Ringraziamo gli amici del sito Congredior per la gentile concessione di questo articolo, seguito da un breve commento, sempre a cura della stessa Redazione di Congredior.
Il 12 settembre si è tenuto in Turchia un referendum per modificare alcuni punti della Costituzione, al fine di togliere alle Forze Armate ogni potere di intervento nella vita politica. In questo articolo, scritto prima del referendum, già venivano spiegati i rischi ai quali andava incontro la Turchia con una riforma costituzionale che solo in apparenza avrebbe portato a una maggior democrazia in quel Paese. Il “corollario” in calce all’articolo esamina la situazione che si è creata dopo il referendum, e che deve essere attentamente valutata prima di affermare a priori che la Turchia deve entrare in Europa (ndr)
Ci sono libri che, data la loro importanza, andrebbero pubblicizzati al massimo dai mass-media e nelle librerie: è questo il caso del bel saggio di Alexandre Del Valle, giovane e brillante esperto di geopolitica, intitolato “Perché la Turchia non può entrare in Europa” (Guerini e Associati editore). Nel titolo ho parlato di “Paradosso della Turchia” e ora cercherò di spiegarmi, avvertendo il lettore che ho già scritto un articolo dedicato a questo argomento, a pag 21 di questo blog.
Si sono versati fiumi d’inchiostro per convincere gli europei che la Turchia è ormai una nazione laica e moderna, solidamente avviata verso un processo di democratizzazione irreversibile, e soprattutto che i vantaggi in termini economici del suo ingresso in Europa sarebbero consistenti, grazie ad un enorme apporto di forza – lavoro a basso costo. Del Valle, invece, con una lucida e documentata analisi, ci spiega quali sono i rischi sottesi ad un ingresso dell’ex “Sublime Porta” nella UE.
Partiamo dalla cosiddetta laicità della nazione in esame: è vero che la rivoluzione voluta da Kemal Ataturk ha proiettato la Turchia verso il futuro estromettendo inizialmente il potere religioso dalla sfera politica, ma è anche vero che tale rivoluzione è stata imposta dall’alto e mantenuta in vita nel corso degli anni dalle potentissime forze armate del paese che, con diversi colpi di stato, hanno garantito la laicità della nazione. Situazione già paradossale: mentre nel resto del mondo, di solito, le forze armate appoggiano regimi dittatoriali e antidemocratici, in Turchia succede esattamente l’opposto, ovvero è l’esercito che si fa garante del rispetto della laicità, e dunque, in una nazione pressoché totalmente islamica, delle basilari regole democratiche. D’altra parte, e questo è il secondo paradosso, l’Unione Europea chiede che tale strapotere militare venga ridimensionato,con il rischio che la Turchia diventi sì più libera, ma solo di entrare nell’orbita dell’integralismo e della Sharia, come alcuni segnali, purtroppo, lasciano intendere.
Dunque ecco le conseguenze di tali paradossi, che rischiano di cadere come macigni sulle spalle di un’UE allargatasi troppo frettolosamente e, almeno in alcune alte sfere della politica, ansiosa di convolare a nozze col nemico secolare dell’Europa: se la Turchia si “democratizza”, ridimensionando il potere dell’esercito, e viene accettata nell’UE, si scatenerà il processo di islamizzazione, forse irreversibile. Avverto i lettori che il referendum voluto da Erdogan per ridimensionare il potere dell’esercito avrà luogo esattamente il 12 Settembre, e il suo risultato ci svelerà il vero volto della Turchia attuale.
Ma non è tutto: nel caso poi la Turchia entrasse in Europa, ci troveremmo a dover convivere con settanta milioni di abitanti, i quali avranno più potere politico, nell’ambito del Parlamento Europeo, della Germania, ovvero di una nazione pilastro dell’attuale Unione Europea. Per non parlare poi dei problemi conseguenti all’inevitabile immigrazione di milioni di Turchi da noi, resa possibile dall’apertura delle frontiere anche ai nuovi arrivati. A quel punto, ci fa capire Del Valle, l’islamizzazione dell’Europa sarà ormai un fatto compiuto e l’ombra della Sharia si stenderà, come un nero manto, sulle nostre leggi, fagocitando le nostre libertà tanto duramente conquistate.
Del Valle analizza puntualmente tali segnali, a cominciare dall’antisemitismo sempre più evidente nella società anatolica e dall’allontanamento da Israele, una volta alleato di ferro della Turchia. Si sono poi registrati attentati gravissimi ai danni delle minoranze religiose: gli omicidi di Don Santoro, del giornalista armeno Hrant Dink, del missionario tedesco Tillmann Geske e di due giovani convertiti turchi e, recentemente, di mons. Luigi Padovese. Fatto particolarmente inquietante, quest’ultimo, perché commesso durante la visita di Benedetto XVI a Cipro: attentato che ha dunque tutto il sapore di un avvertimento mafioso su scala geopolitica.
Nonostante l’opposizione delle forze laiche che ancora hanno voce in capitolo, la Turchia sta scivolando in una progressiva islamizzazione che, in politica estera, ha portato alla creazione di un asse di ferro tra Ankara e Teheran e ad un allontanamento dall’influenza americana. Gli esempi che Del Valle porta in tal senso sono numerosi e inequivocabili, e spaziano dalle relazioni diplomatiche fino al successo di libri dal tono dichiaratamente antiamericano o antioccidentale tout court. Mi permetto di aggiungere a mia volta un particolare che Del Valle, quando ha scritto il libro, non poteva conoscere: in Turchia non solo è stato proibito il libro “The God Delusion” (“L’illusione di Dio”) del grande naturalista inglese Richard Dawkins, ateo convinto (alcuni suoi libri sono nella lista di quelli consigliati in questo blog), ma il suo editore è stato addirittura minacciato di morte.
Parimenti, tutti i governi turchi hanno rifiutato di ammettere il genocidio degli armeni (un milione e mezzo di persone trucidate agli inizi del secolo scorso), ostinandosi a parlare, genericamente, di “casualties of war”. Sull’olocausto armeno rimando il lettore alla mia recensione sul bel saggio di Alberto Rosselli a pag. 9, altro libro di fondamentale importanza per comprendere i nodi ancora irrisolti delle relazioni con la Unione Europea e il bagno di sangue che tenne a battesimo la Turchia moderna.
E che dire della questione della parte nord di Cipro, vale a dire porzione d’Europa occupata militarmente dalla Turchia nel 1974, in spregio a tutte le norme di diritto internazionale, e massicciamente islamizzata con l’immigrazione di decine di migliaia di contadini anatolici? Del Valle ci offre un quadro molto preciso e dettagliato della questione cipriota, troppo spesso minimizzata o addirittura ignorata dai simpatizzanti della causa turca.
Altrettanto importanti sono le pagine dedicate alla preparazione “psicopolitica”, che la diplomazia turca ha messo astutamente in campo per convincere l’opinione pubblica che l’ingresso della Turchia è “inevitabile”: quante volte ci è capitato di sentire dire che “è meglio averla dalla nostra parte piuttosto che contro di noi”, perché un rifiuto dell’UE potrebbe far “precipitare il paese anatolico nell’islamismo radicale”, e così via? E’ chiaro anche a un bambino che tali prese di posizione, oltre ad essere palesi minacce non troppo velate, sono l’ennesima variazione sul tema già cantilenato fino alla nausea: o li accettiamo o diventano pericolosi, cioè iniziano a bruciare le banlieus, a mettere le bombe, a uccidere chi insulta l’Islam, e così via. Tradotto in parole povere, significa dover prendere decisioni col fucile già puntato alla testa: bel modo davvero di convincere gli europei delle pacifiche intenzioni degli “amici musulmani”, turchi o nordafricani che siano.
Se poi tale discorso non dovesse essere convincente, si passa alla fase due del ricatto, quello vittimistico e altrettanto abusato delle accuse di razzismo rivolte ad un’Europa come “Club cristiano” incapace di accettare “il diverso”. Si noti l’offesa già implicita in tale definizione: ridurre la religione, che è alla base della nostra civiltà, ad un semplice “club”, la dice lunga sul rispetto delle nostre tradizioni sacre da chi pretende il rispetto delle proprie e l’edificazione di nuove moschee.
Insomma, i cattivi sarebbero sempre gli europei, che rifiutano le profferte d’amore dei pacifici futuri immigrati turchi: quegli stessi immigrati ai quali Erdogan raccomanda di non integrarsi nei paesi europei che li ospitano già a milioni, soprattutto in Germania.
Insomma, questo cocktail di vittimismo e arroganza, prepotenza e blandizie, sapientemente shakerato dalla diplomazia turca e dai nostri politici che le tengono corda, ha il preciso compito di convincere l’opinione pubblica europea che il futuro del nostro continente sarà benedetto dall’ingresso di Ankara nel parlamento europeo: credetemi, altro non è che la vecchia tattica del “piangi e imbroglia” di partenopea memoria, però applicata su scala geopolitica.
Tale tattica non ha mancato di dare i suoi frutti: ricordo un’intervista televisiva a Gianfranco Fini, sostenitore a spada tratta dell’ingresso di Ankara in Europa, nella quale l’ambiguo politico dichiarava, con aria quasi sdegnosa:
“La Turchia ci ha fatto comodo nella NATO, dunque con che diritto negarle l’ingresso in Europa?”
Già, peccato che Fini abbia spudoratamente invertito l’ordine dei fattori, perché semmai è stata la Turchia ad avvantaggiarsi dell’ingresso nella NATO, in un’epoca nella quale la minaccia e le pressioni sovietiche su Ankara erano particolarmente forti. Non si dimentichi infatti che i russi sono sempre stati i nemici storici della “Sublime Porta”, da Pietro il Grande fino a Stalin. Dunque l’Occidente ha già dato un grosso aiuto alla Turchia e sarebbe davvero buffo doversi sentire in colpa per aver fatto, e non ricevuto, dei favori così importanti sul piano politico.
Sullo stesso Erdogan varrà la pena spendere due parole: oggi è a capo di un partito islamico cosiddetto “moderato” (ma dov’è l’Islam moderato? Se mai il termine di Araba Fenice ha avuto un senso, è proprio quando si parla di un fantomatico Islam moderato…), ma sia Del Valle che la Fallaci prima di lui ci ricordano che l’attuale astuto premier turco è stato incarcerato nel 1998, con l’accusa di istigazione all’odio religioso, e non è mai riuscito a scrollarsi di dosso la patina di simpatizzante dell’islamismo radicale.
Anche il ruolo-chiave delle potentissime confraternite islamiche, in passato ridimensionate da Ataturk, ma oggi sempre più influenti sul piano religioso, politico ed economico è un altro segnale inequivocabile della progressiva islamizzazione di quel paese che, fino ad ora, pretendeva di convincerci della sua tanto sbandierata laicità. Laicità voluta da Ataturk, ma, ci fa osservare sempre Del Valle, su una base di partenza già sbagliata: il fondatore della Turchia moderna, infatti, volle che l’unica religione di stato ammessa fosse l’Islam, soluzione evidentemente pasticciata, la cui ambiguità di fondo si è poi ritorta contro le stesse intenzioni del Padre della Patria.
Altro capitolo interessante è quello nel quale l’autore dimostra che i vantaggi economici dati dall’ingresso della Turchia si pagherebbero pesantemente in termini di contributi economici che l’Europa dovrebbe versare al paese anatolico, ancora molto arretrato soprattutto nelle campagne, per avvicinare i suoi standard di vita a quelli europei. Contributi economici destinati ad essere ampiamente scremati da una delle burocrazie e delle classi dirigenti politiche più corrotte del mondo: insomma, proviamo a immaginare una questione meridionale al quadrato, e avremo l’esatto quadro delle magnifiche sorti e progressive che attendono l’Europa nello sciagurato caso che la Turchia ne entri a far parte.
Del Valle suggerisce semmai la formula del partenariato economico privilegiato, l’unica che garantisca un sano sviluppo di amichevoli relazioni economiche e politiche, senza però far entrare un ospite così pericoloso nella stanza dei bottoni della politica europea. A tal proposito mi permetto di aggiungere che, se la Turchia avrà un ruolo sempre più importante nello scenario internazionale, sarà come nazione modello per il mondo islamico, non come ospite accolta “obtorto collo” da milioni di europei, giustamente diffidenti.
Del Valle non manca di ricordarci che è anche l’America a premere perché la Turchia entri in Europa, in parte nella speranza di mantenere buoni i rapporti con Ankara, ma anche per il desiderio, mai apertamente confessato, di indebolire l’Europa del prossimo futuro, alle prese con un inevitabile scontro di civiltà interno.
E allora, qual è la soluzione?
Ce la fornisce Del Valle stesso, quando auspica, nella parte forse più entusiasmante del libro, che la Russia, e non la Turchia, possa essere accettata come nuovo stato membro europeo: i vantaggi sarebbero innumerevoli, e non solo dal punto di vista dei rifornimenti energetici (petrolio, metano e uranio), ma soprattutto per l’enorme contributo culturale e scientifico che la “Grande Madre” è in grado di arrecare al vecchio continente. Per non parlare poi delle comuni radici cristiane che ci legano con i popoli dell’est europeo, tanto più necessarie in un momento di crisi di valori e di sbandamento relativistico come quello che l’Europa sta attraversando.
Ma anche qui non mancano i problemi: la stessa Russia sembra essere indecisa tra la sua vocazione all’Europa e una vocazione eurasiatica, cioè di apertura verso i paesi di area islamica, che vede in Alexander Dughin il suo principale teorico. Personaggio di straordinaria intelligenza e cultura, dalla dialettica vulcanica e al limite del logorroico, Dughin ha affascinato diversi intellettuali europei che si ostinano a vedere nell’Eurasia il futuro anche del nostro continente. Premetto che di Dughin ho una conoscenza superficiale, avendo letto solo qualche suo articolo e ascoltato dei suoi interventi su Internet, pertanto prego il lettore di non prendere per oro colato ciò che sto per scrivere. Tuttavia mi è capitato di ascoltarlo mentre citava Dostoevskij, a sostegno delle sue teorie: ma in tal caso Dughin farebbe bene a ricordarsi di una delle intuizioni profetiche dello scrittore, espressa in diversi romanzi: e cioè del destino salvifico della Russia nei confronti dell’Europa attuale.
Ma, salvezza da che cosa?
Il visionario Dostoevskij si riferiva certamente alla necessità di evangelizzare nuovamente un’Europa allo sbando e in balia di impulsi materialistici, e da questo punto di vista si direbbe che l’ora è ormai giunta. Ma la Russia potrebbe aiutarci a sfuggire al pericolo più immediato dell’islamizzazione, venendo a creare, in simbiosi con l’Europa, un immenso impero fortemente radicato sui valori occidentali, che da Lisbona si estenderebbe fino a Vladivostock.
Di fonte ad una prospettiva di tale portata, l’ammissione in Europa di una Turchia ostile e arretrata assume i contorni di una soluzione provinciale, pericolosa e destinata a servire ben altri interessi che non i nostri: e dunque perché mai dovremmo bagnarci in una pozzanghera torbida di periferia quando potremmo nuotare nell’oceano?
COROLLARIO ALL’ARTICOLO – dopo il referendum…
Quanto avevo paventato nella pagina sopra è accaduto: il partito di Erdogan è uscito vincitore dal referendum tenutosi in Turchia il 12 Settembre scorso, col quale gli elettori, cancellando parecchi articoli della Costituzione, hanno esautorato le Forze Armate dal controllo del Paese.
Vittoria della democrazia, hanno subito giubilato i fautori dell’entrata della Turchia nell’UE, ma vittoria solo apparente, come dimostrato appunto nel libro di Del Valle da me recensito: l’esercito turco, infatti, è stato quello che, sia pure con le maniere forti, ha garantito la laicità dello stato e la conseguente modernizzazione del Paese, paradossalmente proprio in senso democratico, oltre che economico. Ora, invece, la strada dell’islamizzazione radicale della Turchia è finalmente spianata, come avevano già fatto presagire la rottura traumatica con Israele e l’avvicinamento all’Iran.
A questo punto resta da augurarsi che il vero obiettivo di Erdogan e dei suoi sostenitori si mostri al più presto per quello che è: l’instaurazione della Sharia prima in Turchia e poi anche in quell’Europa che fosse così incauta da accoglierla entro le sue mura. Così forse potremo sperare che l’ex “Sublime Porta” riesca a mettersi i bastoni tra le ruote da sola, rendendo di fatto impresentabile la sua candidatura a membro della UE. Come conciliare infatti i principi di democrazia, che cementano l’Europa, con una nazione che rischia di diventare una copia un po’ più edulcorata dell’Iran degli Ayatollah?
Quell’Iran nel quale, è bene puntualizzarlo, nell’anno del Signore 2010, si condannano le adultere alla lapidazione, gli omosessuali alla pubblica impiccagione e si soffoca il dissenso politico con la repressione violenta e la tortura.