di Roberto Dal Bosco
1952. Il giovane Giulio Andreotti con Alcide De Gasperi
«Sono nato sotto un Benedetto, morirò sotto un Benedetto» aveva preconizzato Andreotti all’elezione al Soglio pontificio di Ratzinger. Un dettaglio tenero, quasi struggente; come pochi ancora, considerava i papati come scansione temporale, un po’ come fanno i Giapponesi con i Tennō, gli Imperatori – questa presente, regnante Akihito, è l’era Heisei, quella di Hiroito era l’era Shōwa, e così via…. Nato sotto Benedetto XV, nell’arrivo di Benedetto XVI il senatore vedeva una coincidenza onomastica che sapeva di segno di celeste completezza: la sua era stata una vita grande, conchiusa in un simmetrico senso divino. Non sapeva, il senatore, che il mondo è talmente cambiato che Benedetto XVI è ancora vivo ma il Papato è quello di Francesco I…
È morto l’ultimo grande democristiano; forse, ci si può spingere a dire: il solo. Nessun altro come Andreotti avrebbe rappresentato la continguità tra il Papato e la Politica di uno Stato, quello italiano, che ai suoi albori ottocenteschi era nato come negazione violenta della Chiesa di Roma. Questa contiguità, che in teoria ci aspetteremmo essere la cifra di un partito che si è chiamato Democrazia Cristiana e che ha dominato la scena politica per quasi tutta la metà del secolo XX. Sappiamo che purtroppo non è stato così: già con gli anni Sessanta, la DC fece entrare nei suoi quadri persone che cristiane non lo erano minimamente (il problema, mutatis mutandis potrebbe averlo avuto anche la Chiesa postconciliare: così qualcuno spiega l’impennata di preti pedofili degli ultimi anni). Da partito sedicente cristiano, la DC divenne bellamente un sistema di gestione, a volte anche virtuosa, della cosa pubblica. Ma della dottrina cattolica, della morale, della bellezza della Religione di Cristo, si perse quasi subito traccia: ci siamo ritrovati così con le bave di Forlani (a cui dobbiamo due titani dello spirito come Follini e Casini, che sono coscientemente i ruttini digestivi del mondo che si è pappato la DC), le labbra oscene di De Mita (a cui dobbiamo la nullificazione finale del messaggio cristiano in politica, la quale con Ciriaco diventa un tecnicismo feudale meridionalista), le manovre oscure di Andreatta (a cui dobbiamo la svendita del Britannia, Prodi, e finanche un governo, quello attuale, in cui un premier in teoria ex-democristiano si prende come ministra la feticida seriale Emma Bonino). No, la Democrazia Cristiana tanto cristiana non era, e quindi figuriamoci se era cattolica.
In tutto questo marasma Giulio Andreotti aveva saputo spesso- scusate l’ironia – tenere la schiena dritta. Andreotti con il Vaticano, per lo meno, ci parlava sul serio. «E lei andava dal papa così, come io vo dal tabaccaio?» gli chiese sconvolta Oriana Fallaci in intervista (ora contenuta in Intervista con la Storia, Rizzoli), quando Giulio le disse che frequentava l’Oltretevere ancora ragazzino. Era proprio così: la dimestichezza di Andreotti con il massimo mondo ecclesiastico era una realtà tangibile ed arcana. Era considerato un «cardinale esterno», e molti chiacchierano di come fosse stato scientemente scartato dalla curia perché potesse proseguire, sempre al servizio della Chiesa di Roma, una carriera nell’universo secolare, che gli era più congeniale.
Alla notizia della morte, gli ebeti grillini al senato, in una ennesima prova del loro infimo squallore mentale e morale, hanno berciato ed ululato. La deputata M5S Giulia Sarti (quella di cui si narrano le mail rubate con annesse interessanti foto di «solitudine») non ha trovato di meglio che scrivere «è morto Andreotti, il condannato prescritto per Mafia». Gian Carlo Caselli, l’azzimato persecutore dalla mirabile chioma, ha gracchiato che comunque era stata «provata la responsabilità penale». Il suo collega Ingroia, cercopiteco para-comunista ha rincarato la dose: «uomo dalle tante ombre e dalle poche luci». Il vacuo fenomeno editoriale transitorio Roberto Saviano ha tuonato che «l’ha fatta franca». Il PDL Fabrizio Cicchitto ha cercato una inquadratura bonaria fuori tempo massimo: «per lui la mediazione era l’essenza della politica e andava esercitata con tutti… fino alla mafia tradizionale, mentre condusse una lotta senza quartiere contro quella corleonese».
Al contrario di questa oscura selva di personaggi, lo scrivente, come picciotto dedito alla causa di un realismo politico che governi il mondo con fermezza e saggia misura, si vorrebbe mettere in fila con quelli che bacerebbero quelle mani antiche che in questo momento, dicono le cronache, sono fredde ma impugnano salde un rosario nero. Io plaudo all’Andreotti che fortifica la posizione mediterranea e vicino-orientale dell’Italia e dell’ENI, anche se questo vuol dire stringere la mano dell’impresentabile Arafat. Plaudo l’Andreotti che a Mosca guadagna – segno raro e benevolo – la prima pagina della Pravda mentre è in visita a Gorbachev; l’Andreotti che fa puntare i mitra dei carabinieri contro i Marines a Sigonella (e come l’altro protagonista della storia, Bettino Craxi, pagò il conto); l’Andreotti che si sorbisce gli sfoghi a cena di Saddam Hussein; l’Andreotti nemico della riunificazione tedesca; l’Andreotti che non accetta di presentarsi ad un rodeo di Bush senior con gli stivali e il cappello da cowboy (tutti gli altri “statisti” stranieri invitati, da Mitterand in giù, si misero invece in costume da vaccaro per il Re d’America); l’Andreotti che era visto come fumo negli occhi dalle amministrazioni Nixon, Carter, Clinton, nonché dall’eterno padrone del vapore diplomatico Henry Kissinger; l’Andreotti capace di stoccate che solo uno che gioca su un piano globale – e profondissimo – può permettersi. Nessuno lo ha ricordato in questi giorni di lutto, ma il fatto fu clamoroso, e indicativo della potenza di fuoco andreottiana.
All’altezza dei primi anni Novanta, Mehmet Alì Agca, dopo essersi rimangiato la sua versione dei fatti una quantità di volte, aveva riattaccato a dire che erano i bulgari gli organizzatori dell’ attentato. Il giornalista del Corriere Antonio Ferrari seguì il senatore Andreotti ad Atene per un convegno, e gli chiese un’intervista: «Presidente, Agca ora dice d’ essere andato a casa del caposcalo romano delle linee aeree bulgare Sergej Antonov. Sarà vero?». Andreotti con una ironica voce bassa: «Certo che è vero». Poi sgancia la bomba: «Nel condominio dove abitava Antonov, Agca è andato di sicuro. Ma per quanto riguarda l’ alloggio che ha descritto, si è sbagliato». Ferrari stupefatto chiede: come? «Sì, si è sbagliato di piano. Ha descritto l’ appartamento di padre Félix Morlion, il frate notoriamente legato alla Cia». Non so se sia chiaro: giunti ad un certo punto del giuoco, il senatore «bruciò» (cosi si dice nel gergo dell’intelligence) un agente americano – per giunta un domenicano! – in quattro e quattro otto, quasi con indifferenza, con la stessa placidità con la quale poteva regalare a Vespa una battuta sulla Carrà. La tessitura profonda del mondo, che è vastissima e concreta, per lui non era quel mistero che è per tutti noi comuni mortali.
Lo chiamavano Belzebù, perché il suo acume era immenso e opaco, le sue trame pervadevano il mondo intero. Uomo di intelligenza cauta e sopraffina, riversava la sua folgorante lucidità in pensamenti aforistici che superano persino l’estro di Ennio Flaiano o Karl Kraus. «I rospi meglio ingoiarli da girini». «In politica ci sono più Dracula che donatori di sangue». «Sono di media statura ma non vedo attorno a me giganti». «Amo talmente la Germania che ne preferivo due». «Il potere logora chi non ce l’ha», che in realtà non è nemmeno una sua battuta – gliela sussurrò, pare il cardinale Francesco Marchetti Selvaggiani – contiene in nuce la raffinata idea politica con la quale la DC per anni ha imballato i partitini avversari per ucciderli di sfinimento. Quando Aldo Moro ci provò con il PCI, finì ammazzato nel più grande psicodramma della storia repubblicana: in realtà, l’orrore di tutta quella storia (il sangue dei morti, il caos istituzionale, il corpo dello statista pugliese rannicchiato nella R4 in via Caetani) era la visualizzazione del logorio definitivo di chi il potere non lo possedeva e stava – con il crollo del muro di Berlino – per perderne per sempre la speranza. Una plastica rappresentazione della massima andreottiana: i brigatisti, e certo anche i loro mortiferi padroni, erano solo degli impotenti logorati.
Per Andreotti proprio Moro ebbe, nella squallida prigione Brigatista di Via Gradoli, parole durissime: «Tornando poi a Lei, on. Andreotti, per nostra disgrazia e per disgrazia del Paese (che non tarderà ad accorgersene) a capo del governo, non è mia intenzione rievocare la grigia carriera. Non è questa una colpa. Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, on. Andreotti, è proprio questo che Le manca. Lei ha potuto disinvoltamente navigare tra Zaccagnini e Fanfani, imitando un De Gasperi inimitabile che è a milioni di anni luce lontano da Lei. Ma Le manca proprio il fervore umano. Le manca quell’insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza riserve, i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. Durerà un po’ più, un po’ meno, ma passerà senza lasciare traccia.». Sono parole tremende, mirate bene per colpire emotivamente Giulio sin nell’intimo: ad offenderlo non era certo l’appello al suo «grigiore» di burocrate (ebbe a dire «essendo noi uomini medi, le vie di mezzo sono per noi le più congeniali») quanto il paragone con De Gasperi, figura paterna sul cui ricordo Andreotti era assai permaloso. C’è un punto però sul quale le ingenerose parole di Moro di certo sbagliano. Anche se non lascia un impero, una scuola, una corrente, un segno di certo indelebile nella società italiana il senatore lo lascia. Non è purtroppo, un segno positivo: è anzi un marchio del Diavolo, un sigillo dell’azione veridica di Beelzebul, quello vero. Sempre in quel fatale 1978, a pochi giorni dalla morte di Moro, la Gazzetta ufficiale pubblica il testo della legge 194, firmata dal primo ministro democristiano Giulio Andreotti. Come ben racconta Francesco Agnoli nella sua Storia del Movimento per la Vita edito da Fede & Cultura, Andreotti pensò di dimettersi, ma poi – raccontò – prevalse l’idea di evitare la caduta del governo e dare stabilità al paese: una scusa patetica, considerando il numero devastante di governi fatti e disfatti sotto gli occhi della storia italiana. Anzi, va ricordato come l’Andreotti primo ministro (carica che ricoprì poi ben sette volte) esordì con un governo che durò la bellezza di nove giorni (dal 17 al 26 febbraio 1972), il più breve che l’Italia Repubblicana ricordi.
Caso unico al mondo di legge abortista firmata da politici democristiani, la 194 è siglata da Andreotti e dai ministri democristiani Tina Anselmi, Francesco Bonifacio, Tommaso Morlino, Filippo Maria Pandolfi nonché dal presidente democristiano Giovanni Leone. Costoro tutti sono de facto corresponsabili della strage di almeno 5 milioni di vittime innocenti. Con l’aggravante che essi erano tutti uomini che si dicevano cattolici, anzi la cui carriera e il cui stipendio erano definiti dal dirsi “cattolici”, perché altrimenti i voti se li sarebbero dovuti sudare.
Essi sono gli iniziatori della legge per cui l’Italia perpetra un autogenocidio a spese del contribuente, un caso patologico di Paese che esegue il rituale sanguinario del suo stesso suicidio: tra quei 5 milioni di morti, vi sono cittadini che avrebbero potuto diventare medici, operai, musicisti, calciatori, ingegneri, commercianti, avvocati, artisti. Vi erano i ricambi della nostra società costretta a subire le ondate immigratorie, e forse pure i ricambi di una classe politica che ha toccato il fondo. Cinque milioni di bambini, cinque milioni di figli, cinque milioni di fratelli, cinque milioni di anime sacrificate al Nulla, o per chi ci crede, a Satana. Perché questo sono gli aborti: offerte alla genìa degli Immondi. L’alimento dei diavoli e delle loro schiere, il nutrimento primo dei nemici di Cristo e dell’umanità, della vita e del creato.
Qui Andreotti ha toccato il limite – estremo, metafisico, tragico – della sua medietà democristiana, del suo genio della politica, cioè dell’arte del possibile, del compromesso: mediazione per mediazione, ha provato a stipulare il patto con Beelzebul – quello vero. Gli ha così consegnato milioni di anime, e quindi forse anche la sua. Perché cos’altro è l’aborto, se non il ritorno al sacrificio umano grato ai demoni? La Chiesa un tempo non aveva paura di dirlo, e per questo condannava le streghe, così come si legge nel Malleus Maleficarum, il manuale degli inquisitori: i feticidi sono attività materialmente demoniache, sono commercio con Lucifero nello stato più puro.
L’aborto è la forma suprema forma di invocazioni sataniche: sono le porte dell’Inferno che si spalancano, e inghiottono l’umanità che non si aggrappa a quella roccia su cui, come disse il Maestro, non prævalebunt.
Eppure Andreotti credeva nell’Inferno. Dei dubbi modernisti sull’esistenza dell’Inferno diceva che erano il prodotto «di un certo buonismo teologico».
Di nostro, anche noi sappiamo che l’Inferno esiste. E certo, non possiamo sapere cosa stabilirà il Giudice – quello vero, non quello dei processi farsa – per l’Andreotti, maledetto firmatario della legge di Erode, sanguinario ed immondo patto con Beelzebul.
Ora, che tu sia tra le fiamme o meno, possiamo solo dirti, caro Giulio: fai buon viaggio.
Amen.
1 commento su “IL PATTO CON BEELZEBUL (ANDREOTTI E L’INFERNO) – di Roberto Dal Bosco”
Splendido Articolo: Andreotti scelse Satana e la tanatofilia…e ora, per colpa sua, i sacrifici umani a Satana continuano tutti i giorni…senza l’andreotti di turno, Lucifero avrebbe molto meno potere su questo mondo!