Nella guerra civile spagnola, nello schieramento “nazionale” fu notevole la partecipazione dei carlisti, eredi di una tradizione politica che ebbe la propria nascita nei conflitti ideologici del secolo XIX e che, sia pur minoritaria e frammentata, resiste ancora oggi.
Di Luca Pignataro
A partire dai primi del Settecento, un ramo della dinastia di Borbone regnò anche in Spagna. Nel 1830, re Ferdinando VII abrogò l’antica legge salica, secondo la quale solo i maschi potevano accedere al trono, favorendo sua figlia Isabella destinata a succedergli alla sua morte, avvenuta nel 1833, ma scontentando il fratello don Carlos che diede inizio ad una sanguinosa guerra civile. La prima guerra ‘carlista’ (1833 -1840) si accese non soltanto per motivi puramente dinastici, ma anche per la contrapposizione di due diverse correnti di pensiero. Quella pro Isabella, che vide schierati i liberali anticlericali fautori di una monarchia costituzionale e centralizzata; e quella dei seguaci di don Carlos, riconosciuto come re Carlo V, che affermavano il primato della tradizione racchiusa nelle parole: Dio, Patria, Fueros e Re.
Fra Ottocento e Novecento, il pensiero politico ‘carlista’ ebbe diversi teorici, i quali elaborarono una vera e propria dottrina del movimento che cercheremo di sintetizzare.
Dio è al centro dell’attività umana nel mondo, ma soprattutto in Spagna, in virtù del suo ruolo storico di baluardo del Cattolicesimo; perciò la Spagna o è cattolica o non esiste come entità statale organizzata, perché la patria spagnola comporta l’unità nella fede cattolica. Da questa fede derivano le esigenze di subordinare la politica alla maggior gloria di Dio, di dichiarare la religione cattolica religione di Stato e di ispirare la legislazione e le istituzioni alla dottrina sociale della Chiesa.l termine castigliano fuero deriva dal latino forum, “luogo dove viene amministrata la giustizia”. Passa poi a significare la giurisprudenza o insieme di sentenze emesse dai giudici. Quindi, seguendo il cammino della formazione del diritto, passa a significare il complesso di privilegi riconosciuti dallo Stato a una città o a una categoria, per giungere finalmente a indicare l’insieme di norme specifiche con le quali si reggono le popolazioni spagnole. I fueros sono usi e costumi giuridici creati dalla comunità, elevati a norma giuridica, con valore di legge scritta, dal riconoscimento, concordato con l’autorità, del loro effettivo carattere consuetudinario. Perciò, diversamente dalle “dichiarazioni di diritti” o dalle “costituzioni di carta”, costituiscono garanzie di autentica libertà politica.
Nell’ideario carlista l’accento non è posto né sulla persona del Re, né sulla dinastia, ma sulla Corona, situata al vertice della piramide delle istituzioni politiche, che deve essere “cattolica, storica, sociale, responsabile, forale ed ereditaria”. “Cattolica” significa che la Corona deve assoggettare la politica generale ai princìpi della morale cattolica, essere rigidamente fedele agli insegnamenti della Cattedra Romana. “Storica” significa che è caratterizzata dal cumulo dei diritti storici sempre perfettamente identificabili. “Sociale” significa che deve essere non assoluta ma limitata, anzitutto dalla coscienza cattolica, morale e religiosa del Re, quindi dalle barriere giuridiche dei fueros e dalle decisioni delle Cortes, o Giunte, che rappresentano gli interessi regionali e nazionali. “Responsabile” significa che non è accettata la distinzione fra regnare e governare, tipica delle monarchie costituzionali: nella monarchia carlista il Re esercita personalmente il governo, aiutato dai Consigli della Corona o Consigli Reali, e risponde se lui o i suoi agenti non rispettano le regole dell’ordinamento giuridico. “Forale” significa che il Re esercita le sue facoltà di governo a norma dei diritti che storicamente e costituzionalmente gli competono in ognuno dei suoi domini, per cui quanto in una regione corrisponde a un fuero in altra può essere addirittura contrario. “Ereditaria” vuol dire che, nella disputa fra legittimità di origine e legittimità di esercizio, se quest’ultima prevale sulla prima, non si rinuncia ad attribuire importanza anche al collegamento dinastico.
Va aggiunto che, fra le caratteristiche che hanno permesso al carlismo longevità e radicamento territoriale, sta, in modo paradossale, la sua capacità di aggregare attorno all’ortodossia del programma riassunto nelle parole chiave, vari elementi che di volta in volta hanno suscitato passioni emotive e adesioni “forti”, adesioni cioè non ad una proposta politica, ma ad una intera visione del mondo. In tal modo il carlismo, a differenza di altri movimenti reazionari o controrivoluzionari europei, ha mostrato una duttilità e una capacità di aggregare attorno ai miti fondativi nuove parole d’ordine, che ne hanno permesso una sopravvivenza nel corso dei decenni. L’alto numero di affiliati ha fatto del carlismo un movimento controrivoluzionario di massa pressoché unico nel panorama europeo, dotato di una capacità di trasmettere il suo sistema ideale di generazione in generazione con una duttile capacità di adattamento che non escluda una fedeltà di fondo alle sue radici. I carlisti non si sono mai considerati militanti di un partito fra gli altri, ma membri di una famiglia e legati alla fedeltà dinastica/familiare, in cui la società viene interpretata organicisticamente secondo un tradizionale schema familiare.
Il simbolo del carlismo è la croce di Borgogna, una croce di Sant’Andrea rossa e ramosa su sfondo bianco
Sconfitto ed esule, Carlo V nel 1845 abdicò in favore del figlio primogenito, Carlos conte di Montemolin (Carlo VI), e tre anni più tardi si rifugiò con i familiari a Trieste, allora appartenente all’Impero d’Austria. Nella città adriatica alloggiò in un palazzo acquistato dalla duchessa di Berry, madre dell’erede al trono di Francia e sorella della moglie di Carlo VI, in Via del Lazzaretto Vecchio. Qui morì nel 1855 e fu poi sepolto nella cattedrale di San Giusto, sotto la cappella di San Carlo Borromeo, nella navata destra della chiesa. Carlo VI morì nel 1861 e gli succedette il fratello minore, conte di Montizon, sotto il nome di Juan (Giovanni) III, il quale nel 1868, essendo in contrasto con l’ambiente retrivo della sua famiglia, abdicò in favore del figlio, che prese il nome di Carlo VII. Il conte di Montizon nel 1883 fu riconosciuto erede del trono di Francia da una minoranza dei “legittimisti” (i fautori del ritorno della monarchia borbonica in Francia) e morì in Inghilterra pochi anni dopo. Nel 1874 morì a Trieste la seconda moglie di Carlo V, sepolta vicino al marito, nello stesso luogo in cui riposano anche Carlo VI e la moglie, Giovanni III e Carlo VII. Ancora oggi, la cappella dove sono sepolti i membri del ramo carlista dei Borbone di Spagna è visitabile nella Cattedrale di Trieste: qualcuno l’ha soprannominata “Escorial carlista”, dal nome del celebre monastero dove sono sepolti i sovrani di Spagna.
Carlo VI e Carlo VII (morto a Varese nel 1909) avevano cercato di riprendere il potere in Spagna con la forza, con insurrezioni nel 1847 (cosiddetta seconda guerra carlista) ed in particolare con la cosiddetta terza guerra carlista (1872-1876), ma invano. La morte di Carlo VII, avvenuta il 18 luglio 1909, precipitò i carlisti in un lutto profondo e, dopo una fase di sbandamento, fu invitato alla guida del movimento don Jaime (Giacomo) di Borbone (1870-1931), figlio di Carlo VII, che prese il nome di Giacomo III. Il carlismo dovette ambientarsi in un contesto ormai ostile, e vi riuscì solo parzialmente grazie alla sensibilità del pretendente Jaime (che favorì la nascita di sindacati carlisti) e al lavoro ideologico di Juan Vázquez de Mella, che raccolse tutta una tradizione di pensiero antiliberale intriso di medievalismo controrivoluzianario e antilluminista, e delineò l’ideale di una societas christiana da imporre alla società moderna anche mediante l’uso della violenza politica e di metodi insurrezionali. La partecipazione del carlismo al sistema elettorale non significò una accettazione del liberalismo. De Mella simpatizzava per gli Imperi Centrali durante la prima guerra mondiale, mentre don Jaime era a favore dell’Intesa. Il primo, a partire dal 1919, dopo avere rotto col movimento carlista ufficiale e fondato un Partido Tradicionalista, si mise ad invocare una dittatura militare per risolvere la crisi sociale spagnola.
Durante la dittatura di Miguel Primo de Rivera (1923-1930), i carlisti non ebbero una posizione univoca ma nel 1931 strinsero un’alleanza elettorale con gruppi nazionalisti e piccole formazioni di destra – è la Minoranza Basco-Navarrina – per opporsi politicamente alla Repubblica appena nata.
Il 22 settembre 1931 Alfonso XIII, Re di Spagna ormai in esilio, di ascendenza isabellina, visitò a Parigi don Jaime nella sua residenza di Avenue Hoche, visita ricambiata tre giorni dopo a Fontainebleau. Si parlò di un riavvicinamento dei due rami e di un patto, per cui Alfonso XIII avrebbe accettato don Jaime come capo della Casa e legittimo erede al trono purché nominasse successore il proprio figlio, l’infante don Juan; ma il 2 ottobre 1931, in seguito a una caduta da cavallo, don Jaime morì. L’unico discendente diretto era don Alfonso di Borbone (1849-1936), fratello di Carlo VII, zio di Giacomo III. Benché ottantenne e in una situazione politica molto difficile, don Alfonso assunse il titolo di Re carlista con il nome di Alfonso Carlo, in memoria del fratello, riunificando e ricostituendo il movimento come Comunión Tradicionalista. Sotto la guida di Manuel Fal Conde, giovane avvocato andaluso, capo della Comunión Tradicionalista, di José Luis Zamanillo González Camino, delegato nazionale dei requetés, e del generale José Enrique Varela Iglesias, capo militare, i carlisti si prepararono alla ribellione dopo il trionfo che le forze del Fronte Popolare ottennero nelle elezioni del febbraio 1936
Nel luglio 1936 la Comunión disponeva della milizia più agguerrita e preparata fra quelle della destra spagnola. Agli ottomila requetés, chiamati anche “berretti rossi”, che stavano in Navarra (la regione con l’organizzazione carlista più sviluppata), si aggiungevano altri ventiduemila nel resto della Spagna, contando sia quelli pronti ad entrare in azione sia le riserve. La direzione aveva tracciato un piano insurrezionale, basato sulle proprie forze e sulla partecipazione di una parte dell’Esercito, in vista di un progetto monarchico tradizionalista. A tale scopo fu formata una Giunta militare o Giunta di cospirazione, presieduta da Fal Conde e nella quale il pretendente don Alfonso era rappresentato dal nipote don Javier (François-Xavier) di Borbone Parma; facevano parte della Giunta alcuni militari e un gruppo di politici tradizionalisti. Questo organismo diresse di fatto a partire da quel momento la Comunión. Tuttavia quel piano fallì e i carlisti si videro costretti ad integrarsi nella cospirazione militare che sarebbe esplosa il 17-18 luglio, capeggiata dal generale Emilio Mola.
Il 15 luglio i dirigenti della Comunión Tradicionalista decisero di unire il carlismo al movimento militare contro la Repubblica, in base a quattro motivi. Prima di tutto, la preoccupazione successiva all’uccisione del politico di destra José Calvo Sotelo, il 13 luglio. In secondo luogo, l’accettazione da parte del generale Mola degli orientamenti circa lo scenario postinsurrezionale prospettati dal generale José Sanjurjo, l’uomo di fiducia dei carlisti nel complotto militare. La morte di questo generale in un incidente aereo, solo pochi giorni dopo lo scoppio dell’insurrezione, fu un colpo durissimo per le speranza dei dirigenti carlisti di imporre il loro progetto politico. In terzo luogo, il proposito di evitare una scissione interna, dato che i dirigenti carlisti della Navarra, scavalcando i dirigenti nazionali, avevano offerto i requetés direttamente a Mola, che aveva accettato contentissimo. Infine la volontà di approfittare della solida organizzazione, sia pur non ancora totalmente equipaggiata, che i carlisti avevano radicato in tutta la Spagna. Immediatamente dopo aver preso la decisione di unirsi alla sollevazione militare, malgrado la perplessità di alcuni dirigenti locali che avrebbero preferito attendere l’iniziativa degli estremisti di sinistra, fu trasmesso l’ordine di mettersi a disposizione dei comandi dell’esercito.
I primi carlisti a sollevarsi furono gli andalusi, il 18 luglio. In Navarra la mobilitazione ebbe luogo la mattina del 19, con più di settemila requetés in azione. In Álava, tremila berretti rossi collaborarono coi militari per controllare la provincia. A Saragozza e Burgos e negli altri territori in cui l’insurrezione ebbe successo, i carlisti svolsero diversi ruoli, a seconda delle loro forze. I carlisti agirono anche nelle zone che sarebbero rimaste sotto il controllo della Repubblica, come le Asturie e Cantabria, Vizcaya e Guipuzcoa, Catalogna e Valencia, andando incontro a una disfatta. Varie centinaia di carlisti morirono nelle settimane e nei mesi seguenti nella zona repubblicana. Un buon numero di affiliati e simpatizzanti della Comunión , soprattutto baschi, catalani e valenzani, trovò rifugio nella zona controllata dalle loro bande. I requetés ebbero un ruolo importante nelle prime settimane di guerra, soprattutto nel nord del Paese e in Andalusia occidentale, e si distinsero anche per una certa violenza e per le rappresaglie contro i rivoluzionari. Durante l’estate il loro numero aumentò in modo notevole.
Il carlismo sarebbe riuscito ad organizzare e sostenere, lungo l’arco dei tre anni di guerra civile, più di quaranta tercios di requetés. I tercios erano unità equivalenti ai battaglioni di fanteria, che cominciarono a formarsi nella seconda metà del 1936, dopo la fase iniziale di guerra di colonne. Non bisogna confondere questi tercios con quelli prebellici, perché lo scoppio del conflitto implicò lo smantellamento della struttura precedente e un’integrazione totale nell’esercito: in questo modo i combattenti carlisti venivano integrati sotto il comando militare. Si trattava in genere di combattenti volontari, soprattutto nei primi mesi del conflitto, più numerosi che nelle guerre carliste del secolo XIX. La maggior parte erano membri della classe media urbana, piccoli e medi proprietari o affittuari rurali, operai e lavoratori urbani. Vi furono casi in cui furono arruolati tutti gli uomini di un villaggio o addirittura famiglie complete, fino a tre generazioni (nonno, padre e figlio)! Il numero totale di requetés mobilitati durante gli anni del conflitto è stato stimato in un minimo di sessantamila. La maggior parte dei tercios fu chiamata con denominazioni prese dalla religione cattolica o da personaggi e luoghi legati all’epopea carlista o della guerra in corso. Un quarto dei tercios furono navarrini, otto baschi, otto di Castiglia e León, sette andalusi, sei aragonesi, uno nelle Asturie e uno composto di catalani fuggiti dalla loro terra. I berretti rossi contribuirono potentemente al trionfo dell’esercito franchista, intervenendo in tutte le battaglie e in ogni fronte. Tutte le unità furono sciolte al termine della guerra, quando il numero di carlisti morti era di circa seimila.
Nell’estate e nell’autunno 1936 tutta la Comunión Tradicionalista nel suo insieme crebbe in maniera significativa, anche se meno della Falange, incorporando persone provenienti da altre vecchie formazioni politiche o individui non militanti ma portati ad aggregarsi a qualche grande organizzazione dal clima della guerra civile. Significativa, all’interno della propaganda carlista, l’opera svolta dall’Obra Nacional Corporativa, il sindacato carlista, che tentava di coinvolgere operai e padroni in una struttura di tipo corporativo. Abbiamo già detto che il numero dei requetés aumentò parecchio; lo stesso si può dire per le margaritas, le donne carliste (così chiamate in onore della moglie di Carlo VII), alle quali spettavano funzioni di educazione, opere pie, beneficenza, sanità (tra cui il Socorro Blanco) e propaganda, e per i pelayos, i bambini inquadrati come i requetés, impiegati in manifestazioni nei quartieri, turni di guardia, sfilate e marce militari, indottrinamento, ginnastica, partite di calcio e manifestazioni religiose.
La morte di don Alfonso Carlos, a Vienna il 29 settembre 1936, rese attuale il problema della successione, già dibattuto negli anni precedenti, dato che sia don Jaime sia don Alfonso Carlos erano senza figli. In seno al tradizionalismo spagnolo, taluni sostenevano l’ex re Alfonso XIII oppure Carlo Pio di Asbugo Lorena Toscana (detto Carlo d’Austria, nipote di Carlo VII per parte di madre), ma teniamo presente che, dietro ai nomi, c’erano opzioni ideologiche non coincidenti, specialmente nei riguardi del liberalismo. Nel corso del 1935, Fal Conde aveva discusso il problema con don Alfonso Carlos, il quale rese noto, nell’aprile 1936, di aver designato in qualità di Reggente col compito di provvedere alla successione dinastica il nipote Javier di Borbone Parma, fratello dell’ultima imperatrice-regina austroungarica Zita e già ufficiale dell’esercito belga nella prima guerra mondiale, quando fu latore di un’offerta di pace da parte del cognato imperatore Carlo. La morte del pretendente fece precipitare gli eventi e, in un decreto datato in Burgos (la capitale provvisoria) il primo ottobre 1936, fu stabilita la Reggenza sotto don Javier, il quale confermò Fal Conde come capo delegato carlista.
Manuel Fal Conde era preoccupato di mantenere l’identità carlista nei riguardi dei militari e della Falange, tanto più che i dirigenti del carlismo navarrino, desiderosi di far valere la propria autonomia nei confronti della dirigenza centrale, appoggiavano totalmente i vertici militari, in particolare il generale Mola, senz’attendere altra contropartita che il mantenimento della propria provincia come enclave tradizionalista.
Alla fine del 1936, l’annuncio del decreto che istituiva una accademia militare carlista spinse Franco a far comunicare a Fal Conde che, se avesse voluto evitare la corte marziale, sarebbe dovuto espatriare in Portogallo. Fu così che il capo delegato tradizionalista si stabilì a Lisbona, senza che la maggior parte dei carlisti fosse messa a conoscenza di ciò. Il progetto carlista si scontrava con le intenzioni del nuovo Capo dello Stato sia perché presupponeva l’indipendenza dei requetés rispetto all’Esercito, sia perché rafforzava una particolare opzione politica, mentre invece Franco intendeva dissolvere i partiti, come di fatto fece col decreto del 19 aprile 1937, noto come Decreto di Unificazione, col quale si univano Falange e requetés in una sola “entità politica di carattere nazionale”, la Falange Espaňola Tradicionalista y de las Juntas de Offensiva Nacional Sindacalista (FET y de las JONS o FET-JONS), diretta dal Capo dello Stato, da un Segretariato o Giunta Politica e da un Consiglio Nazionale. Le milizie della Falange e dei requetés, pur conservando gli emblemi esteriori, sarebbero state unite in una sola milizia nazionale, ausiliaria dell’Esercito e sotto il comando supremo del Capo dello Stato, cioé il generale Franco.
Le reazioni carliste furono varie: l’entusiasmo predominò nelle retrovie, mentre al fronte prevalse il disorientamento; i dirigenti navarrini, che nei mesi precedenti si erano distinti per l’ostilità verso Fal Conde in esilio, accettarono entusiasticamente, mentre don Javier e Fal Conde, che nel febbraio precedente avevano riaffermato l’identità della Comunión Tradicionalista, mantennero il silenzio per evitare che il loro comportamento potesse essere interpretato come insubordinazione al potere in una fase di guerra.
Manuel Fal Conde, che a partire da agosto risiedeva di nuovo in Spagna, fu designato membro del Consiglio della FET y de las JONS, ma rifiutò, suscitando l’ira di Franco, il quale alla fine nel 1938 lo destituì dalla nuova carica. Don Javier aveva espulso dalla Comunión Tradicionalista, che egli considerava ancora esistente, tutti coloro che avevano accettato la carica di consigliere nazionale della FET y de las JONS, e alla fine del 1937 visitò la Spagna accompagnato da Fal Conde, ma fu espulso dal Paese dopo aver avuto un colloquio con Franco il 25 dicembre (qualcuno insinuò che il Governo tedesco avesse istigato l’espulsione).
Il nuovo partito unico non ebbe successo. I carlisti non si trovarono favoriti nella ripartizione delle nuove cariche, mentre le caratteristiche esteriori e l’ideologia del nuovo partito, ispirate al fascismo, si allontanavano parecchio dalle loro. A partire dall’unificazione del 1937, i contrasti coi falangisti divennero frequenti. Alcuni carlisti avrebbero cominciato a prepararsi all’opposizione al nuovo regime, al seguito di don Javier e di Fal Conde; altri avrebbero optato per la collaborazione, beneficiandone, o piuttosto per una sorta di equilibrio; un terzo gruppo, infine, disilluso dagli eventi, avrebbe cominciato a propendere per la smobilitazione. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che molti carlisti continuarono a combattere più o meno ignari delle divergenze fra le alte sfere.
La guerra civile terminò nei primi mesi del 1939 e per la prima volta i carlisti, paghi di aver sconfitto la Rivoluzione, si trovarono fra i vincitori di un conflitto intestino fra spagnoli; tuttavia, il nuovo Stato e la nuova società in costruzione non li soddisfecero e molti di loro cominciarono a sentirsi vinti fra i vincitori. Iniziò così, paradossalmente, il cammino dei carlisti verso la marginalità.
Scoppiata la seconda guerra mondiale, don Javier rientrò nell’esercito belga, poi, smobilitato nel 1940, passò a vivere in Francia ma, avendo collaborato con la resistenza durante l’occupazione tedesca, finì deportato a Dachau, dove fu liberato nel 1945. Nel 1952 don Javier si sarebbe proclamato Re, mentre scarso seguito ebbe la rivendicazione della Corona, dopo il 1945, da parte di Carlo d’Austria e poi dei suoi tre fratelli uno dopo l’altro. Franco, che aveva fomentato le rivalità dinastiche, nel 1968 espulse dalla Spagna la famiglia Borbone Parma e nel 1969 designò come erede ufficiale al trono di Spagna Juan Carlos di Borbone, che nel 1957, col cosiddetto patto di Estoril, era stato riconosciuto erede al trono anche da settori carlisti. Nel 1975, due anni prima di morire, don Javier cedette i suoi diritti al trono al figlio maggiore don Carlos Hugo, il quale fino al 1980 capeggiò quei settori del carlismo (il nuovo Partido Carlista) che, a partire dall’inizio degli anni Settanta, si erano dichiarati a favore del socialismo e dell’”autogestione”, in polemica coi settori più conservatori del movimento: a Montejurra, uno dei luoghi simbolo del carlismo, nel 1976 si ebbe persino uno scontro a fuoco fra carlisti di opposte tendenze, nel quale risultarono coinvolti esponenti dell’estrema destra di altri Paesi europei. Il post franchismo vide un crollo elettorale del Partido Carlista, che nel 1986 partecipò alla fondazione di Izquierda Unida (Sinistra Unita) insieme coi comunisti ed esiste ancora, e la rinascita, negli anni Ottanta, della Comunión Tradicionalista Carlista, inizialmente sotto la guida del fratello di don Carlos Hugo, don Sisto di Borbone Parma, ed oggi attestata su posizioni cattoliche tradizionaliste di destra.
Luca Pignataro (Roma, 1973), è dottorando in storia contemporanea e docente di lettere nella scuola secondaria. Suoi contributi sono apparsi in diverse riviste di studi storici, tra cui in particolare “Clio”, “Nuova Storia Contemporanea”, “Nova Historica”, “La nuova Europa”, “Radici Cristiane”, “Rivista di studi bizantini e neoellenici”, “Storia Verità”. Le sue ricerche hanno riguardato particolarmente la presenza italiana nel Dodecaneso, aspetti e personaggi del mondo cattolico italiano negli anni Quaranta-Cinquanta, i movimenti politici, culturali e religiosi anticomunisti nella Slovenia della prima metà del Novecento.