di Piero Vassallo
Habet mundus iste noctes sua et non paucas. San Bernardo
In un discorso tenuto a Genova il 15 dicembre del 1963, il cardinale Giuseppe Siri, dopo aver rammentato il giudizio di Pio XI sulle oscurità che avvolgono la dottrina comunista (“assai pochi hanno potuto penetrare la vera natura del comunismo”) sostenne che “siamo ben certi che se tutti conoscessero la verità delle teorie, dei fatti e dei metodi, non ci sarebbe in Italia nessun gruppo consistente che rimanesse comunista, siccome accade là ove le circostanze e l’accortezza dei responsabili hanno impedito la perpetrazione dell’inganno”. Il potere dell’assordante ideologia comunista dipendeva, infatti, dall’abilità mistificatoria e dalla destrezza fumogena dei suoi irriducibili propagandisti. Ultimamente l’apparato propagandistico della sinistra postcomunista è riuscito nell’impresa di occultare l’ideologia comunista dietro una cortina di slogan rassicuranti e tranquillanti: il pericolo comunista è cessato, non c’è più ragione di temere, adesso il buonismo e il politicamente corretto dominano la scena. Chiunque osi dichiarare che il comunismo sopravvive rischia l’esposizione alla gogna mediatica. In realtà si è verificata un’inavvertita (e taciuta dai media complici) metamorfosi della più avanzata fra le ideologie di matrice illuministica. Ora la possibilità di esplorare il fondo tenebroso del pensiero comunista è offerta (a chiunque intende guardare in faccia la realtà) dalla sfacciata tracotanza di un autorevole portavoce dei poteri forti, l’iniziato Roberto Calasso. Occultista adelphiano, oscillante tra l’arroventato delirio di Nietzsche e l’algida farneticazione del ciarlatano Guénon, Calasso ha traghettato l’utopia comunista sulla riva del nichilismo postmoderno, dimostrando, in un capitolo della “Rovina di Kasch”, che “il cuore segreto di Marx” non palpita sognando la giustizia realizzata dalla “comunità buona”, in cui sono superate le “maligne scissioni”, ma contemplando “il dominio totale, dominio intanto sulla cosiddetta natura, e verrà poi il momento per mettere a posto anche la propria natura”. L’ideale marxiano, restaurato da Calasso, non è, infatti, “l’operaio virtuoso, allevato nelle scuole tecniche e in fabbrica” – il progressista, che rivendicava la propria dignità indossando un ingenuo doppiopetto blu, alla Togliatti – ma l’uomo “fiorito nella mostruosità totale”. La passione del Marx scoperto e rivelato da Calasso si esalta “dinanzi alla demonicità del processo produttivo. E’ il processo che affascina, non certo il suo risultato” . Secondo l’infervorato esoterista “Questa è la promessa di potenza, questa è l’ebbrezza del Nulla che muove la macchina, miscela inesauribile, sprigionamento di forze. E addirittura l’idea di un processo fine a se stesso, che Marx ha marchiato d’infamia in centinaia di pagine di analisi in quanto sovrana perversione del mondo delle merci, ebbene, anche questo ora ci appare come qualcosa di ben più esaltante dell’infantile, limitato anche se benintenzionato mondo dell’antichità” . Quando si condivide il punto di vista ultramoderno, la marxiana “dissoluzione dell’ordinamento tradizionale del mondo” svela la sua dipendenza dalla rassegnazione alla forza dell’assurdità sprigionata da un “processo” tenebroso, che sembra inteso a cancellare la ragione, immagine divina nell’uomo. Riletto dall’iniziato Calasso, il marxismo profondo si mostra come una favola di magia nera. In un articolo su Marx, apparso nel 1977 sul Corriere della Sera (“La bottega del mago Röckle”, ora nel volume intitolato “I quarantanove gradini”), Calasso sostiene addirittura che Karl Marx era un narratore di favole “selvaggiamente infantili”. Marx raccontava per mesi e mesi alla figlia Eleanor la storia interminabile di Hans Röckle: “Hans Röckle era un mago, del tipo di quelli che piacciono ad Hoffmann, e aveva una bottega di giocattoli e molti debiti. Nella sua bottega c’erano le cose più meravigliose: uomini e donne di legno, giganti e nani, re e regine, mastri e garzoni, quadrupedi e uccelli numerosi come nell’Arca di Noè, tavoli e sedie, carrozze e scatole grandi e piccole. Ma, poverino, benché fosse un mago, Hans era sempre nei guai per i soldi, e così, a malincuore, doveva vendere al diavolo le sue belle cose, pezzo per pezzo. Ma, dopo molte e molte avventure e peripezie, quelle cose tornavano sempre nella bottega di Hans Röckle”. Secondo l’epigono Calasso, la favola di Röckle e della sua trattativa con il diavolo è l’anticipazione e il riassunto del Capitale. Le merci della bottega “seguono lo stesso movimento: l’alienarsi e il reintegrarsi delle cose e degli esseri, sempre accompagnati da un’ombra imprendibile e guizzante come il Mercurio alchemico: la moneta”, che si impadronisce degli oggetti finché essi non tornano definitivamente indietro. La storia del mago Röckle, sostiene Valentino Cecchetti, in un pregevole saggio su Calasso, recentemente pubblicato, costituisce l’allegoria della “transustanziazione della Merce”, il movimento inesauribile “delle cose e degli esseri” che viene imprigionato, come in una fotografia, dalla forma immobile degli “oggetti vitali” della “casa della vita” di Mario Praz. Cecchetti dimostra che, secondo il Marx ricostruito da Calasso, “Sulle cose opera il sortilegio diabolico della reificazione e gli oggetti diventano feticci, risucchiando dentro di sé la vita. Situazione paradossale e assurda, segno del massimo depotenziamento dell’esperienza e del significato. C’è in essa la stessa intercambiabilità semantica che domina la scrittura di Lautréamont, (qui agisce il sortilegio degli oggetti e non delle parole, ma sempre di essenze spettrali si tratta), la parodia e la raffigurazione degradata degli dèi”. L’interpretazione nichilistica di Marx conferma il giudizio formulato da Eric Voegelin alla fine degli anni Quaranta, giudizio secondo cui “Marx era spiritualmente malato, e il sintomo più evidente della sua malattia lo abbiamo individuato nella paura dei concetti critici della filosofia in generale. Egli rifiuta di esprimersi in termini che non siano concetti precritici e non analizzati” . L’analisi dei passaggi chiave dell’ideologia marxista, infatti “rivelano in modo apertamente esplicito i sintomi della logofobia, con profonda intensità, come una paura disperata e odio della filosofia … Non si tratta della paura di un particolare concetto critico, come l’Idea di Hegel, ma dell’analisi critica in generale. Sottomettersi all’argomento critico potrebbe a un certo punto condurre al riconoscimento di un ordine del logos, di una costituzione dell’essere. Ciò comporterebbe che l’idea rivoluzionaria di Marx, quella di istituire un regno della libertà e di trasformare la natura dell’uomo attraverso la rivoluzione, si rivelerebbe un’assurdità blasfema e inutile qual è realmente ” . Marx ha rovesciato la dialettica hegeliana compiendo (abusivamente) il salto dalla teoria alla prassi, dalla contemplazione filosofica all’azione rivoluzionaria: “Secondo Hegel il logos (ragione) stava per incarnarsi nella realtà e, dal momento che la ragione era in realtà la sua manifestazione, lo si poteva scoprire mediante la riflessione del filosofo. La sua filosofia della storia era una contemplazione dell’attuale manifestazione dell’Idea nella realtà, la quale non poteva mai coincidere con il proposito dell’agire umano. … Lo gnosticismo di Hegel era contemplativo. Invece di abbandonare la gnosi ripristinando la vera contemplazione, Marx abbandonò la contemplazione traducendo lo gnosticismo in azione” . Si dimostra in tal modo che “la malattia spirituale marxista … consiste nell’auto-divinizzazione e nell’auto-salvezza dell’uomo. Un logos intramondano della coscienza umana è il sostituto del logos trascendente” . Da un osservatorio opposto frontalmente, Voegelin aveva anticipato il giudizio di Calasso, chiarendo che Marx, benché avesse mutato un importante criterio della gnosi hegeliana, accogliendo l’idea cristiana che l’uomo vive interamente per merito dell’altro, (“Marx non nega che l’esperienza tangibile attesti la dipendenza dell’uomo dalla realtà”) rimaneva saldo nell’intenzione di partecipare alla rivolta idealistica contro il creato . La sequela di questo cruciale principio, non ha impedito l’avanzamento di Marx lungo la linea del nichilismo gnostico, sulla quale peraltro (come ha testimoniato Rosenkranz) si era già avviato Hegel . Marx sosteneva che la sua filosofia teneva i piedi sulla terra, ma il suo pensiero camminava nel cielo del più rovente irrealismo. Di qui, la dichiarazione di una guerra mortale contro le cose che compongono la spregevole realtà: “La realtà dev’essere distrutta: questo è il grande impegno della gnosi” . La rivoluzione comunista, in questa prospettiva, coincide con quella religione della morte, che era intesa ad affermare la liberazione dell’uomo mediante la distruzione del reale. Un’attenta lettura del capolavoro di Karl Löwith (“Da Hegel a Nietzsche”) autorizza ad affermare che, alla radice dell’ateismo di Marx, si trova una drastica negazione della realtà sociale. Löwith sostiene che, per Marx “La lotta contro la religione dell’al di là è mediatamente una lotta contro il mondo dell’al di qua”. A questa conclusione Löwith indirizza i suoi lettori citando un brano della tesi su Feuerbach dove Marx (con un significativo riferimento alla famiglia tradizionale) dichiara che l’ateismo si attua mediante la distruzione dell’ordinamento su cui si fonda la realtà sociale. Scrive dunque Löwith: “Feuerbach parte dal fatto dell’autoestraniazione religiosa e della duplicazione del mondo in una realtà religiosa e in una mondana. La sua opera consiste quindi, nel ridurre il mondo religioso al suo fondamento mondano. Che però questa base mondana possa staccarsi da sé e costruirsi un regno autonomo nelle nuvole è un fatto spiegabile soltanto per la autodispersione e l’autocontraddizione di questa base mondana. Dopoché, ad esempio, la famiglia terrena viene così scoperta come il segreto della sacra famiglia, si dovrà annientare la prima teoricamente e praticamente” . È innegabile l’analogia di questo cruciale pensiero marxiano con l’antinomismo gnostico e con le manifestazioni di quella capovolta religiosità, in cui l’estasiato Gershom Scholem contemplava il disegno di liberare il creato dall’oppressione mediante l’esercizio sistematico della trasgressione. Marx, d’altra parte, dipende dalle pagine hegeliane, che esaltano (con accenti squisitamente gnostici) la figura del lavoratore – distruttore del mondo. Lo ha confessato il maestro sessantottino Herbert Marcuse: “Hegel sostituisce all’idea del progresso l’idea di uno sviluppo ciclico che, bastante a se stesso, si svolge nella riproduzione e consumazione di ciò che è” . Nel Gulag sovietico, che i neocomunisti tolgono dal carico dell’ideologia, nascondendolo dietro il casto paravento delle deviazioni staliniane, si vede il risultato del percorso natatorio, che le reminiscenze epicuree di Marx hanno compiuto nel fiume carsico dello gnosticismo e del cabalismo, per approda all’avversione a Dio (“Odio con tutto il cuore, tutti e uno per uno, gli dèi ” è il motto araldico di Marx) e al culto malsano tributato all’autocoscienza del distruttore umano, inteso come deità assoluta . Il significato di questo mistico cimento si può contemplare, in filigrana, nell’affermazione usata da Gershom Scholem per svela la radice sotterranea del moderno e la causa dell’epilogo postmoderno: “L’eresia mistica porta in certi gruppi a conseguenza più o meno velate di carattere nichilistico, a un anarchismo religioso su basi mistiche, che, col favore delle circostanze, ebbe una parte notevole nell’intima preparazione dell’illuminismo e della riforma dell’ebraismo del secolo XIX” . La tesi di Scholem riassume la dottrina ultramarxiana che è concordemente proposta dall’avanguardia dell’eterodossia ebraica – si pensi all’opera di Ernst Bloch (1885 – 1977) e a quelle ancor più esplicite di Walter Benjamin (1892 – 1940) e Jacob Taubes (1923 – 1987) i continuatori del movimento neopagano avviato da Nietzsche (senza dire che la filosofia di Nietzsche ha avuto un parallelo sviluppo nella psicoanalisi freudiana, jungiana e hillmaniana). Si tratta di una tendenza intesa a favorire il rovesciamento della religione monoteista nella versione moderna della gnosi pagana, considerata (da Scholem ma anche da Hillman) come “un mondo divino, popolato di dei che si incontrano dappertutto e dei quali si possono ottenere i favori, il contatto con loro si realizza senza bisogno dell’estasi” . Negli anni Settanta, Paolo Pasqualucci ha pubblicato due saggi fondamentali sugli aspetti tenebrosi del pensiero rivoluzionario, rifondato da Benjamin e dagli altri sacerdoti del Profano . La lettura dei testi di Pasqualucci, pregevoli per l’obiettività, la chiarezza e la puntualità dei riferimenti (e perciò silenziati dal potere culturale) è indispensabile a chiunque desideri esplorare il fondo illusorio della sinistra ultima, libertaria e irrazionalista, e comprendere le modalità dell’integrazione del misticismo dionisiaco di Nietzsche nell’universo ateo e razionalista dei marxisti appartenenti alla generazione del severo Lukács. E di scoprire, infine, che la costituzione del binomio Marx – Nietzsche è il preambolo della sconcertante metamorfosi gnostica, patita dalla filosofia rivoluzionaria alle soglie dell’età postmoderna. Prima di tutto, Pasqualucci dimostra che l’ideologia di Benjamin prende le mosse da una incandescente passione atea e da un irriducibile pregiudizio antimetafisico, che si esprime ripetendo e attizzando gli argomenti nietzschiani: “Benjamin coglie con innata sensibilità vetero – testamentaria il carattere apocalittico dell’immagine del regno di Dio. Tuttavia egli ne espunge, da vero ateo, qualsiasi prospettiva di salvezza e quindi ogni autentico significato, ogni significato di liberazione trascendente, eterna: resta solo la distruzione l’ineluttabilità di una fine, alla quale il mondo degli individui sensibili non può voler aspirare: arriva, la morte arriva ma non è accettata. Rappresentarsi il Regno di Dio come pura distruzione di quello mondano e quindi in una luce offuscata dall’ombra del mondo distrutto, è coerente con la definizione del Messia, la cui opera viene presentata come qualcosa di gratuito e di immotivato, che esiste solo perché (e se) si vuole un Messia”. Postulata la perfetta estraneità della religione al mondo dell’uomo e sancito l’obbligo di profanare la teologia e devastare la metafisica . Benjamin propone una versione fortemente dialettica del materialismo storico: “La vita, in quanto forza o potenza storicamente accertabile, è organizzazione profana della vita stessa. Così la vita viene caratterizzata in opposizione al sacro, dichiarato privo di diritti: la vita stessa non è che organizzazione della sua propria forza ed energia, essa contiene in sé la sua magia e non ha bisogno di attribuirla a un deus ex machina”. Ora il fine della dynamis storica è la felicità, intesa come la definirono Nietzsche e Baudelaire. Osserva Pasqualucci al proposito: “Nietzsche e Baudelaire sono posti sullo stesso piano come eroi (antiborghesi perché nemici dei filistei), poiché hanno affermato l’idea della felicità, come fantasmagoria, del pensiero, verità di illuminazione, che, a un certo punto, lascia distinguere a fatica il filosofo dal poeta. In realtà, dal punto di vista del senso comune, del sano istinto popolare (cui si può dare ogni tanto la precedenza nei confronti della filosofia) nulla appare più angoscioso della felicità evocata e proclamata da Nietzsche”. Poco più avanti, Pasqualucci rammenta che l’affermazione del primato della felicità sensibile ignora la dissoluzione di cui è portatrice quando venga assolutizzato. Inspiegabilmente Benjamin fa riapparire a questo punto la figura messianica che si presenta investita di un oscuro potere. E affermata infatti la sua presenza reale e la sua vaga somiglianza e analogia con il profano: “Il Regno rappresenta la pienezza dei tempi, la fine dell’umanità che conosciamo, il suo tramonto che è però nuova aurora. Invece la realtà terrena e profana dell’uomo ha anch’essa la sua fine, il suo tramonto, che è da vedersi nella felicità, e coincide quindi con lo scopo della vita liberata dalla trascendenza. E proprio questa è l’analogia: il profano è tramonto allo stesso modo del Regno. Per questo il Profano, strutturalmente, come categoria, è vicino al Regno, con in più il vantaggio di far coincidere il fine della vita con la sua fine: eterno riposo nel nulla dopo la morte. L’ordinamento profano ha nella gioia il suo principio e il suo tramonto: è tramonto di se stesso e non di qualcos’altro. Attraverso l’immagine nietzschiana del tramonto, l’uomo che si è voluto liberare di Dio, riafferma il valore della sua ribellione: si rinchiude in se stesso, nel cerchio che ritorna in eterno al suo proprio ordine, dove la felicità è principio e fine”. La conclusione di Pasqualucci è raggelante: “Il rovesciamento benjaminiano del rapporto tra l’uomo mortale e l’immortalità fa vedere qualcosa di terribile, un suo intrinseco demonismo. Infatti non si tratta solo di negare l’esistenza dell’altro mondo in generale e della sua forma di Regno di Dio in particolare; di dire basandosi sull’evidenza sensibile immediata e sulla ragione, che l’altro mondo non esiste: siamo stati a lungo ingannati e ora non crediamo più all’inganno. Si tratta invece di dire, e questo è il demonismo: esista pure l’altro mondo, è meglio questo. Il mondo terreno … non sia altro che uno strumento nelle mani della Provvidenza: ebbene il carattere virile dell’uomo profano non accetta di essere stato usato come zimbello dall’eterno e rifiuta orgogliosamente la prospettiva dell’immortalità. Questa forza di carattere spinge allora a rovesciare il rapporto del soggetto con la morte, ad accettarla orgogliosamente come passaggio del vivente alla natura, a volere questo trapasso materialista, a proclamarlo addirittura una festa, in barba ad ogni trascendenza: qui si vede il carattere dell’uomo moderno, il carattere distruttivo”. Va da sé che la presenza di alcuni ebrei nella filiera del nichilismo postmoderno non autorizza alcuna concessione all’inverosimile leggenda del complotto ordito dai savi anziani di Sion. Chiunque abbia una conoscenza dello scenario culturale d’oggi, peraltro, sa che i principali ispiratori della minaccia nichilista incombente sulla civiltà occidentale sono gli “ariani” Nietzsche e Heidegger. Per non cadere nel ridicolo, agli intellettuali di origine ebraica che partecipano al “complotto” nichilista si deve pertanto attribuire un ruolo subalterno e gregario rispetto al “pensiero ariano”. La conferma dell’indirizzo involutivo e nichilistico delle avanguardie contemporanee, ad ogni modo si trova nella tendenziosa definizione di mistica messa avanti dallo stesso Scholem: “La mistica è una ripresa di esperienze mitiche, una ripresa a proposito della quale non può però essere trascurato il fatto che vi è una sostanziale differenza tra un’unità che precede qualsiasi frattura e un’unità che viene ricostruita in un nuovo slancio della coscienza” . In questo passaggio cruciale, ad ogni modo, si rinnova il distacco dei cabalisti dalla dottrina tradizionale. E prende corpo una teologia eretica, di profilo panteistico, che “abbandona il fondamento personalistico del concetto biblico di Dio; pertanto si potrebbe dire che aveva ragione l’autore di quell’aforisma mistico quando diceva che dell’Ens-Sof (o di ciò che con tale nome veniva indicato) non si fa parola nella Bibbia . … Certo è comunque che dalla trasformazione del Dio effettivamente personale della Bibbia in questo En-Sof impersonale, fino alla violenta rottura eretica determinante un autentico dualismo tra l’En-Sof nascosto e il Dio-creatore personale dei testi religiosi, sono stati percorsi tutti gli stadi possibili ” . L’approdo finale di questo percorso è una teologia panteistica, che si è tentati di paragonare alle filosofie del rinascimento magico di Giordano Bruno e di Baruch Spinoza: “Della via dei mistici si potrebbe forse dire che essa non comprende Dio come puro essere e nemmeno come puro divenire, ma come l’unità di tutte le due cose” . A causa della sua (inconsapevole?) ispirazione “mistica” nel senso anzidetto, il marxismo degli epigoni è totalmente estraneo ai valori del messianismo ebraico, che contempla una divinità propizia – il Dio personale che appaga i desideri infiniti del cuore umano, come ha scritto una delle più grandi, autentiche mistiche dell’età moderna, santa Teresa di Lisieux. L’idea di un fine umanistico della produzione è esclusa tassativamente dall’orizzonte marxiano, che coincide con la mitologia tragica intorno alla natura matrigna elaborata dalla Grecia profonda. In ultima analisi, la filosofia di Marx coincide con la filosofia dello Hegel nichilista magistralmente descritto da Alexandre Kojève e, alla fine, con i pensieri dissociati e sconvolti del Nietzsche hegeliano (puntualmente e legittimamente) rivendicato dal surrealista Georges Bataille. La vera e ultima radice dell’ideologia comunista, quindi, è un messianismo interamente rovesciato nell’ebbrezza dionisiaca e nel delirio gnostico, cioè in uno stato d’animo intitolato al non senso e alla dissoluzione . Considerata alla luce dell’opzione tragica per il non senso e la dissoluzione, la filosofia di Marx fa intravedere la causa dell’avversione manifestata continuamente nei riguardi dell’autorità, intesa come attitudine e strumento necessario al conseguimento dei fini convenienti alla persona umana . Osservava Marcel De Corte che tale avversione è causa della deriva dell’uomo verso l’animalità del gregge, verso ciò che Platone definì il grande Animale . Col pretesto di contestare l’oppressione e lo sfruttamento, Marx sostiene addirittura – e lo proclama contro l’evidenza – che il valore delle merci è dato unicamente dal lavoro muscolare necessario a produrle. Non è dunque senza ragione che Freund, nel testo sopra citato, sosteneva che “Marx vede soltanto l’animalità e non l’umanità dell’uomo”. Un errore madornale e inspiegabile, che ha fatto del comunismo quel prevedibile fomite di regresso e di degradazione, che sconcertava e scandalizzava Vilfredo Pareto, incapace di comporre la strampalata teoria con l’indubbia genialità di Marx. Carlo Costamagna, dal suo canto, sosteneva lucidamente che Marx, abbagliato dal pregiudizio meccanicistico, “non tiene conto dello sforzo intellettuale che ha portato alle invenzioni e ai perfezionamenti tecnici, senza i quali gli uomini sarebbero ancora all’età della pietra” e concludeva che, nel sistema di Marx “la condanna del lavoro di qualità è la condanna dell’intelligenza” . L’esperimento di Pol-pot in Cambogia dimostra, a chi legge la storia senza gli occhiali dell’innocentismo contestualizzante, che l’applicazione rigorosa e coerente della teoria materialistica sulla forza – lavoro (teoria inseparabile dall’ideologia di Marx) implica una svalutazione e una feroce persecuzione dell’intelligenza e dell’auctoritas, tali da giustificare la fucilazione degli uomini con gli occhiali (sommariamente classificati e condannati quali lettori e, in definitiva, quali esponenti della cultura umanistica dei borghesi e degli occidentali). Al confine cambogiano dell’ideologia comunista, s’incontra dunque il terrificante sillogismo della fisica sociale (la forza lavoro è solo materiale, l’intelligenza è superflua, dunque fuciliamo i sospetti) che promuove la retrocessione dell’umanità alla barbarie e all’animalità. Il vento della storia, che ha abbattuto il muro di Berlino, sembra dare la ragione a Pareto, a Costamagna e a Freund, mostrando il desolante risultato della sfida comunista all’economia classica (per inciso: chi, oggi, può rammentare, senza ridere, i provocatorî annunci di sorpasso consumistico, lanciati dal fragoroso Nikita Kruscev ai produttori americani durante gli anni Sessanta?) Per inventariare e valutare seriamente i resti dell’ideologia marxiana sopravvissuti alla catastrofe del 1989, occorre, tuttavia, aver chiaro che lo spirito umanistico, sopravvissuto a malgrado l’impegno rivoluzionario e soggiacente al velleitarismo dei consumisti sovietici (alla Kruscev), rappresentava la maschera dei reali princìpi del marxismo profondo, princìpi che sono finalmente messi a nudo dall’analisi di Roberto Calasso. L’ideologia, che tenta di sopravvivere alla fallimentare esperienza sovietica, in definitiva, possiede i caratteri di un naturalismo radicale, animato da quel furore oltre umano (apertamente regressivo, oscurantista e antiumanistico) , che si manifesta nell’anarchismo dei “no-global” o nell’ecologismo estremo, come negli inconsulti attacchi sferrati dai filosofi heideggeriani o neopagani trionfanti nella sinistra di Nichi Vendola e Alfonso Pecoraio Scanio (ad esempio Emanuele Severino, Salvatore Natoli e Umberto Galimberti) contro la tecnologia occidentale. La gnosi regressista manifesta la nuova immagine marxista del mondo di cui parlava l’allora Joseph Ratzinger . Ora l’essenza antiumanistica prima che anticristiana della filosofia di Marx è ben visibile attraverso una lettura (aggiornata mediante la penetrante interpretazione di Roberto Calasso) del saggio sulla questione ebraica, scritto da Marx nel 1843 per affermare la necessità di abbattere la fede nel Dio dell’Antico Testamento. In quelle pagine sconcertanti si trova (a ben vedere) la lontana fonte dell’antisemitismo tardo romantico e nazista . Marx, in curiosa sintonia con un suo accanito rivale, l’obliquo progressista Karl Dühring, infatti, anticipa una tesi di Arthur Rosenberg, e sostiene che il dio dell’ebreo è il denaro . Di qui la risoluta proclamazione del carattere antisociale dell’Antico Testamento. Scrive Marx: “Noi riconosciamo dunque nel giudaismo un universale elemento attuale antisociale … il denaro è il geloso dio d’Israele, di fronte al quale nessun altro dio può esistere … Ciò che si trova astrattamente nella religione ebraica, il disprezzo della teoria, dell’arte, della storia, dell’uomo come fine a se stesso, è il reale consapevole punto di partenza, la virtù dell’uomo del denaro” . Lo scenario nel quale si attuerebbe compiutamente la natura perversa (plutocratica) della religione ebraica, secondo Marx, è l’era cristiana: “Il cristianesimo è l’idea sublime del giudaismo, il giudaismo è la piatta applicazione utilitaristica del cristianesimo, ma questa applicazione poteva diventare universale soltanto dopo che il cristianesimo in quanto religione perfetta avesse compiuto teoricamente l’autoestraniazione dell’uomo da sé e dalla natura” . Curiosamente, il corollario del teorema marxiano sul rapporto tra ebraismo e cristianesimo, è il c. d. “cristianesimo tedesco”, intenzione sacrilega (che gli intellettuali nazisti avevano dedotto dall’eresia di Marcione) di separare il Nuovo dall’Antico Testamento per imporre una divinità immaginaria e avventizia, un dio amante ma non creatore, eterno ma labile, buono ma non giusto, generoso ma impotente, benefico ma non remunerativo, insomma un dio radicalmente diverso dal Dio onnipotente e buono, Padre di Gesù Cristo. Marx rappresenta, di conseguenza, il preambolo indispensabile alla perfetta negazione e devastazione dell’ebraismo tradizionale da parte degli ebrei dissidenti: i fondatori della setta dei Dunmeh (gli apostati) e i continuatori dell’opera di Franz Kafka, che attraversarono il Novecento rielaborando e diffondendo i miti e le suggestioni dello gnosticismo . Senza l’approfondimento delle tesi marxiane sulla questione ebraica non è possibile comprendere quel passaggio dell’antisemitismo dalla Russia zarista alla Russia di Stalin, che è stato recentemente documentato da Aleksandr Solženicyn. Il tentativo di far passare Marx nel novero degli scrittori messianici s’inscrive nella biblioteca ideale di quella grossolana mitologia, che i comunisti hanno diffuso (con successo, purtroppo) per trarre in inganno i cristiani di basso profilo culturale e/o dal palato facile. Da un altro punto di vista, l’opera marxiana è una della cause del conflitto che, nell’età contemporanea, affligge e divide le comunità ebraiche, dove i pensieri e i comportamenti dettati dalla teologia della morte di Dio ad Auschwitz si oppongono frontalmente ai pensieri e ai comportamenti stabiliti dall’ortodossia tradizionale. Poco visibile in Italia (benché Elio Toaff abbia deplorato aspramente gli errori diffusi dai teologi della morte di Dio) il conflitto è molto seguito dal pubblico degli Stati Uniti d’America. Nel 1999, ad esempio, un bel film del regista Boaz Yakin, “Il gioco dei rubini”, ha narrato, con accenti drammatici, la storia esemplare del conflitto fatto esplodere in una famiglia tradizionale da una giovane donna, che si allontana dalla fede ortodossa per abbandonarsi al disordine morale suggerito e giustificato dall’ateismo messianico imperversante prima e dopo l’Olocausto. Quasi del tutto inesistenti sono invece le tracce della religione ebraica nella ascendenza di Lenin, che è stata ricostruita soltanto dopo l’apertura (1991) degli archivi sovietici. La discendenza ebraica di Lenin si arresta al bisnonno, Mosko Blanck, un ebreo che all’inizio del XIX secolo si era convertito all’ortodossia per opportunismo, e nel convertirsi (lo ha documentato meticolosamente Robert Service) aveva fatto propri gli stati d’animo e gli atteggiamenti dell’antisemitismo russo . Il nonno materno di Lenin, Alexandr Blank, nel 1824, oltre tutto, sposò una protestante di origine tedesca. In tal modo fu interrotta quella linea materna, che, per antica tradizione, decide la discendenza ebraica. Il padre di Lenin, Ilia Nicolaevic Uljasnov, infine, apparteneva alla piccola nobiltà benestante. Secondo le congetture di Service discendeva dai ciuvasci o dai mordvini, due etnie della regione del Volga, che furono assoggettate dagli zar russi nel XVI secolo. Al riguardo della (presunta) discendenza ebraica di Lenin, Robert Service ha scritto a ragion veduta: “Molti scrittori contemporanei in Russia hanno sostenuto che le origini ebraiche di Lenin condizionarono le sue idee e il suo comportamento, scrittori, questi, che hanno tendenze ideologiche antisemite. Ma nel tentativo di promuovere un programma nazionalistico russo sottolineando le parentele ebraiche di Lenin, omettono di chiarire il semplice fatto che Mosko Blank era nemico dell’ebraismo” . Non per nulla, nelle fonti culturali del giovane Lenin (il grondante “La capanna dello zio Tom”, i classici latini e greci, i c. d. socialisti rurali, Marx, Darwin, Machiavelli, David Ricardo, Engels, Zola) non si trovano tracce che consentano di risalire a tradizioni ebraiche ortodosse o eterodosse. La verità è che l’autentico messianismo ebraico non ha alcun rapporto con i moderni rivoluzionari. A scanso di equivoci intorno alle incontrollate esagerazioni di certo ecumenismo, è necessario rammentare che, dopo l’Incarnazione del Verbo, il messianismo ebraico è una verità incompiuta e velata. Una verità che può tradursi in errore attraverso l’immotivata negazione della novità cristiana. Ma in se stesso, e collocato nel proprio tempo, l’ebraismo ortodosso – cioè l’Antico Testamento – non contiene alcun elemento erroneo. Va detto tuttavia che è sommamente ingiusto oltre che sciocco identificare gli ebrei ortodossi con gli ebrei convertiti al marxismo, apostati e nemici dichiarati dell’autentico ebraismo. Nel frammento autobiografico “Storia di una famiglia ebrea”, ultimato nel 1939, durante la feroce persecuzione nazista, Santa Edith Stein ha affermato coraggiosamente che i nazisti hanno fatto degli ebrei “una spaventosa caricatura”, ma non esclude che “essa sia stata disegnata con sincera convinzione: forse i tratti imitano modelli viventi. Ma l’umanità ebraica è il prodotto del sangue ebraico tout court? I grandi capitalisti, la letteratura saccente, le menti irrequiete che hanno ricoperto ruoli di primo piano nei movimenti rivoluzionari degli ultimi decenni sono gli unici o anche soltanto i più autentici rappresentanti dell’ebraismo? In tutti gli starti del popolo tedesco si trovano persone che lo negano” . A partire da un’apostasia radicale, si sviluppa la rivolta marxiana contro il diritto e contro l’Occidente “borghese”. Nella cultura dell’Occidente, Marx contempla, infatti, il risultato della tradizione che ha inizio dalla rivelazione a Mosé e si compie con l’Incarnazione di Gesù Cristo. L’illuminismo e l’odiata rivoluzione borghese, agli occhi di Marx, non rappresentano la deformazione ma il naturale prodotto dello spirito ebraico e cristiano . Di più: in Marx si trova la puntuale anticipazione dell’impetuoso delirio neonazista (e neodestro) intorno al male americano. Testualmente: “Invero il dominio pratico del giudaismo sul mondo cristiano ha raggiunto nel Nordamerica l’espressione non equivoca, normale del fatto che l’annunzio stesso del Vangelo, la predicazione cristiana, è divenuto un articolo di commercio” . Il rovesciamento dell’ideale messianico si completa nelle pagine che Marx scrive per demolire, insieme con la religione ebraica, il Cristianesimo che ne è “la massima espressione”. In quelle pagine, infatti, Marx inventa ed esibisce un collegamento tra l’egoismo e il bisogno pratico e ne indica la causa religiosa: “Qual era in sé e per sé il fondamento della religione ebraica? Il bisogno pratico, l’egoismo. Il monoteismo dell’ebreo è perciò, nella realtà, il politeismo dei molti bisogni, un politeismo che persino della latrina fa un oggetto della legge divina” . Lo storico Robert Conquest ha dimostrato, infine, che l’ideologia marxiana, oltre al resto, giustificava a priori l’antisemitismo introdotto da Stalin a partire dal biennio 1942-1943 . Conquest ricorda che Stalin sostenne sempre di perseguitare gli ebrei non in quanto tali, ma perché legati a organizzazioni ostili all’Unione sovietica come il bund socialdemocratico tedesco, i centri religiosi e cosmopoliti, l’organizzazione sionista, le associazioni americano-israelite . Questo distinguo non impedì tuttavia l’ideazione di un vero e proprio piano di sterminio, che fu iniziato nel 1952, con l’assassinio di tutti i più importanti scrittori in lingua yiddish . Solo la morte di Stalin arrestò il piano criminale. Il fatto è che la via di liberazione (apostasia) dall’ebraismo e dal cristianesimo, indicata concordemente da comunisti, anarchici , “iniziati” di varia risma e nazisti, deve seguire la cometa dell’ateismo fanatico, quell’ateismo “profondo” che è stato abilmente occultato dietro la figura del razionalismo illuministico. Ora il nodo perverso che unisce le contrarie apostasie intitolate al nichilismo è svelato da Furio Jesi, l’esploratore delle destre esoteriche, che ha rivendicato (in sintonia con Taubes) “la coincidenza fra l’apparato mitologico” dei neopagani antisemiti e il qabbalismo eterodosso di Yitzachàq Luria . La parabola della cometa illuministica, infatti, coincide con la parabola dell’ateismo neopagano, finalizzato a colpire l’umanesimo cristiano e il cuore ancora (e malgrado tutto) umanistico della modernità, dove si attua la convivenza di religione, politica, scienza, tecnologia ed economia . In un fondamentale saggio, il gesuita Florido Giantulli ha appunto dimostrato che tale ateismo coincide con l’integralismo naturalistico della massoneria . Non è dunque per un caso, che l’ideologia di Marx, dopo Marx assume l’aspetto equivoco della c. d. economia del dono (teorizzata dal nichilista Georges Bataille) e/o quello conturbante della teologia capovolta di Jacob Taubes, un autore che rivendica l’intuizione dei nazisti, che, rielaborando l’eresia di Marcione, hanno prodotto il “cristianesimo tedesco”. Tributaria di Benjamin, la teoria di Taubes, che allude ad un antichissimo fondamento pagano soggiacente all’ebraismo, costituisce l’ultimo tassello del mosaico, che rappresenta l’origine spuria – non ebraica e non cristiana – dell’ideologia moderna. Per riciclare quello che rimane del marxismo “dopo Marx”, cioè il furibondo stato d’animo anarchico e nichilistico, Taubes cerca, infatti sostegno nell’esperienza gnostica del mondo e perciò rammenta che nel linguaggio dell’eresia, cosmo vuol dire anche ordine e legge, “ma il segno che questi vocaboli possiedono in greco viene invertito. L’ordine diventa l’ordinamento rigido e ostile, la legge diventa la legislazione tirannica e malvagia. … Il limite che nello schema cosmologico antico era garante dell’ordine armonico, nell’esperienza gnostica diventa la barriera esteriore che bisogna superare”. Di qui il perfetto ribaltamento della dottrina della salvezza: “Il concetto di Aldilà nel linguaggio gnostico possiede un significato evidente. L’Aldilà è il luogo del Dio oltremondano, che è concepito come un contro-principio rispetto al mondo. I predicati gnostici di Dio – inconoscibile, innominabile, indicibile, illimitato, non esistente ecc. – sono predicati negativi. Devono essere intesi come negazione del mondo e determinano polemicamente l’opposizione del Dio oltremondano nei confronti del mondo” . Dall’irosa negazione del mondo da parte di Taubes traspare, quasi in filigrana, il disprezzo nazista per il Decalogo, e la tendenza a ridurlo al rango di morale degli schiavi. Considerata questa curiosa trasparenza, non stupisce più il fatto che Taubes (nel saggio sulla teologia politica di san Paolo) proponga il recupero, da parte dei movimenti rivoluzionari d’età postmoderna, movimenti anarchici e surrealisti, di quella dottrina antinomica di Marcione, che costituiva il nucleo fondamentale del neopaganesimo e del nazismo esoterico. Di qui la giustificazione della tesi di Gianandrea Torre, il quale afferma che “nell’antisemitismo novecentesco è possibile scorgere in profondità tratti comuni con una mistica ebraica eterodossa (quella che passando per Yitzachaq Luria sfocia in Sabbetay Zevì e Jacob Frank)” . Il riconoscimento dell’intenzione neopagana di un cabalista come Taubes si dimostra giustificata, posto che il tema fondamentale del suo maestro Marcione, la santità del serpente, fu ripreso, alla lettera, proprio dall’imperatore neopagano per antonomasia, Giuliano. Nel “Discorso contro i Galilei”, l’Apostata dichiara, infatti, che “il serpente fu piuttosto il benefattore, che non il nemico del genere umano” . Nel “dio” antitetico al Creatore e Signore del cielo e della terra – il dio alieno degli gnostici, dei neopagani, dei cabalisti e dei nazisti – l’apostata apprezzava l’empia figura di un calunniatore della creazione e della legge che la governa . Se in questa dottrina non si scorge il segno della folle inversione del messianismo ebraico e della sinistra parodia del Cristianesimo, non sarà mai possibile avere accesso alla comprensione della natura degli errori e degli orrori che hanno insanguinato il Novecento.