di Giacomo Rocchi
fonte: Notizie PRO-LIFE
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Proseguiamo la riflessione sull’intervista di Beppino Englaro a “Il Venerdì di Repubblica” del 27/7/2012. Abbiamo visto che l’indicazione del “diritto a rifiutare le cure mediche” come elemento distintivo per qualificare la morte procurata come eutanasia (illecita) o non eutanasia (esercizio di diritto) provenga da chi: nega l’evidenza, cioè di essere stato autorizzato ad uccidere la figlia e di averlo fatto; ha impedito la somministrazione non di cure mediche, ma di sostegno vitale alla figlia; ha provocato la morte della figlia non in base ad una volontà espressa in maniera valida dalla figlia, ma in base ad una sua decisione; ha basato la sua decisione sulla convinzione che la figlia fosse “sostanzialmente morta”.
Abbiamo anche visto che il presupposto della volontà del paziente di rifiutare le terapie, così come è avvenuto nel caso Englaro, è messo da parte senza troppi problemi in altre situazioni, prima fra tutte l’eutanasia dei neonati, nella quale i genitori vengono brutalmente invitati a scegliere (così come la madre nel corso della gravidanza nell’aborto eugenetico), sulla base di loro criteri sulla “dignità della vita”, se “vale la pena” che il bambino continui a vivere o se “è meglio” che muoia.
Ma se questa è la chiara tendenza, come possiamo essere tranquilli che davvero le nostre opzioni saranno rispettate? Come possiamo non dubitare che quei nostri concittadini che si sgolano a ripetere: “la vita è nostra! Vogliamo decidere noi!” e che, magari, si precipitano a firmare i “testamenti biologici” (del tutto invalidi giuridicamente) istituiti da alcuni Comuni, altro non siano che degli “utili idioti”? “Utili” a coloro che vogliono avere le “mani libere e pulite” quando decideranno (loro, non chi ha lasciato il testamento biologico …) che è il momento di farla finita?
Due esempi dall’estero per rendere più bruciante questo dubbio? Due studi pubblicati dal Canadian Medical Association Journal (CMAJ) hanno rivelato che in Belgio la metà circa dei procedimenti di eutanasia praticati nei confronti di malati terminali avverrebbe senza il consenso dei pazienti, e che in molti casi sono le stesse infermiere, al posto dei medici, a dare la morte, anche quando non è richiesta; un primo studio statistico indica che su 208 decessi per eutanasia, 142 sono risultati consenzienti, e 66 privi di una preventiva autorizzazione da parte del paziente. Una preventiva discussione con il paziente (che non aveva però dato il consenso) era stata avviata dai medici solo nel 22% dei casi; negli altri casi le giustificazioni erano le più varie: i pazienti erano in stato comatoso o in stato di demenza; ma altre ragioni sulla mancata discussione preventiva sono state individuate dagli stessi medici nel fatto che la decisione di effettuare l’eutanasia corrispondesse comunque, secondo il loro giudizio professionale, al “best interest” del paziente (17,0%), e perché lo stesso fatto di affrontare l’argomento sarebbe stato dannoso per lo stato psicofisico del malato (8,2%) (!). Un secondo studio statistico dimostrava che un quinto delle infermiere in Belgio aveva praticato l’eutanasia sui pazienti, e metà di loro lo aveva fatto senza il consenso della vittima.
Negli Stati Uniti, invece, i “do not risuscitate” (coloro che hanno scritto un testamento biologico) sono stati individuati come “categoria” (a prescindere da quello che avevano scritto …) insieme a quelle degli anziani, dei pazienti in dialisi e dei pazienti con severe patologie neurologiche, cui negare il ricovero nelle strutture ospedaliere, o negare l’uso dei respiratori artificiali in caso di epidemia incontrollabile, con necessità di razionamento forzoso delle cure (“La Repubblica”, 26/10/2009 con riferimento ai piani sanitari predisposti quando la crisi dell’influenza A sembrava fuori controllo).
Davvero il “diritto a rifiutare le cure mediche” (e, quindi, quello a non rifiutarle!) è la “formula magica”, quella che permetterà a ciascuno di essere curato al meglio, secondo i suoi desideri, quella che sarà in ogni caso rispettata?
Temiamo proprio di no: perché la spinta all’eliminazione delle persone “inutili”, costose per la collettività, che sono un “peso” (economico e psicologico) per la famiglia e per la società è sempre più forte.
Il fatto è che l’esistenza di un “consenso” o di un “rifiuto” attribuibile al paziente resta necessario: pensate che qualche legislatore – o qualche amministratore di ospedale – abbia il coraggio di mettere – nero su bianco – che “i disabili psichici gravi (o i soggetti particolarmente anziani, o in stato di demenza senile, o i neonati disabili, o ancora qualche altra categoria) non devono essere curati e devono essere lasciati morire”? Non siamo mica all’eugenetica nazista!
Occorre, quindi, il paravento di un consenso. Ma allora, il “rifiuto delle cure” invocato da Beppino Englaro è un diritto o, piuttosto, un dovere?