Entriamo oggi nel vivo dell’argomento anziani che abbiamo inaugurato la settimana scorsa, e parliamo con chi, ogni giorno, vive a contatto con loro toccando con mano quali e quante siano le mancanze umane e spirituali che rendono così dura l’ultima fase della vita anche all’interno degli ambienti sanitario-assistenziali.
La signora Elena è un’infermiera professionale che lavora in un ospedale piemontese. È testimone di come la morte viene medicalizzata e la vita, specie quella sovrannaturale, del tutto trascurata.
Signora Elena, da quanto tempo lavora in questo ambito?
Ho maturato dieci anni di lavoro oltre ai tre di università.
Perché ha scelto di diventare infermiera?
È stata una scelta che una volta avrei definito casuale. Ma in realtà, Dio ci vedeva meglio di me, come sempre succede. Io volevo diventare medico, studiare infettivologia e tossicologia, e andare in un ospedale in Uganda per curare l’ebola; poi, per pochissimo, non sono entrata al test di medicina e, come spesso succede, ho pensato di frequentare comunque un’università non estranea al mondo sanitario per poi ritentare il test l’anno successivo, ma non è andata così….
Durante quell’anno il Signore mi fece capire che il medico passava poco tempo insieme al paziente e invece la figura che più stava con lui e si prendeva cura di lui era l’infermiere. Mi mise dinnanzi ragazzi che davvero volevano fare gli infermieri, che credevano in quello che facevano, insegnanti eticamente impegnati che mi hanno fatto capire non solo il valore della vita in sé, ma anche del paziente in quanto persona e non in quanto portatore di una certa malattia. Ricordo il pianto che feci alla fine del primo anno quando, nell’ultima sua lezione, una docente ci fece vedere Patch Adams: la ringrazierò per tutta la vita.
È contenta della scelta professionale fatta?
Senza alcun dubbio.
Per quale motivo?
Perché ho sempre pensato di non avere “talenti” ed effettivamente ancora oggi non li vedo ma, nonostante in questo lavoro si sia sempre a contatto con la sofferenza, inspiegabilmente dal primo giorno in cui ho messo piede in ospedale (e non c’ero mai stata, nemmeno come paziente) mi sono sentita a casa, ho sentito quella sensazione che qualcuno conoscerà e che è difficile da spiegare: “ecco chi sono, ecco cosa Dio ha pensato per me, ecco come tutte le capacità che ho dentro di me possono essere messe insieme per fare del bene”. Difatti, tutto mi riusciva subito al primo colpo come se l’avessi fatto da sempre…
Però il suo lavoro, in quanto tale, le piace?
Mi piace il senso e l’obbiettivo del mio lavoro, ma non mi piace come siamo obbligati a viverlo oggi.
Lavorando all’interno di un ospedale qual è il più grande limite che vede?
Ce ne sono molti. Uno, sicuramente, è che da quando gli ospedali sono diventati Aziende Ospedaliere al centro di tutto non ci sono più i pazienti, ma il business.
Un altro è vedere persone che lavorano lì per portare a casa uno stipendio a fine mese, ma hanno dimenticato il vero obiettivo di questo lavoro. Questo obiettivo a me lo ha ricordato una collega una notte: eravamo in reparto e dovevamo fare un ricovero dal pronto soccorso, c’erano alcuni problemi organizzativi e così io volevo spostare un paziente per fare un bel lavoro, così anche i colleghi al mattino avrebbero trovato il reparto a posto e non avrebbero dovuto provvedere loro allo spostamento. Lei mi disse: “vedi, tu ragioni per fare un piacere ai colleghi, io penso al bene dei pazienti, e in questo momento il loro bene è riposare, non essere spostati di stanza nel pieno della notte”. Quella frase, come un fulmine a ciel sereno mi trapassò il cuore, e mi accorsi che era vero, cambiò totalmente il mio punto di vista, mi ricordò ciò che stavo dimenticando.
Il vero obiettivo è il bene del paziente, oggi è molto facile dimenticarselo.
A cosa pensa sia dovuto questo cambio di priorità?
Beh, bisognerebbe fare un discorso molto generale e tenere conto di molti fattori. Sicuramente, come ho già detto prima, il fatto di aver trasformato gli ospedali in aziende ha cambiato di molto l’impostazione del lavoro, ma secondo me il motivo fondamentale è la quasi totale mancanza di fede in Gesù. Da quando ci si dimentica che Gesù è Vivo, è la Verità e la Via per arrivare al Cielo; da quando non si pensa più alla Vita eterna; da quando le persone sembra che impieghino tutte le loro forze per negare l’evidenza della bellezza e della verità della nostra fede, il nostro lavoro ha perso quel senso puro e vero che dovrebbe avere. Le persone che sono cattoliche, e lo sono veramente e non a modo a loro, fanno questo lavoro in modo molto diverso. Come anche i pazienti che sono cattolici affrontano la malattia in modo totalmente diverso, diventando Ostie vive su quel letto che per loro diventa il patibolo, un altare. E le vedi diventare sempre più simili a Gesù! Affrontano tutto diversamente, offrono la loro molta sofferenza per la Chiesa, per il mondo, per le persone che nemmeno conoscono, non sanno che cos’è la disperazione e la solitudine perché sanno che Gesù è sempre con loro.
Il malato, in quanto tale, viene visto come un peso laddove non lo si guarda con gli occhi della fede di cui lei giustamente parla?
Molto spesso…
Eppure chi ricopre un certo ruolo – medici, infermieri od operatori che siano – dovrebbe essere stato formato non solo professionalmente, ma anche umanamente…
Sì, bisognerebbe. Ma non è così purtroppo. Ad esempio nella mia università questo aspetto non era considerato quasi per niente, molte di quelle lezioni erano facoltative ed eravamo pochi a seguirle. Manca proprio la formazione etica.
Posso dirle allora che il problema sta davvero alla radice? Se si toglie Cristo dalla società e dalla persona, specie se malata e quindi portatrice di una croce, come ci si può prendere cura dei più deboli?
Non si può. A meno di trattarli come una malattia e non come una persona, ma i pazienti non hanno bisogno di questo.
Bisogna immaginare che ogni letto sia una Croce e tu infermiere, medico, operatore, volontario vicino ad ogni letto sei Maria (o Giovanni) e hai bisogno di tanta Fede, Amore, Fortezza e Coraggio per star lì e non scappare. E come si può imparare questo se non da chi l’ha già fatto, non ha tradito ed è rimasto? Questo è l’unico modo in cui bisognerebbe stare vicino ai pazienti.
Come vive il suo rapporto con i pazienti?
Cerco di stare con loro più tempo possibile, di non andare mai di fretta, di dare importanza alle loro domande e quando posso parlo loro di Gesù, o offro loro l’assistenza del cappellano dell’ospedale. Ma soprattutto prego per loro, quando sono lì e anche quando sono a casa. Li ricordo nella Messa, chiedo a Dio di sostenerli.
Nel suo ospedale, quindi, è garantita un’assistenza spirituale almeno a chi la richiede?
Sì, ci sono 2 sacerdoti all’interno dell’ospedale che fanno visita ai malati se il paziente lo richiede. Ci sono però pochissime persone che richiedono un’assistenza spirituale, la maggior parte non ne vuol sentir parlare!
Durante questi anni di professione, ha visto qualche sacerdote o religioso venire a far visita agli ammalati?
Quasi mai… Mi è capitato qualche volta, solo se il paziente ricoverato è qualcuno di molto impegnato in parrocchia allora il parroco lo viene a trovare, oppure quando è un parente.
A volte le è venuta voglia di mollare tutto?
Negli ultimi mesi ogni giorno…
E perché non lo ha fatto (e sono convinto che non lo farà)?
Lei è un ottimista! Non l’ho ancora fatto perché al momento mi sento chiamata a stare dove sono.
Cosa direbbe ad una sua collega infermiera che si ritrova a vivere il lavoro con la sua stessa angoscia?
Di metter in piedi qualcosa insieme! Il grosso problema, oggi, specie in ambiente cattolico, è che si pensa giustamente alle soluzioni per strappare i bambini dalle grinfie della scuola statale, dove viene loro insegnata qualsiasi nefandezza, ma non si pensa a soluzioni per gli anziani, o più in generale per gli ammalati che si trovano ad aver a che fare con pesanti croci, il più delle volte senza la Grazia di un’assistenza spirituale e di un contorno umano che porti calore, speranza. Credo che per tutti i cattolici di buona volontà impegnati professionalmente nel mio stesso settore sia giunto il momento di provare a esprimere qualche idea concreta per offrire questa possibilità. “Ubi caritas et amor, Deus ibi est”: questo non dobbiamo e non possiamo dimenticarlo.
2 commenti su “Il lavoro con gli anziani: intervista ad un’infermiera – di Cristiano Lugli”
Al momento “giusto” vorrei avere accanto, oltre ai familiari e al sacerdote, un’infermiera così!
Quanto è vero! Triste, anzi tristissimo constatare che la maggior parte degli anziani non prega, non vuole partecipare alla messa, o se lo fa si vede che non è interessato, non cerca conforto in un sacerdote, niente rosari tra le mani.
Io che ho lavorato con loro per 30 anni, mi son sempre chiesta se sono consapevoli di essere di fronte alla morte. Se si chiedono che ne sarà di loro “dopo”. Cosa li aspetta.
Non ho mai capito questa cosa, e davvero mi lascia disorientata. Il fine-vita è così importante. Forse la cosa più importante.
E pensare che sono anziani vecchio stampo, dove la fede e la religiosità erano una tradizione che bene o male tutti seguivano… come sarà la… nuova generazione di anziani?