La musica psichedelica e la West Coast Quando si parla di musica psichedelica si intende una liberazione della psiche, della mente, una ricerca artistica secondo lo slogan rivoluzionario (già ricordato) di “espansione dell’area della propria coscienza”. In questo senso i Pink Floyd, di cui abbiamo in precedenza parlato attraverso il fondatore Syd Barrett, ci indicano sin dalla scelta del nome del gruppo, un orientamento non solo musicale ma anche di way of life, di visione del mondo in un contesto rivoluzionario. “Pink Floyd” infatti era in quegli anni il nome di una delle più celebri “qualità” di LSD, a testimoniare quanto la droga fosse considerata un mezzo per liberare la fantasia e sprigionare la potenza creativa. A suggellare l’importanza della radice della contestazione stava, come abbiamo precedentemente descritto, il blues quale fondamento di protesta contro l’oppressione, subita non solo da parte della popolazione afro-americana: infatti il nome del gruppo dei Pink Floyd era pure riferito a due famosi bluesmen della Georgia, Pink Anderson e Floyd Council. Se il rock, nella versione beat dei Beatles o in quella rock’n’roll dei Rolling Stones era apparso come varietà di uno stesso ceppo di contestazione, con i Pink Floyd le atmosfere musicali evocate suscitavano nuove sensazioni (le cosiddette “good vibrations”) dentro scenari fluidi di immaginazione alla ricerca di onde cosmiche. Sotto l’influsso dei Pink Floyd alcuni gruppi, dalla metà degli anni ’70, svilupperanno un genere chiamato appunto “musica cosmica” o anche “musica elettronica” (in Germania si svilupperà un filone “elettronico” con i Tangerine Dream, i Kraftwek). Attraverso i Pink Floyd si elaboreranno ritmi più soft per fantasticare nuovi mondi, nuovi spazi, anche attraverso l’uso scenico di luci stroboscopiche, colori folgoranti, raggi laser. L’auspicata liberazione della mente da stereotipi sociali e musicali troverà quindi nei Pink Floyd la colonna sonora di un’utopia e di un sogno da realizzare per il cambiamento, che si scontrerà con la realtà disprezzata della civiltà industriale occidentale. Se nei Rolling Stones o negli Who o nei Doors o nei Led Zeppelin ed ancor più in gruppi hard rock come i Deep Purple il messaggio rivoluzionario era violento ed esplicito, nei Pink Floyd la contestazione era invece preparata da un tappeto musicale rarefatto sul quale si poteva udire il passo felpato che precedeva l’urlo di liberazione sconvolgente, come si può ascoltare in un passo assai famoso in uno dei loro album più significativi: “Ummagumma”. Anche negli Stati Uniti, soprattutto nella mitizzata West Coast, il cosiddetto “acido” suggeriva solchi musicali che, nella fusione di blues e rock, potesse liberare la mente nella ricerca utopica di quel “peace&love” seppur apparentemente contraddetto dallo stesso nome di uno dei gruppi più rappresentativi, i Grateful Dead (“Morte Gratificante”). Ancora negli USA i Jefferson Airplane cantavano l’inno di liberazione contro l’America dei padroni e della guerra facendo proprio il grido di scrittori rivoluzionari della Beat Generation come Allen Ginsberg, Jack Kerouac (a cui si deve l’espressione “on the road” che tanto influenzò i costumi e le espressioni artistiche del ’68), Neal Cassady e molti altri. Attraverso i testi di questi autori “maledetti”, il riferimento alle droghe, all’alcol, ai viaggi mentali ma anche a quelli a folle velocità con auto o moto, insieme alla descrizione di un vissuto alienato e disperato, gruppi musicali come l’Aeroplano Jefferson e molti altri trarranno forte ispirazione. Nelle manifestazioni anti-militariste, nelle scuole alternative, nei festival rock, emergerà quella contro-cultura hippy, quella “rivoluzione dei costumi” che segnerà il mondo giovanile della contestazione del ’68. La “Scuola di Canterbury” Quella che è stata chiamata “Scuola di Canterbury” ha riunito in Inghilterra a metà anni ’60 un drappello di musicisti folli che ha cercato, nell’ottica del libertarismo radicale, di abbattere tutti i cancelli del conformismo “piccolo-borghese”, come veniva definito a quei tempi, per creare un suono alternativo, una voce libera, con testi provocatori e allusivi a quelle sfere (sesso, droga) ritenute rigidamente bloccate dal sistema. Uno dei gruppi più famosi usciti dal mondo utopico di Canterbury sono stati i Soft Machine (nome tratto dalla “morbida macchina” nel romanzo omonimo di William Burroughs, uno scrittore vicino al movimento della Beat Generation). Tossicodipendente e omosessuale, Borroughs (1914-1997) fu figura di riferimento nel mondo trasgressivo, diventando icona libertaria e rivoluzionaria, anche per il contatto che ebbe a New York con i poeti americani della Beat Generation come Ginsberg, Cassady, Kerouac, che lo elessero come loro “padre spirituale”. Anche dopo il ’68, a testimoniare il grande influsso che ebbe nell’arte pop, altri gruppi musicali fecero riferimento a Burroughs, come ad esempio i famosi Duran Duran o gli statunitensi Thin White Rope, che, nella scelta del nome della band di rock psichedelico americano con influenze country-blues si ispirarono al liquido seminale maschile (denominato “Thin White Rope”), citato espressamente in un romanzo di Borroughs. Ritornando a Canterbury, all’inizio degli anni ’60 studenti d’arte, musicisti, appassionati di teatro, di jazz, di musica contemporanea e d’avanguardia si ritrovarono nella casa del leader dei Soft Machine, dove, come ha testimoniato il dissacrante musicista dandy Kevin Ayers: “A casa di Wyatt si poteva trovare di tutto, soprattutto sesso, musica e droga”. Se Wyatt è stato il punto di riferimento della “Scuola di Canterbury”, nonché vocalist e batterista dei Soft Machine (gruppo che, soprattutto nei primi album, aveva una chiara influenza jazz), dall’atmosfera artistica rivoluzionaria della cittadina inglese si ispirarono altre formazioni che segneranno il mondo musicale del ’68: i Wilde Flowers (in memoria dello scrittore Oscar Wilde, icona dandy), i Caravan (con impasti vocali e suoni rarefatti più vicini alla musica psichedelica) e, soprattutto, i Gong di quel Daevid Allen, che dall’Australia era arrivato sino nella Parigi della contestazione del maggio sessantottesco, a dimostrazione del carattere pervasivo dominante di quella rivoluzione. Un anno prima, nel 1967, Allen (1938-2015) era stato protagonista in Francia di uno spettacolo trasgressivo violentemente interrotto dalla polizia, costruito sul “Désir attrapé par la queue”, una pièce di teatro surrealista che Picasso aveva scritto durante la seconda guerra mondiale come atto di resistenza alla guerra e all’oppressione. Ciò testimonia ancor più quanto l’essenza della contestazione sessantottina trovi agganci, anche al di fuori della musica stessa (basti pensare all’influenza dei poeti della Beat Generation), con tutte quelle tematiche che potevano ricondurre al pacifismo e al libertarismo. In questa sorta di anarchismo vagheggiato, sintetizzato nel famoso slogan: “La fantasia al potere”, nascevano i Gong e il loro allusivo pianeta (Planet Gong) su cui vivere alternativamente: un manifesto di disobbedienza musicale (ma evidentemente non solo musicale) portato all’eccesso con chitarre stralunate, saxs sarcastici, vocine orgasmiche, il tutto sintetizzato dalla banana come simbolo cosmico-fallico e dal concetto di Gong Global Family, espressione anticonformista da esportare (interessante il riferimento alla globalizzazione), come l’agognato libertarismo proposto a modello anti-regime. I Gong furono creatori pure di una saga mitologica con personaggi e leggende inventate, spesso sotto l’effetto di droghe e allucinogeni, come ebbe a dire lo stesso Allen: “Ho avuto una visione durante il plenilunio della Pasqua del 1966 in cui io non ero che un esperimento sotto la supervisione di forze soprannaturali, i Dottori dell’Ottava, i quali alimentavano e trasformavano ogni forma di vita attraverso la musica”. In questo quadro mitologico-allegorico dove la fantasia poteva spaziare (non a caso l’esperimento è chiamato pure Space Gong) si ritrovavano ancora un volta tutti quegli elementi distintivi del ’68: la ribellione contro ogni autorità, divina e naturale, il pacifismo intrecciato con la liberazione sessuale, la ricerca di una politica, di un’arte, di un anticonformismo slegato da ogni tipo di ordine, soprattutto se allusivo ai valori umani e cristiani. Il ’68 fu quindi una Contestazione che partiva dall’esclusione di Dio dalla vita umana e dall’organizzazione politico-sociale.]]>
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4 commenti su “Il Sessantotto e la musica (terza parte) – di Fabio Trevisan”
’68…volevamo cambiare mondo…ci siamo riusciti…in peggio.
Caro Viglietti, non poteva che essere così. L’espressione Era dell’Acquario è utilizzata per indicare movimenti (come gli hippy), che dagli anni ‘60-70 del sec. XX, hanno originato culture alternative, quali presagi dell’imminenza della “New Age (of Aquarius)”. Tra le caratteristiche principali dell’Era, ci sono la solidarietà, la democrazia, la fratellanza, il rispetto dell’ambiente, l’umanitarismo, l’apertura mentale, le nuove tecnologie. Allo stesso modo, essa apertura mentale e senza pregiudizi vede il fallimento degli schemi sociali o religiosi ed il nascere delle tendenze culturali costrittive per la libertà di scelta dell’individuo. Sono tipici anche la ricerca di cure alternative, l’omeopatia, le discipline orientali ed il ritorno alla meditazione come ricerca interiore di se stessi e ribellione, intesa come anticonformismo e ricerca del nuovo. Ed il vero problema è che una parte del clero cattolico si è adeguata. Un saluto da Gotham, il Pinguino.
Mai sentito parlare di meditazione cristiana? Non mi pare risalga al ‘68.
da amante della musica ho sempre ringraziato Dio per averci donato insuperabili artisti come i Led Zeppelin e i Deep Purple. E continuerò a farlo. Al pari del volto delle mie figlie o di un paesaggio, la loro musica mi rende grata al nostro Creatore.