Pochi sono coloro che non perdono l’anima, dipende più che altro dalla sofferenza e dalla capacità di sopportarla, diceva un grande filosofo; non vale forse anche per noi che vorremmo andare a Cristo, partecipare all’ignominia della croce, ma come? Torniamo a riflettere sul libro di Giobbe, al capitolo 23, 8-17, un testo importante: “Se andrò per primo e non sarò più che cosa so tuttavia del fine ultimo? Se agisce a sinistra, non posso comprenderlo; Egli nasconde la sua destra e io non vedrò”.
Il dolore rende oscuro tutto e la prima cosa che si tocca con mano è la difficoltà ad afferrare la natura invisibile e incomprensibile di Dio. Si dovrebbe leggere il testo di Giobbe avendo presente Genesi dove l’essenza creatrice di Dio è precisata con due parole che il latino rende con grande sobrietà: fiat Lux. “Il Signore ha fatto sciogliere il mio cuore; l’Onnipotente si è schierato contro di me; non sapevo che le tenebre si sarebbero abbattute su di me e che l’oscurità mi avrebbe coperto davanti la mia faccia”.
San Giovanni Crisostomo rilegge in questi termini, così attuali per noi, queste parole: “Questo disastro inaspettato non è accaduto secondo la logica umana. Io riesco a capire che questo colpo viene dalla mano di Dio”. Giobbe procede sul cammino verso Dio, continuando a dichiarare la propria fedeltà e confidando nella Sua bontà, anche se la tenebra ricopre il suo volto (17) e lui non conosce il fine ultimo (9). Accettiamo di non vedere tutta la realtà. Non vediamo l’altro versante della nostra esistenza e della nostra preghiera. In fondo dovremmo accettare di non vedere tutti i versanti della vita, altrimenti occuperemmo il posto di Dio.
Siamo entrati nell’impero delle tenebre e dobbiamo renderci conto che non siamo inquieti perché ci sono le tenebre, ma perché le tenebre definiscono il nostro essere come cristiani. Siamo diventati più fragili, più esposti, meno difesi. I punti di riferimento che avevamo sono crollati e prima accetteremo questo fatto, prima riusciremo a trovare strategie di sopravvivenza. La città di Dio è assediata e i treni per Auschwitz (rectius, per l’Amazzonia) sono pronti.
Qualche anno fa qualcuno ricordava l’importanza di tenere a portata di mano l’Enchiridion Symbolorum di Denzinger, non per amministrare nostalgicamente un passato che non ritornerà più, ma per dotarci di un nuovo sguardo, di nuovi strumenti per familiarizzare con l’inconoscibile, l’orrore che provoca questa gente che si è impadronita della Chiesa di Cristo e vincere la tentazione del suicidio come cristiani o dell’aggressione all’altro. Ricordiamo Wittgenstein: “il suicidio è sempre una sopraffazione su se stessi. Ma non c’è niente di peggio che dover sopraffare se stesso. Tutto ciò significa naturalmente una sola cosa: che non si ha fede”. Il concilio avrebbe dovuto illuminare la Chiesa e invece l’ha precipitata in una voragine oscura. Il marcio sta nel manico, non è l’uomo, tanto meno l’uomo di chiesa, che illumina, solo Dio può dire, come ha detto, fiat lux.
“Sono ridotto a niente, hai portato via il mio desiderio come un vento e la mia prosperità è passata come nubi” (Gb. 30, 14b-15). Ciò che dice Giobbe è ciò che pensiamo noi, ma come imparare a tollerare questo istante devastato in cui tutto ciò che costituiva il nostro mondo viene lacerato, irriso, disprezzato, negato? Per quanto duro possa essere quello che ci viene propinato non è la verità ultima anche se sancisce la fine di un mondo. Dobbiamo mettere in conto che il nova facio omnia non sarà necessariamente una consolazione: la bontà di Dio ha dato a Giobbe altri figli, ma quelli persi, sono persi per sempre.
Noi viviamo un ossimoro: la Creazione geme e soffre (Rm. 8,22) e l’uomo, anche molti cristiani, non sa più guardare il cielo, eppure qualcosa possiamo farlo; in mezzo alla derisione del sistema di potere ecclesiastico celebrare Dio nel modo in cui l’ha trasmesso la Tradizione è non darsi tregua per mantenere vivo il soffio di Dio. In mezzo al dolore, allo sgomento per quanto vediamo accadere sotto i nostri occhi, forse potremmo essere messi alla prova, dice Giobbe (30, 23) “tuttavia non levi la mano per la loro distruzione e se saranno messi a morte, li salverai”.
Occorre prendere coraggio e aprire l’accesso del nostro cuore e affrontare le ombre della nostra vita, è un piccolo test dove ciascuno può verificare se trova che Dio è lì ad aspettare tra quelle delusioni. In altri termini: la “punta dell’anima” è una profondità spirituale capace di percepire ciò che appare oscuro anche alla coscienza, se avremo coraggio di affrontare questa profondità potremo trovare un nuovo senso, rimasto in sospeso, sconosciuto, non ancora fatto proprio che non si adatta a certezze stabilite, ma apre a una dimensione diversa. Non dimentichiamo ciò diceva san Gregorio Magno: “Dio, fuori del quale non c’è nulla, ascolta percependo i nostri desideri sotto di lui”.
Si è voluto rendere razionale (illuminista) la fede cristiana (in primis la liturgia), ma la perversione fa capolino quando si sceglie di farsi orientare da una luce che possiamo darci noi. Nella chiesa perversa che ci domina lasciamo che il giudizio appartenga solo a Dio, non siamo noi che dobbiamo il vero senso delle sciagure, un uomo può solo descrivere, ma sempre ricordare che non sa il significato profondo; la pazienza consiste nel saper attendere il giorno del Giudizio, dove ogni cosa sarà rivelata.
Siamo arrivati, grazie a questa chiesa, ai bordi dell’abisso, non piangiamo per quello che ci viene tolto, ma occupiamoci del corpo abusato della Chiesa, se lo faremo nel senso che diceva s. Teresa d’Avila (“muoio figlia della Chiesa”) potremo esserne straziati e nella nostra mente potrebbe a fatica rimanere vivo un sentimento che ci mantenga vicino alla Creazione, lottiamo contra la prostrazione e, nell’isolamento, come Maria, andiamo in fretta (Lc. 1,39), scrutiamo il buio, aggiriamo il nostro lamento, guardiamo con compassione coloro che non capiscono più perché non sanno o non vogliono sapere.
Dall’essere rivolti a Dio e agli uomini, nutriti da un’angoscia portata con molte lacrime e pazienza, a poco a poco, le parole della Tradizione potranno trovare nuovo gusto, nuovo senso, nuovo vigore. Dio acconsente a parlare con Giobbe (42, 7-10) dopo le sue interminabili rimostranze e i suoi improperi e rimprovera gli amici di Giobbe e la loro falsa teologia. Cosa dobbiamo fare noi? Pregare che questi portatori di falsa teologia che oggi hanno la meglio possano trovare la forza di fare quello che fecero gli amici di Giobbe: pentirsi!
E, di nuovo, noi? Come dice Dio nel libro di Giobbe (42,8) “il mio servo Giobbe pregherà per voi, perché io lo accetterò. Se non fosse per lui vi avrei distrutto poiché non avete detto la verità contro il mio servo Giobbe”. Capita di trovare su una campana questa scritta: “fidem dico”; pochi sanno ormai di scritte simili, ancora meno sono coloro che ne comprendono il significato o se ne interessano o semplicemente capiscono il motivo del suono delle campane. In questa sordità, però, continuare a suonarle, anche senza sapere il perché, sarà come un premere verso Dio a ricordarsi, come a Sodoma (Gen. 19,29).
1 commento su “Il naufragio della chiesa e la speranza di Giobbe”
Pianto amaro, il nostro, quasi non si vedesse la luce, ma non arretra la fede, né può spegnersi. Cadrebbe tutto, precipiterebbe la nostra anima, sarebbe la loro vittoria. Ecco, riflettevo ieri sul perché da tempo non mi danno pace e serenità le mie confessioni: perché la persona a cui dico i miei peccati non è Cristo che mi parla, ma semplicemente un uomo, volutamente un uomo; e questo si vede, si percepisce, purtroppo. “E come faccio?” mi domando, “da chi andrò? Tu solo, Signore… Eppure spero in Te, confido in Te, nonostante tutto. Sono così piccola, così debole, fragile ed esposta al terribile vento delle insidie malefiche. Non sono certamente Giobbe, io…”
Mi commuove di questo articolo la campana finale e la sua scritta che né si conosce più, né si comprende. Non suonano più le campane perché non parlano più della fede. Voglia Dio e ce lo ottenga la Sua Santissima Madre, che la notte passi presto.