di P.Giovanni Cavalcoli, OP
Cristo ha rivelato alla sua Chiesa un complesso di verità salvifiche immutabili: “cielo e terra passeranno – dice Gesù ai suoi – ma le mie parole non passeranno”. Nello stesso tempo Cristo comandò di conservare quegli insegnamenti immutati sino alla fine del mondo, garantendo ai suoi che, nel corso dei tempi, con l’assistenza dello Spirito Santo, li avrebbero conosciuti sempre meglio e con sempre maggiore chiarezza: “lo Spirito Santo – disse – vi guiderà alla pienezza della verità”.
Dunque quelle verità sono sempre le stesse; ma vengono conosciute sempre meglio. Abbiamo dunque un progresso nella continuità. Non sono i contenuti rivelati che evolvono, ma siamo noi Chiesa che evolviamo conoscendo sempre meglio e più a fondo le medesime verità e formulandone sempre meglio l’espressione concettuale e linguistica in modo adatto all’evolversi dei tempi ed alla differenza delle culture. Ecco quella che si chiama l’evoluzione del dogma.
Cristo, per esempio, è il medesimo, heri, hodie et semper e quindi immutabile è la nozione che la Chiesa ha della persona di Cristo; ma ciò non toglie che sia esistito ed esista un progresso dogmatico nella conoscenza del mistero di Cristo, per cui nuovi concetti si aggiungono per chiarire ed esplicitare i precedenti. Così il Concilio di Calcedonia ha spiegato la “consustanzialità” di Cristo con Dio Padre introducendo la distinzione fra “persona” e “natura”: Cristo è una persona divina in due nature, una umana e l’altra divina.
Il progresso del sapere teologico cristiano, il progresso dottrinale o dogmatico avvengono indagando, riflettendo e meditando su quanto già si conosce della Parola di Dio e traendone delle conseguenze o conclusioni teoretiche o pratiche mediante un retto ragionare e un’esperienza vissuta di quelle medesime verità. Questa è opera di ogni pio cristiano, in particolare dei teologi e dei santi.
Essi formulano delle nuove interpretazioni od opinioni teologiche, le quali, se sono corrette e vere, vengono eventualmente approvate e canonizzate dal Magistero della Chiesa sotto forma di “dogmi”. Il dogma è appunto un’interpretazione o uno sviluppo della dottrina di Cristo proposti infallibilmente e irreformabilmente dalla Chiesa.
La dottrina di fede che la Chiesa infallibilmente e definitivamente propone in nome di Cristo comporta due livelli di autorevolezza o credibilità: un livello superiore ed uno inferiore. Quello superiore concerne la stessa dottrina di Cristo così come è formulata nel Vangelo e nella Tradizione cristiana. Questo è il dogma, formulato innanzitutto nei Simboli della Fede (il “Credo”) e rispecchia direttamente gli insegnamenti di Cristo, il dato divinamente rivelato, la Parola di Dio.
Il livello inferiore è l’esplicitazione o la chiarificazione, lungo i secoli, delle parole di Cristo o la loro connessione con fatti o valori umani, storici o razionali, senza la verità dei quali anche la fede nelle parole di Cristo diventerebbe impossibile.
E’ questa la dottrina della Chiesa, la quale, se la Chiesa lo ritiene opportuno, per motivi pastorali, può essere da lei solennemente confermata ed allora viene elevata alla dignità di dogma. Finchè non è confermata, ma approvata comunque dalla Chiesa in forma ordinaria, è verità prossima alla fede; quando invece è solennemente confermata (Magistero “straordinario”) diventa vera e propria verità di fede. Ma sia il dogma che la dottrina della Chiesa sono dottrine infallibili e definitive. Vanno credute non con fede divina, come i dogmi, ma con fede nell’autorità divina della Chiesa (“fede ecclesiastica”).
Per esempio, l’esistenza della verità o del libero arbitrio o l’immortalità dell’anima o l’esistenza di Dio sono di per sé verità filosoficamente dimostrabili, ma la Chiesa le ha elevate a dottrina infallibile o dottrina di fede per il fatto che se si negassero quelle verità, la fede cristiana sarebbe impossibile.
Così pure per certi fatti storici, negando i quali, anche in questo caso la fede cattolica diventerebbe impossibile, come per esempio la legittimità dell’elezione pontificia di Benedetto XVI o del ConcilioVaticano II o la storicità dei Vangeli o l’esistenza storica di Gesù Cristo.
Queste considerazioni sono importanti in relazione al dibattito attuale sul significato dottrinale e sull’interpretazione delle nuove dottrine contenute nel Concilio Vaticano II. Esistono al riguardo, nel mondo cattolico, due posizioni entrambe sbagliate, per diversi motivi: c’è la corrente neomodernista, la quale esalta le dottrine conciliari, ma le interpreta male e le pone in contrasto col Magistero precedente e con la Tradizione cattolica, rifiutando peraltro l’immutabilità dei concetti dogmatici e cadendo quindi in una concezione relativistica della Dottrina cattolica. I neomodernisti tendono a ridurre l’elemento dottrinale a pastorale aggravando così ulteriormente il loro relativismo, dato che in campo pastorale effettivamente la Chiesa può mutare e non è infallibile.
E c’è una corrente tradizionalista, vicina ai lefevriani, la quale, prendendo a pretesto il fatto che nel Concilio non sono definiti nuovi dogmi, ritiene che si tratti di un Concilio solo pastorale, per cui, anch’essa, consapevole che in fatto di pastorale la Chiesa può sbagliare, si prende la libertà di relativizzare le dottrine conciliari, accusandole eventualmente di essere in rotta con la “Tradizione” intesa non come stadio avanzato della Tradizione interno al Concilio, ma come fase precedente al Concilio, in nome della quale vorrebbero respingere la fase più avanzata rappresentata dal Concilio.
Questi tradizionalisti sono incapaci di riconoscere il progresso dottrinale operato dal Concilio e pertanto non riescono a vedere la continuità delle dottrine conciliari con quelle del precedente Magistero.
La posizione giusta invece, come ci suggerisce il Papa con la sua formula “continuità nella riforma” (o nel progresso), sta nell’affermare contro i modernisti: 1° la immutabilità dei concetti dogmatici e nel contempo un sano progresso dogmatico nei termini ai quali ho accennato sopra; nel progresso dogmatico non mutano i concetti, ma i nuovi si aggiungo ai precedenti in continuità con essi; 2° quindi la continuità delle dottrine conciliari con quelle del Magistero precedente; 3° che la teologia non si risolve nella pastorale, per di più di stampo relativistico, ma la pastorale è applicazione della teologia dogmatica; e contro i filolefevriani: 1° il Concilio non è solo pastorale ma anche dogmatico; 2° pertanto esso, anche se non definisce nuovi dogmi, contiene dottrine infallibili, ossia assolutamente e perennemente vere; 3° le nuove dottrine non sono in contraddizione con quella del Magistero precedente; 4° queste dottrine non sono in contrasto con la Tradizione, ma ne sono uno stadio più avanzato.
Il lavoro che oggi a noi cattolici si impone è duplice: 1° accoglienza convinta delle dottrine del Concilio, rettamente interpretate, ossia nella fedeltà all’interpretazione fatta dalla Chiesa del postconcilio; 2° ci è lecito avanzare riserve o anche critiche a certi aspetti della pastorale del Concilio, ossia quelli che mostrano un’eccessiva indulgenza nei confronti degli errori moderni e pertanto non forniscono adeguate indicazioni su come discernerli, criticarli e confutarli.
Dopo quarant’anni di applicazione di questa pastorale, ormai diventano sempre più chiari gli effetti negativi di essa nel campo della liturgia, della spiritualità, della teologia, della morale, della disciplina ecclesiastica, del costume, della condotta personale e sociale di singoli e di gruppi, nel campo della cultura, della famiglia, dell’economia, della politica, e della stessa ortodossia della fede.
Appare pertanto sempre più necessario un intervento organico della Chiesa e della Gerarchia: 1° per chiarire definitivamente quali sono i punti di dottrina da tenere in ossequio alla fede cattolica, onde evitare ogni strumentalizzazione e ogni fraintendimento; 2° per correggere gli errori pastorali, non per tornare all’eccessiva severità del passato, ma per saper accompagnare meglio l’esercizio della misericordia ad opportune vigilanza ed energia che sappiano difendere il popolo di Dio e soprattutto i deboli e i semplici dalle astuzie dei falsi maestri e dagli scandali dei pastori indegni.