondo, non potevo trattarvi diversamente da esso. Se aveste saputo, prima o poi mi avreste tradito, per dispetto per rabbia o solo per distrazione. Sono certo che, passati i primi momenti di sconcerto, capirete, e penso anche, come vi ho già detto, che per voi non sia di alcuna utilità che altri – a parte il notaio che è tenuto al segreto – conoscano il contenuto di questa lettera.
E ora, mie care, vi lascio per sempre. Nel testamento che tra poco vi sarà letto ho cercato di trattarvi equamente, e se non ci sono riuscito del tutto perdonatemi, pensando che non l’ho fatto apposta. Che Dio abbia pietà di me. Ed anche di voi”.
Il notaio Codicillo appoggiò il foglio che teneva in mano sugli altri già deposti sulla scrivania; poi vi posò sopra i palmi delle mani, come a volerli proteggere, e soprattutto a volerne proteggere il contenuto. Quindi sollevò il viso paffuto e osservò le sue clienti con una certa solennità.
“Sic transit gloria mundi, gentili signore. Se queste cose si sapessero fuori dal mio ufficio, voi capite facilmente cosa succederebbe, data la notorietà del personaggio. Recriminazioni, insinuazioni, sospetti, polemiche di vario genere … Naturalmente, come adombrava il vostro stesso defunto marito, potete decidere di non farne parola a nessuno. Per me, vedete, è la stessa cosa: anche se il mio studio dovesse essere coinvolto in qualche diatriba, esso è abbastanza solido da poter sopravvivere senza problemi. E inoltre, il Montingelli ed io eravamo diventati amici, negli anni. Ci tenevo anche sotto un profilo puramente umano a rispettare a puntino le sue volontà”.
“Quindi, signor notaio, lei sapeva già tutto” osservò Rosemary.
“Siamo in pochissimi a sapere. Tre o quattro in tutto. Ma nessuno di noi dirà nulla”.
Le tre donne si osservarono a lungo, caute, in silenzio. Come per attingere l’una delle altre le riposte intenzioni. Infine Eleonora, la quale credette – e aveva ragione – di aver bene interpretato gli sguardi e le mobili contrazioni dei volti delle altre due, e infine come la più anziana si sentiva in diritto di prendere l’iniziativa, si rivolse al notaio Codicillo e dichiarò con il chiaro consenso delle altre:
“Sia rispettata la volontà del defunto”.
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Alfonso Indelicato
2 commenti su “Il testamento – un racconto di Alfonso Indelicato”
Bellissimo!
… ” … ho sempre considerato il casino come un’istituzione benemerita, sostegno della famiglia e della società …”
mah …
non ne sono convinto