I cambiamenti che la tecnica imprime al mondo in cui viviamo sono così rapidi che non facciamo in tempo a renderci conto di quale sia tutta la loro effettiva portata; mentre stiamo incominciando a metabolizzarne uno, ne sopraggiunge un secondo, poi un terzo, un quarto, ciascuno dei quali provoca una rottura col nostro modo di vivere e di pensare, e perfino di sentire, e ciascuno dei quali ci proietta, pertanto, in una terra incognita, ancora bianca sulle carte geografiche, nella quale non sappiamo cosa troveremo, e della quale, questa è la cosa più inquietante, non ci accorgiamo di essere penetrati, perché coltiviamo ancora l’illusione di trovarci nel mondo di prima: nel mondo di cinque, dieci, venti anni fa, quando tutto pareva simile a come appare oggi mentre in realtà tutto era diverso.
Spesso l’uomo moderno viene paragonato a Ulisse: basti pensare a Dante, a Joyce o a Saba: come l’eroe greco, è continuamente proteso oltre le Colonne d’Ercole, alla ricerca di un segreto da svelare, di un’ultima frontiera da oltrepassare. Il paragone è giusto, a patto di mettere in evidenza due sostanziali differenze: primo, il figlio di Laerte voleva, sì, divenir del mondo esperto, e delle vizi umani e del valore, ma voleva, ancora più fortemente, fare ritorno alla sua casa, da sua moglie e da suo figlio; secondo, egli era perfettamente consapevole dei rischi che affrontava durante la navigazione, e se in alcuni casi li volle affrontare intenzionalmente, pur potendone fare a meno, fu perché aveva una grandissima sete di conoscenza e quella sete era proporzionata ai mezzi di cui disponeva per difendersi anche dagli eventuali pericoli.
Ad esempio, volle sì udire il canto dolcissimo e pericolosissimo delle Sirene, ma prese la precauzione di farsi legare all’albero della nave e di far sì che tutti i suoi compagni si tappassero le orecchie con della cera, in modo da non soggiacere alla sua stessa tentazione di dare ascolto a quelle voci e di fermare la nave, andando incontro alla morte.
Invece l’uomo moderno si getta su mari sconosciuti senza alcun desiderio di far ritorno a casa, anzi si direbbe che voglia fuggire dalla sua patria, dalla sua famiglia, dalla sua educazione, dai suoi valori e da tutto il suo mondo spirituale; e inoltre, come abbiamo accennato, sovente non ha affatto la piena consapevolezza di trovarsi in un mare sconosciuto, per cui si spinge avanti in maniera sconsiderata, impreparato sia psicologicamente che materialmente, esponendosi a pericoli mortali dei quali non ha neppure una vaga idea.
Uno dei mari sconosciuti e pericolosi nei quali si è avventurato senza neppure accorgersi di aver oltrepassato le Colonne d’Ercole, cioè di non essere più in acque a lui note, è quello della comunicazione cinematografica, radiofonica, televisiva e, da ultimo, informatica. Una cosa, infatti, è sapere come si accende un televisore, e, al limite (ma quanti lo saprebbero fare?) come funziona e come lo si aggiusta se si brucia una valvola; un’altra cosa, e ben diversa, è capire come la comunicazione televisiva sia una cosa del tutto nuova e differente rispetto alla comunicazione verbale, non solo dal punto di vista tecnico e quantitativo, ma anche e soprattutto dal punto di vista psicologico e qualitativo.
Intendiamo dire che una cosa vista di persona e poi narrata ad altri e una cosa vista alla televisione, anche se si riferiscono allo stesso evento, hanno un impatto e una risonanza completamente diversi su di noi, sulla nostra coscienza e sulla nostra intelligenza, e generano effetti anch’essi completamente diversi. E non ci riferiamo solo alle differenze generate da certi stratagemmi di cui la televisione dispone per alterare la realtà rappresentata, ma anche a qualcosa di più ampio, di più sottile, di più pervasivo, e contro cui è difficilissimo premunirsi in maniera adeguata.
Ci sia permesso chiarire questo concetto mediante un semplicissimo esempio concreto. Se un cittadino romano è solito recarsi, la domenica, in Piazza San Pietro, per assistere all’Angelus e ricevere la benedizione papale, vedrà bene, coi suoi occhi, quanta gente c’è in quella piazza, e noterà senza dubbio che ai nostri dì ce n’è molta, ma molta meno di quanta ce ne fosse, nella medesima occasione, dieci, venti o trent’anni or sono: e questo perché potrà fare un confronto fra ciò vede oggi e ciò che vedeva allora. Un telespettatore che assiste da casa a quell’evento, e che magari abita lontanissimo da Roma, dove forse non si recherà mai in tutta la sua vita, si affida alle immagini che gli vengono mostrate: e chi fa le riprese ha cura di non far notare affatto una tale differenza, inquadrando quei lati della piazza nei quali la folla sembra numerosa come lo era un tempo; la voce che accompagna il servizio, poi si guarda bene dal dichiarare apertamente ciò che qualsiasi testimone oculare, dotato di memoria (e naturalmente di onestà intellettuale) non può non vedere e trarne le sue personali conclusioni.
Questo è un esempio molto semplice di come la televisione ci abitui a considerare “vere” le cose che ci mostra e che ci dice, anche se per chi fa i servizi è cosa relativamente semplice farci credere qualcosa che è molto, ma molto lontano dal vero. E quel che abbiamo detto per l’Angelus in Piazza San Pietro vale per gli sbarchi dei migranti, con le eventuali vittime deposte dal mare in riva alla spiaggia; per le manifestazioni, più o meno pacifiche, dei gilet gialli francesi, e il contegno assunto verso di essi dalla polizia di quel Paese; nonché per fatti altamente drammatici e spettacolari, come il crollo delle Twin Towers di New York, le cui immagini ci sono state mostrare decine, centinaia di volte, sempre con gli stessi commenti banali e puramente emozionali, senza che mai la voce di un giornalista onesto ci facesse notare che due grattacieli di quella mole non possono crollare su se stessi, verticalmente, in seguito a un urto esterno, ma solo se vi è una demolizione controllata.
Ma c’è anche un altro senso, dicevamo, più sottile ed elusivo, ma anche più forte e pervasivo, in cui i mass-media, e la televisione in primis, operano in noi una vera e propria distorsione mentale, nell’atto medesimo in cui sembra che ci stiano offrendo solo la realtà pura e semplice, e nient’altro che la realtà. Si tratta di questo: una cosa vista e sentita alla televisione si colora automaticamente di una tonalità particolare, assume un’aura impalpabile, ma reale, per cui passa dalla dimensione della vita vera a quella della fabula, del mito, senza che ce ne rendiamo minimamente conto.
Un evento visto e udito coi nostri occhi e coi nostri orecchi è pur sempre un evento fra altri eventi; ma un evento visto e udito mediante la televisione è un’altra cosa: appartiene a una dimensione parallela, dove le cose, invece di essere un po’ meno vere, dal momento che, dopotutto, sono cose riportate e trasmesse, diventano, chissà come, più vere. Lo hanno detto alla televisione; oppure: l’ho visto coi miei occhi (alla televisione!): sono frasi significative, che attestano quanto la televisione sia, di per sé, una fonte autorevole di verità. Quel che essa mostra potrà anche essere stato ritoccato e magari falsificato: di ciò siamo forse consapevoli, ma solo con la nostra parte razionale. Con la parte emotiva, noi siamo immersi nel clima di quel medium: aderiamo a ciò che esso ci narra con tutto il nostro essere, lo accettiamo e nello stesso tempo lo trasferiamo in una regione della nostra consapevolezza che è al di sopra della sfera dell’esperienza comune.
E ora, anche qui, facciamo un esempio: che non è nostro, ma lo ha fato nel 2011 il giornalista Alessandro Gnocchi, presentando, insieme al professore Matteo D’Amico, il libro di Roberto de Mattei sul Concilio Vaticano II. Gnocchi osservava che quel che noi sappiamo o crediamo di sapere del Concilio, e quindi ciò che ne pensiamo, viene in grandissima parte dalla televisione (e dai giornali): la narrazione di quell’evento è stata fatta da loro. Quando si parla o quando si pensa al Concilio Vaticano I, o al Concilio di Trento, o al Concilio di Nicea, ci si richiama ai documenti prodotti da quei concili; ma quando si parla del Vaticano II, la prima cosa che viene in mente sono le immagini mostrateci dalla televisione, e i commenti dei giornalisti televisivi di allora. L’evento, mentre si stava svolgendo, era già entrato nell’atmosfera del mito; la narrazione che di esso facevano i mass-media era già mitologica, vale a dire che lo sottraeva ai normali criteri di interpretazione razionali e lo spostava su una dimensione diversa, quella della mitologia. La voce di Giovanni XXIII, che lo apriva, e quella di Paolo VI, che lo chiudeva, hanno perciò su di noi una risonanza diversa dalla voce dei pontefici e dei padri conciliari di tutti gli altri concili: voci che infatti non abbiamo mai udito, ma che possiamo solo immaginare, affidandoci alla lettura dei documenti.
Questo, fra l’altro, fa sì – aggiungiamo noi – che nella nostra valutazione di cosa è stato il Concilio Vaticano II un peso decisivo è svolto dalle immagini del Concilio e, naturalmente, dai commenti favorevoli alla fazione progressista che tutti i mass-media hanno continuamente lasciato trasparire, o espresso in maniera esplicita; mentre ai “conservatori” non è rimasto che fare da teste di turco per tutte le critiche, i sospetti e l’antipatia che inevitabilmente ricadono su quanti vengono presentati, sia pure solo in maniera indiretta, come oppositori del progresso, della fratellanza universale, dell’apertura e del dialogo con tutti.
In conclusione: tutto ciò che noi sappiamo, o crediamo di sapere, sul Concilio, e dunque anche il giudizio che vogliamo dare di essi, sono condizionati da un fattore che precede ogni nostra operazione intellettuale: un fattore emozionale legato a quelle immagini, al modo in cui ci sono state date e al mezzo che ce le forniva. Il medium è il messaggio!, ammoniva acutamente Marshall McLuhan (questo lo sanno tutti; ma quanti sanno che McLuhan da protestante si convertì al cattolicesimo, adottò la più rigorosa filosofia tomista e non smise mai di mettere in guardia contro le falsificazioni e le ambiguità del mezzo televisivo?).
Dunque, noi in realtà non pensiamo al fatto del Concilio allorché parliamo del Concilio, ma alla narrazione che di esso ci ha fatto la televisione e, in misura minore, a quella che ci hanno fatto i giornali: una narrazione di tipo mitologico, contro la quale le armi della critica razionale tendono a spuntarsi. Per tutti gli altri concili fa fede quel che c’è scritto nei relativi documenti; ma per il Vaticano II ciò che pesa sono le immagini di Giovanni XXIII al discorso di apertura, o quelle dei padri riuniti nella basilica, o mentre vi si recano attraverso la Piazza San Pietro, circondati dalla folla dei curiosi: immagini che ci mostrano i riformatori come l’anima positiva di quell’evento e i conservatori, o tradizionalisti, come l’anima negativa.
E tale è la narrazione che da allora si è sviluppata nella cultura mainstream, sia fuori che dentro la Chiesa stessa; né qualcuno ha pensato di rivederla e correggerla, nonostante l’evidenza dei fatti abbia mostrato ad abubndantiam quale disastro sia stato, per la Chiesa stessa, il Concilio. Esso venne e viene ancora presentato, a mezzo secolo di distanza, come una meravigliosa operazione di rinnovamento, dalla quale sarebbe scaturita una nuova stagione, ricca non solo di speranze, ma di frutti concreti, ossia di conversioni e di fede rinnovata: invece è accaduto esattamente il contrario.
C’è stato subito dopo un crollo verticale delle vocazioni e della fede, i seminari si sono svuotati si può dire da un giorno all’altro: ma i narratori del discorso si sono scordati di dircelo, sicché quella prima immagine largamente positiva, e quasi del tutto emozionale suscitata in noi dai mass-media, è rimasta immutata nella nostra coscienza, e difficilmente verrà modificata.
È vero che lo stesso Paolo VI, a pochissimi anni di distanza dalla chiusura del Concilio riconobbe il fallimento: Ci aspettavamo la primavera, invece è venuto l’inverno. Eppure, in tutti noi è rimasta quella prima impressione positiva, frutto della narrazione mediatica; e probabilmente, in qualche piega della nostra coscienza, essa vi rimarrà sempre. Non per nulla proprio McLuhan disse che nel mezzo televisivo si cela la tremenda realtà d’un potere diabolico.
E adesso torniamo al nostro assunto iniziale. Noi crediamo di muoverci ancora nello spazio del mondo di ieri, come direbbe Stefan Zweig, cioè, nel nostro caso, del mondo di una generazione fa, o anche solo di un decennio fa; invece ci stiamo già muovendo in un mondo diverso, il mondo del futuro che non abbiamo ancora compreso, ma che è già realtà. La conseguenza di questa distonia fra il vissuto e il percepito è che ci troviamo, di fatto, inermi e indifesi, in balia di forze che sono dirette da quelli che hanno perfettamente visto e compreso, per il semplice fatto che sono gli stessi che manovrano le valvole del progresso e dosano i tempi e i modi di questa o quella innovazione tecnica e di mercato.
E se questo scenario sembrasse eccessivamente complottista, si rifletta che, se esiste una cabina di regia della grande finanza mondiale, o qualcosa di simile, essa possiede sia i mezzi, sia le capacità di stabilire quali cose entrino a far parte del progresso e quali no (si pensi solo al semplicissimo esempio dell’automobile a benzina e dell’automobile elettrica); e che, quando decidono di mettere sul mercato un prodotto dai colossali effetti morali, come fu la pillola all’inizio degli anni ’60 del Novecento, realizzata dopo tre decenni di costosissime ricerche in laboratori privati, lo fanno per uno scopo ben preciso e non semplicemente seguendo le leggi della libera concorrenza, delle quali del resto possono infischiarsi, dato che di fatto essi agiscono in regime di monopolio.
Ora, lo stesso regime di monopolio lo esercitano sui mass-media: il che ci riconduce al discorso di prima: che tutto ciò che noi crediamo di sapere sia del passato, sia del presente e anche della più stretta attualità, è stato in effetti selezionato e manipolato in modo tale da far sì che noi sappiamo e pensiamo ciò che essi vogliono, e non certo col nostro libero giudizio. In altre parole, siamo già nel mondo virtuale, quello di 1984 e di Matrix, che credevamo di là da venire. È questo il nodo da affrontare, se si vuol essere cittadini consapevoli e non dei miseri burattini telecomandati…
1 commento su “Il mondo virtuale? Ci siamo già dentro”
È necessario perciò, a mio giudizio, un distacco radicale dalle fonti della “narrazione”, cioè dai mass-media, a meno che si tratti di media “liberi dall’Apparato Globale”.
Faccio un esempio storico: molti media cattolici – “L’ Osservatore Romano” e “La Civiltà Cattolica” in primis, poi nel Novecento per esempio “Famiglia Cristiana”- furono fondati per contrapporsi alla Narrazione Unica gestita dalla Massoneria. Svolsero un ruolo importante, spesso furono utili alle anime. Poi sono stati occupati dal medesimo Apparato Globale che avevano combattuto… Esemplare il caso di “Famiglia Cristiana” durante gli Anni Settanta.
Il solo atteggiamento corretto era, ed è, quello di abbandonarli completamente – non di sfogliarli con perplessità e dolore