Alcuni cattolici opinano, assurdamente, che il rapporto tra Cristianesimo ed Ebraismo sia stato trattato per la prima volta nella storia nella dichiarazione Nostra Aetate (1965), pubblicata in chiusura del Concilio Vaticano II. Ma questo è del tutto illogico, sia teologicamente che storicamente.
di Fabrizio Cannone
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I cristiani della prima generazione, a partire dagli stessi Apostoli e dai discepoli della prima ora, dovevano certamente possedere quei minimi elementi di dottrina e quelle minime cognizioni religiose per capire che, dall’Ebraismo nativo ed etnico era giunto il momento di passare al Cristo, il Messia lungamente atteso da Israele e finalmente venuto.
La Chiesa poi non ha atteso certamente 20 secoli per formulare una lettura dello sviluppo storico-teologico interno alla Rivelazione ebraico-cristiana. Se fu giudicata come erronea la posizione marcionita che voleva respingere in blocco l’Antico Testamento, quasi come se fosse annullato dal Nuovo, tuttavia fu chiaro come il sole che il Nuovo Israele, il Vero Israele (espressioni queste presenti da sempre nei Padri e nel Magistero, incluso il Magistero conciliare) fosse la Chiesa, composta da quegli Ebrei e da quei pagani che accetteranno Gesù come l’unico e definitivo Salvatore del mondo e della storia.
Un piccolo libretto uscito da poco, teologicamente inoppugnabile e di grande profondità spirituale, fa luce su tutto ciò e offre una lezione decisiva sui temi in oggetto (Erik Peterson, Il mistero degli Ebrei e dei Gentili nella Chiesa, Mimesis, Milano 2013, pp. 88, € 4,90). Prima professore nelle facoltà teologiche protestanti di Gottinga e di Bonn, si convertì al cattolicesimo nel 1930, a Roma, dove rimase poi insegnando al Pontificio Istituto di archeologia cristiana. Nel 1933, poco dopo la conversione dunque, scrisse il presente saggio, tradotto già nel 1935 in francese e nel 1946 in italiano.
Dopo la seconda edizione italiana del 1960, le edizioni Mimesis, hanno coraggiosamente pubblicato questa terza edizione che davvero colma una lacuna, permettendo a studiosi, sacerdoti e apologeti cattolici, di scoprire meglio quale fosse la risposta tradizionale della Chiesa e della teologia al problema del rapporto, non facile, tra Ebrei e cattolicesimo. Il testo si compone di 3 capitoletti in cui Peterson spiega i vari brani della Lettera ai Romani di san Paolo, specie i capitoli 9-11, in cui l’Apostolo (giudeo) delle genti, tratta «della relazione fra Israele e i gentili convertiti, della relazione fra la Sinagoga e la Chiesa» (p. 10).
La trama teologica di fondo è il passaggio dell’elezione, dell’adozione e la gloria, dell’alleanza e del culto, dall’Israele storico alla Chiesa, vero Israele senza confini che coincide con l’intera umanità redenta. D’altra parte, «chi contesta valore teologico al problema della relazione tra la Chiesa e la Sinagoga e considera questa relazione come un semplice problema storico, finisce necessariamente per far rivivere la posizione gnostica» (p. 24, n. 14).
La sintesi di questo passaggio teologico irreversibile, dal particolare all’universale, è rappresentato dalla liturgia che è la teologia pratica del Popolo santo di Dio. «Al culto del Tempio di Gerusalemme (santissimo nella prima fase della Rivelazione Divina) si è sostituito il culto spirituale reso a Dio da coloro che conoscono un sacrificio ben superiore a un sacrificio d’animali» (p. 15). Così, se è vero che «il Messia non esce da Atene, non da Roma» (p. 17), è anche vero che «il culto cristiano non può essere interpretato come una spiritualizzazione del culto giudaico, perché il culto cristiano opera la sostituzione dei sacrifici cruenti rimpiazzati col sacrificio del Figliolo dell’uomo» (p. 15, n. 3). E questa sostituzione spirituale è il fondamento dell’evangelizzazione che tutti i cristiani debbono praticare per cooperare alla salvezza di tutti, o almeno del maggior numero.
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fonte: Corrispondenza Romana