La Parola ha creato il mondo (“Iddio disse “Sia la luce”, e la luce fu” scrive la Genesi). Le parole lo cambiano, lo modificano. Le parole cambiano le nostre percezioni, i nostri giudizi, le nostre credenze, alla lunga i nostri valori. Le parole non sono neutre, neppure quando lo sembrano: c’è sempre un portato, un significato che spesso è implicito, non percepito, inavvertito. Alcune parole sono veleno in uno zuccherino. 1984 di George Orwell lo dimostra con estrema chiarezza: per dominare il mondo occorre dominare il significato delle parole. L’aveva capito, ancora prima, Lewis Carrol: “La questione è”, disse Alice, “se si può dare alle parole tanti significati diversi…”. “La questione è”, ripeté Humpty Dumpty, “chi è che comanda”.
La manipolazione delle parole e la manipolazione con le parole è una della specialità dei nostri avversari (molti sono convinti che siano ispirati dall’Avversario, il signore della menzogna) e il loro impegno in questa manipolazione, che spesso diventa falsificazione, è sotto gli occhi di tutti. Ma non tutti lo vedono. E la fabbrica delle parole falsificanti, delle parole-trappola, delle parole avvelenate è sempre attiva.
D’altronde, “loro” si sono impossessati di tutte le “agenzie datrici di senso”: scuole, università, media cartacei, televisivi e su internet, case editrici. È facile, per “loro” inventarsi parole o modificare il significato di quelle esistenti per poi trasmetterle, diffonderle, farle accettare e cambiare le mentalità collettive, la percezione delle cose. Facciamo un esempio: i termini “sodomita” e “gay” trasmettono sentimenti e valori diversi. “Sodomita” trasferisce, con tutta la grave severità biblica, un’implicita disapprovazione, se non una condanna morale e sociale. “Gay” trasmette, anche per la leggerezza linguistica e fonetica, un valore quasi gioioso, sicuramente simpatizzante.
A ciò si aggiunge la “moda verbale”, che è una forma di pigrizia mentale collettiva. Tutti usiamo, per comodità, le parole che tutti usano. È una forma di conformismo, di pappagallismo che serve ad amplificare l’uso delle parole-trappola, a diffonderle, a insinuare il veleno ideologico in tutti noi. Oltretutto il loro uso, e abuso, ci qualificano come “informati” e “progressisti”.
Come la mamma degli imbecilli, anche quella delle parole avvelenate è sempre incinta. Il sistema che ci governa, per manipolarci e ingannarci meglio, ne sforna di continuo, tenendo vive quelle già esistenti che devono continuare il loro sporco lavoro. Per essere avvertiti e attenti, vale la pena puntare l’attenzione su alcune di esse.
Sostenibile (con il suo sostantivo sostenibilità). È ormai un evergreen da anni, presente ovunque, invasivo, fastidioso, ripetuto, ricattatorio. È nei discorsi dei politici, degli amministratori locali, sulle bocche degli imprenditori “illuminati” nel descrivere i loro metodi di produzione. Persino di bravi contadini che dovrebbero essere, per loro natura, lontani da simili cretinismi ideologici. Tutto è ormai “sostenibile” nella pubblicità: le auto, i vestiti, i siti di rivendita di oggetti usati che sono la preoccupante spia di una miseria incipiente imbellettata dalle menzogne della “decrescita felice”. Sostenibile è la pesca, sostenibili le mele di una certa marca, sostenibili i detersivi, sostenibili persino i traghetti (vanno a vela?).
Scrive Marcello Veneziani nel suo ultimo libro, Scontenti: “…la strategia pubblicitaria delle grandi aziende alimentari o cosmetiche non vanta più le qualità dei prodotti ma il fatto che siano ecosostenibili; non contano i gusti alimentari o la resa, ma la buona coscienza ecologia.” È così: non dobbiamo più acquistare un prodotto perché ci piace, è bello, utile o ha un buon rapporto qualità/prezzo. No: il ricatto della dittatura verde ci impone di acquistare un prodotto o un servizio perché “sostenibile”. Persino una banca utilizza questo logoro e in-significante aggettivo: “Un paese migliore: più sostenibile, più competitivo, più consapevole”. Di grazia, consapevole di cosa? A Milano si sono addirittura inventati un “Eco-teatro. Artisti per un mondo sostenibile”.
La perdita del senso del ridicolo è il primo stadio della demenza. Che poi, pensiamoci bene, l’aggettivo “sostenibile” non significa nulla, proprio nulla, ma insinua nelle nostre menti una serie di falsificazioni collegate, implicite, inavvertite e avvelenanti: il mondo è in pericolo, la colpa è dell’uomo, dobbiamo ridurre le emissioni di CO2, dobbiamo essere sostenibili, dobbiamo comprare prodotti e servizi sostenibili (chi li certifica come tali?).
Diffidiamo dei marchi, dei politici, degli opinion leader che fanno uso di questo inappropriato, irritante aggettivo. E, già che ci siamo, diffidiamo dell’uso ideologico del collegato aggettivo circolare, una sciocchezzaseriferita all’economia: è un altro falso, perché nessuna economia potrà mai essere circolare. Ma suona bene e piace agli attivisti ecologisti da salotto, quelli che giustificano ed esaltano i vandali verdi che, nei musei del mondo, danneggiano i capolavori d’arte, esprimendo tutto l’odio ecologista per il Bello creato dall’opera dell’uomo (la distruzione dei nostri splenditi paesaggi con le pale eoliche e i “campi” fotovoltaici sono un altro esempio di questo odio).
Rimaniamo nell’ambito del linguaggio totalitario della setta ecologista, cioè di coloro che, con le buone o con le cattive, vogliono cambiare i nostri stili di vita e ridurre drasticamente il nostro benessere: sempre più spesso sentiamo sindaci rosso-verdi propagandare la mobilità dolce, intesa nel senso del muoversi in bicicletta o a piedi.
Di nuovo un aggettivo falso e mistificatorio: provate a fare chilometri in bici in un freddissimo mattino invernale della pianura padana, o in un torrido pomeriggio estivo. Eppure, le città sgovernate da costoro vengono sconciate da decine di chilometri di inutili piste ciclabili, che tolgono spazio ai parcheggi, allo scorrimento del traffico, ai pedoni. Ma il mezzo piace alla gente che piace, piace ai radical-chic, piace ai ricchi abitanti dei centri storici che non devono usare l’auto per andare al lavoro e che votano convintamente a sinistra.
Tutti i milanesi, ad esempio, conoscono la figura della sciuretta che pedala svagata scampanellando sui marciapiedi del centro (eh, ma loro possono) con la Repubblica nel cestino e magari la provocatoria scritta no oil. Quello stesso centro città che il sindaco rosso-verde ha vietato ai deplorevoli (direbbe Hillary Clinton) abitanti della periferia e dell’hinterland, quelli che votano per le destre, perché le loro auto sono, secondo la setta verde, ecologicamente inquinanti e puzzolenti. Ben più atroce e disumano è l’abbinamento “dolce morte” per indicare, con un crudele eufemismo, l’eutanasia. C’è della malvagità profonda, della perversione morale nell’invenzione e nell’uso di questa orribile espressione. Chi, consapevolmente, la usa si rende complice di una mostruosità.
Passiamo a un altro termine, decisamente di moda, applicato a tutto e a tutti, usato e abusato nei tiggì, dagli opinion leader, dai sociologi da salotto: fragile. Una volta, l’aggettivo veniva usato solo per gli imballaggi e la cristalleria. Oggi siamo tutti, per un verso o per l’altro, fragili. È fragile l’ultrasessantacinquenne inseguito dai vaccinari invasati per inoculargli la terza, la quarta, la quinta dose e così via all’infinito. È fragile il ragazzone afro-musulmano con sneaker di marca e telefonino di ultima generazione che sbarca da una nave-taxi delle ONG (vedi sotto per ONG) deciso ad approfittare del nostro welfare e del lassismo delle nostre leggi e della nostra magistratura. Tanto, ci sono oneste cooperative come quelle della benemerita famigliola Soumahoro ad occuparsi di lui, con i nostri soldi.
Fragili sono i vecchietti delle RSA a cui, con la scusa del Covid, è stato impedito di vedere i loro cari per anni. Fragili sono quei malati da cui la crudeltà ideologica della dittatura sanitaria ha ordinato ai medici cosiddetti no-vax e ora riammessi in servizio di tenersi lontano, senza che questa decisione abbia alcuna giustificazione scientifica. Fragile è la ragazzina strafatta di alcol e di droga dei rave-party. Fragili sono i territori, resi pericolosi e franosi dalla mancata cura degli amministratori locali. Viviamo in un mondo dominato dalla “fragilità” che diventa la giustificazione, l’alibi, la scusante per tutto, irresponsabilità compresa.
“Fragili” ha sostituito il termine “peccatori” nella postconciliare neo-lingua bergogliese. Nella discutibile e assai discussa Amoris Laetitia, che secondo molti presenta tratti di rottura con la Tradizione rivelata e la Dottrina di sempre, si legge che la: “Chiesa deve accompagnare con attenzione e premura i suoi figli più fragili”. Già, per la chiesa di Bergoglio non ci sono più i peccatori, ma solo “fragili”.
Rimaniamo nell’ambito dell’ecclesialese modernista e postconciliare con un’altra parola tanto, tanto di moda tra chierici e laici della chiesa bergogliana: cammino. No, nulla a che vedere con il titolo di un aureo libretto di massime spirituali pubblicato nel lontano 1934 da San Josemaria Escrivá de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei. Il “cammino” contemporaneo è un tic linguistico che vuole esprime una “chiesa in movimento”, una “chiesa in uscita”, come dice Bergoglio (da dove e per dove?), una chiesa “agitata”.
Nelle omelie dei pretonzoli progressisti che non solo la talare, ma nemmeno il clergyman si mettono più, tutto è “cammino”: di conversione, di perdono, di accoglienza e così via. Nulla da spartire con la Chiesa pellegrina, la Chiesa militante della Dottrina: il “cammino” di costoro, che non credono più ai Novissimi (non sanno neanche cosa siano), è un cammino verso l’ignoto, un camminare per il camminare. Come quei “pellegrini” (ci sono, ci sono…) a Santiago di Compostela che compiono il cammino non come atto di devozione e venerazione, ma “per trovare se stessi”. Molto antropocentrismo conciliare e postconciliare. Molto psicologismo. Molto new age. Molto alla moda.
Poi ci sono gli eretici vescovi tedeschi che, nel silenzio (assenso?) di Bergoglio, si sono inventati il “cammino sinodale” verso una “nuova chiesa” che accetta il divorzio, l’aborto, vuole le donne-prete, i preti sposati, il matrimonio in chiesa degli omossessuali, la loro ammissione al sacerdozio, la negazione dell’Eucarestia: non più Transustanziazione ma “transignificazione”, qualunque cosa voglia dire.
“Cammino” lo troviamo ovunque nella chiesa modernista: persino in una delle tante cretinissime canzonette che hanno scacciato il gregoriano e il polifonico nella “nuova messa”: “Il tuo popppolo in cammiiinoo…”.
ONG: come quasi tutti (ma non tutti) sanno, sta per Organizzazione non governativa. Ce ne sono di diversi tipi, non tutti disprezzabili. Ma quelle più citate sono le ONG “per il sostegno ai migranti” e soprattutto quelle dedite al trasbordo e al trasporto in Italia dei clandestini. Sostano ai limiti delle aree territoriali della Libia e della Tunisia, in attesa dei barconi stracarichi che partono da quelle coste.
Come è stato più volte dimostrato, spessissimo “prendono appuntamento” con gli scafisti. Il settimanale Panorama ha definito le imbarcazioni delle ONG “navi pirata”. Le loro navi sono sostanzialmente dei taxi del mare. Queste ONG sono scafisti di complemento. Dispongono di navi che costano milioni di euri. Sono, attualmente, ben 18 queste imbarcazioni che navigano nel Mediterraneo dedite al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Non hanno la certificazione per il soccorso. Sono tutte navi “da diporto o di appoggio”. Tenerle in mare costa decine di migliaia di euro al giorno. Non è vero che i loro equipaggi sono composti da volontari: sono professionisti ben pagati.
Non solo: queste ONG hanno a disposizioni tre aerei privati, un call-center, sedi di supporto, studi di avvocati per aggirare le leggi, esperti di marketing e di pubbliche relazioni. È vano chiedersi “chi li paga?”. I loro bilanci non sono trasparenti. Sappiamo che ricevono fondi da oligarchi sovversivi come George Soros, talvolta dai governi, come quello tedesco o della regione catalana. Spesso anche da chiese cristiane, come quella protestante tedesca e sembra anche, purtroppo, da quella cattolica. D’altronde l’isterica complicità di Bergoglio con i clandestini invasori è ben nota. Tutte queste ONG sono ovviamente intrise del veleno progressista e di ultra-sinistra e non hanno timore a manifestarlo.
Eppure, grazie alla santificazione operata dai media di regime, dai conduttori di talk show, da politici e opinion leader, molti connazionali quando sentono il termine ONG pensano a novelli Buon Samaritani, alle brave Dame di Carità che in tempi preconciliari soccorrevano gli indigenti. Non solo trasbordo dei clandestini: le ONG sono riuscite anche, con un classico “trasbordo ideologico inavvertito”, a trasmettere “alle masse”, come dicevano i marxisti un tempo, una percezione positiva della loro azione.
Un esempio pervertente di marketing che maschera la realtà: quella di organizzazioni che violano le leggi e si adoperano per la futura (ma non lontana) Grande Sostituzione, per la definitiva distruzione della nostra civiltà bianca e cristiana. ONG è un caso evidente di “parola trappola”. Anche i recenti scandali giudiziari nell’Unione Europea che hanno convolto, ma guarda un po’, esponenti della sinistra hanno dimostrato che c’è del marcio, nelle ONG.
Restiamo in argomento, ché l’argomento dell’immigrazione selvaggia è un brodo di coltura per i virus della falsificazione linguistica e semantica. Prendiamo “migranti”: richiama “emigranti”, i nostri connazionali che, a milioni, dopo l’unità d’Italia furono costretti a emigrare nelle Americhe. Richiama le vecchie fotografie dei ponti delle navi con centinaia di nostri connazionali. Richiama le valigie di cartone, i visi scavati dei braccianti del Sud emigrati al Nord per diventare classe operaia. Ma erano mano d’opera richiesta, invitata con bandi, selezionata all’arrivo, disponibile a lavori faticosi, che non gravava sui bilanci dei paesi ospitanti, anzi, costruiva benessere. “Migranti” richiama questa emigrazione, ma è un falso richiamo. I nostri connazionali non entravano negli altri paesi sfidando le leggi, pretendendo di essere mantenuti, spesso commettendo reati, coltivando astio e odio per gli autoctoni manifestati con improvvise violenze, distruzione di auto e negozi, attacchi alla polizia.
Egualmente falsa è la definizione di profughi. Profugo è chi fugge dalla guerra. Sono pochissimi i casi di questo genere tra i clandestini. I primi tre paesi di provenienza di costoro sono l’Egitto, la Tunisia e il Bangladesh. Nessuno di questi è afflitto da guerre o comunque in situazioni di conflitto. Anzi, soprattutto l’Egitto e la Tunisia sono paesi con discreti tassi di sviluppo. Costoro sono, quando va bene, “migranti economici”. Però i media di regime continuano ad usare “profughi”, perché impietosisce maggiormente un’opinione pubblica in parte incline, già di suo, al “buonismo migratorio”. Salvo poi lamentarsi della crescente criminalità nelle strade, degli stupri, delle rapine, delle risse tra bande imputabile in gran parte agli elementi stranieri.
Anche il termine naufraghi è altrettanto falso. Quelli sbarcati dalle ricattatrici (“se non mi fai attraccare ti denuncio”) “navi-pirata” delle ONG nei nostri porti non sono per nulla “naufraghi”. Sono “trasbordati” dai mezzi degli scafisti a quelli delle ONG al limite delle acque territoriali libiche, spesso, come si è già detto, previ “accordi telefonici”. E se vi sono casi di veri naufraghi, è dato dal fatto che i taxi del mare “umanitari” che pattugliano il Mediterraneo rappresentano un cosiddetto pull factor, ovverosia un fattore d’attrazione per gli scafisti.
Uno delle più irritanti e più trendy parole-trappola è inclusivo, spesso abbinato al tema dell’immigrazione, ma non solo. È un termine che, non volendo dire niente, si abbina con tutto. Rappresenta la quintessenza del buonismo più becero e svaccato. In un grande, caldo abbraccio suicidario, dobbiamo “includere” tutti: clandestini, omosessuali, “transgender” (una volta semplicemente “trans”), frequentatori di rave party e così via.
Ma “inclusiva” deve essere anche la scrittura: ecco che allora in documenti di istituzioni che dovrebbero essere educative, come il Miur (ma adesso ha cambiato nome) e alcune università, dilaga il cosiddetto schwa: “ə”, simbolo che, nella costruzione ideologica femminista, omosessualista e genderista, dovrebbe significare, posto a fine parola, la neutralità della parola stessa e anche il rifiuto del sistema “binario”, come lo chiamano loro, maschile/femminile in nome dell’inclusività di “altri generi”, generando frasi insensate tipo “Carə studentə”.
Per fortuna un simile obbrobrio, ideologico e linguistico, ha sollevato l’indignazione di uno dei più noti linguisti italiani, Massimo Arcangeli, che ha lanciato una petizione perché il Ministero e le istituzioni accademiche recedano, per il futuro, da simili follie, raccogliendo l’adesione di più di 15.000 firme, persino quelle di intellettuali e cattedratici di sinistra. Ovviamente il violento mondo degli amici dello “schwa” non ha gradito, e il professor Arcangeli ha ricevuto molte minacce di morte.
Anche la banca a cui abbiamo già accennato per l’uso di sostenibile ha usato, in un altro slogan, il deprecabile aggettivo: “Un Paese migliore: più inclusivo, più connesso, più competitivo”. Che cosa voglia dire quel “inclusivo” piazzato lì bisognerebbe chiederlo alla loro Direzione Marketing. L’aggettivo comunque dilaga in molte aziende, specie se multinazionali, dove l’ideologia della diversity (altra parola avvelenata specializzata per i contesti aziendali) imposta ai dipendenti con formazione obbligatoria e assurdi “codici di condotta” aziendali ovviamente comporta anche la consueta, bolsa retorica sulla “inclusività”.
Il termine collaborazionista è stato caricato di un alone semantico negativo e di una implicita condanna politica morale dai “liberatori” dell’ultimo conflitto mondiale, per la perversa logica che chi vince determina il significato delle parole. Non è dunque casuale che i servizi di comunicazione del regime ucraino lo usino, seguiti dai servili media atlantisti europei, per indicare quei russi che vogliono rimanere russi, nonostante le persecuzioni della dittatura di Kiev nata dal golpe di Maidan del 2014.
Infatti, il termine “collaborazionista” è stato riesumato dai media atlantisti e russofobi per giustificare le brutalità del regime ucraino contro gli abitanti russofoni, o meglio russi tout court, che hanno collaborato o magari espresso una più che giustificata simpatia per gli “invasori” russi che hanno ripristinato il loro diritto di parlare russo, leggere libri e stampa russa, frequentare scuole che insegnino in russo.
Nei territori rioccupati delle milizie ucraine si è aperta una feroce caccia al “collaborazionista” da parte di un regime “democratico” che ha messo fuori legge una dozzina di partiti, chiuso giornali e televisioni (ancora prima che il conflitto scoppiasse), assassinato deputati, intellettuali, giornalisti, semplici cittadini. L’elenco di questi crimini compiuti negli anni immediatamente successivi al golpe di Maidan del 2014 è dettagliato, tra l’altro, nel documentato libro di Nicolai Lilin Ucraina la vera storia. In questi mesi di conflitto, quando le truppe ucraine “liberano” un territorio sono immediatamente seguite dalle milizie nazionaliste e dalla polizia politica che aprono una furibonda e feroce “caccia al collaborazionista”.
Le uccisioni dei presunti, cosiddetti “collaborazionisti” da parte degli ucraini sono peraltro cancellate dalla censura euroatlantica che domina i nostri media. Poiché canali informativi russi come Russia Today e Sputnik sono stati vietati dalla democratica Unione Europea, le notizie di questi massacri di russi, che volevano vivere da russi, sono spesso oscurate. Ma qualcosa filtra: la foto, comparsa sul web e persino in un telegiornale RAI, di due “collaborazionisti” legati ai pali (in attesa di esecuzione?), la notizia della fucilazione a Kherson di 39 “attivisti pro-russi”, l’arresto, sempre a Kherson, del vicesindaco Vladimir Pepel, reo di aver collaborato con i russi. Ma di quanti altri crimini non abbiamo avuto notizia?
Gianandrea Gaiani, uno dei massimi esperti di strategia italiani, direttore dell’autorevole rivista Analisi Difesa, esperto degli eventi bellici in corso, ha così documentato: “Di fatto i russi hanno evacuato la popolazione, fedele a Mosca, per sottrarla ai bombardamenti ucraini e soprattutto alle feroci rappresaglie che le milizie nazionaliste inserite nei servizi di sicurezza di Kiev hanno perpetrato (nel silenzio dei media occidentali) nei territori riconquistati dall’esercito ucraino”.
È in corso un attacco del regime di Kiev alla libertà religiosa: la persecuzione contro la Chiesa Ortodossa legata al Patriarcato di Mosca e da sempre maggioritaria in Ucraina, nonostante uno scisma voluto dal regime che ha creato due inesistenti “chiese ucraine”. Cattedrali e monasteri perquisiti e occupati, sacerdoti brutalizzati, fedeli minacciati dai miliziani del regime. Una drammatica testimonianza è stata riportata anche da Ricognizioni.
Reale è il rischio di una messa fuorilegge della Chiesa Ortodossa in Ucraina. Neppure il regime sovietico, nonostante le persecuzioni, osò tanto. L’accusa: quella di essere “collaborazionisti di Mosca”. Ecco una falsificante “parola-clava”: se sei un “collaborazionista” la tua condanna è già implicita nella definizione.
Recentemente, dimostrando una bieca russofobia e nessun rispetto per l’arte, la musica e gli spettatori, gli organizzatori di un concerto al teatro La Fenice di Venezia hanno cancellato l’esibizione di una pianista di cittadinanza ucraina ma russofona, Valentina Lisitsa, accusata di essere a favore di Putin e di aver suonato a Mariupol, città ucraina abitata da russi e liberata dalle truppe russe. Tale Gerardo D’Amico, giornalista in RAI, nell’esultare su Twitter per la censura, ha accusato la concertista di fama internazionale di “collaborazionismo”. Appunto. A un ballerino ucraino, Serghei Polunin, anche lui filorusso, è stato impedito di esibirsi al teatro Arcimboldi di Milano. Ci si dimentica troppo spesso che metà dei cittadini ucraini sono russofoni e che il partito filorusso, messo fuorilegge dal dittatore Zelensky con annessa feroce persecuzione dei suoi deputati, amministratori e aderenti, era il secondo partito di quel paese.
Possiamo fare qualcosa contro questa pervertente dittatura linguistica? Sì, qualcosa possiamo fare. Innanzi tutto, essere consapevoli della sua esistenza e della sua azione e rendere consapevoli chi ci sta vicino. Poi controllare l’uso di queste parole (oltre a quelle citate, ve ne sono molte altre), non cedere alla pigrizia, non lasciarsi andare alla corrente del conformismo liberal-sovversivo. Usiamo le parole giuste, evitiamo l’ipocrisia delle parole falsificanti. Un uomo è un uomo e una donna è una donna. Non ci sono alias. La nostra azione deve partire, innanzi tutto, dal riconoscimento e dal rispetto della realtà. L’uso di queste parole mistificanti è una trappola nascosta, una resa a chi vuole imporci di cambiare la nostra cultura, la nostra mentalità e i nostri valori. E, soprattutto, non dimentichiamoci del severo monito di Nicolás Gómez Dávila: “Chi accetta il lessico del nemico si arrende senza saperlo”.
1 commento su “<strong>Il lessico del nemico & le parole avvelenate</strong>”
Anni fa un mio amico contrattò col Signore la guarigione della moglie, se guarirà farò il Cammino di Santiago, e avviò le procedure necessarie. La moglie morì ma lui fece ugualmente il Cammino. A nulla valsero le mie raccomandazioni, prega, confessati, etc. Quando arrivi riconfessati, la Messa, le Benedizioni…. Tuttavia arrivato al Santuario piombò in ginocchio e pianse per mezz’ora. Poi niente.
” Ma cosa sei andato a fare?”
” Per ritrovare mia moglie?”
Intendeva dire per trovare una sostituta.
Poi è stato peggio di prima.
c.v.d