Il futuro è adesso. “Noi”, un romanzo russo da riscoprire

Si citano spesso i classici 1984 di George Orwell e Il mondo nuovo di Aldous Huxley per esemplificare il tipo di società verso la quale pare ci si stia dirigendo. Meno conosciuto è un romanzo che li precede di molti anni, Noi, di Evgenij Zamjatin, scrittore russo nato nel 1884, ingegnere navale con vocazione letteraria.

Noi, apprendo dall’edizione a mie mani (Voland, 2013), fu scritto tra il 1919 e il 1920. L’opera fu considerata anticomunista, il suo autore negli anni seguenti fu progressivamente ostracizzato e lasciò l’Unione Sovietica nel 1931 per morire a Parigi nel 1937.

Difficile raccontarne la trama nei particolari e tutto sommato superfluo. Non è nell’intreccio che si trova principalmente il fascino del racconto. Può anche essere che questo mio giudizio sia influenzato dall’interesse soverchiante per le numerose considerazioni ”filosofiche” così straordinariamente assonanti con l’ideologia professata, non più in modo sotterraneo ormai, in certi consessi internazionali dove si pretende di decidere i destini del mondo.

Comunque sia ecco qui come si potrebbe riassumere: in una società del futuro, lo stato unico comandato dal benefattore, nel quale tutti gli abitanti sono unità riconoscibili attraverso una sigla alfa numerica, il matematico D-503, costruttore dell’Integrale, comincia a provare emozioni, ad avere dubbi, esitazioni che confessa a un suo diario, addirittura si innamora. Cioè, secondo le convinzioni della società nella quale vive, si ammala. Ma alla fine guarirà.

Cosa è l’Integrale? Il narratore diarista lo spiega all’inizio del libro, riportando quanto scritto dal “Giornale di Stato”: “Di qui a 120 giorni verrà ultimata la costruzione dell’Integrale. Si approssima il grande, storico momento in cui il primo Integrale si librerà nello spazio dell’Universo. Mille anni fa i vostri eroici avi assoggettarono al potere dello Stato Unico l’intero globo terrestre. Vi apprestate a un’impresa ancor più gloriosa: grazie all’Integrale di vetro, elettrico e ignivomo, integrerete l’infinita equazione dell’universo. Vi apprestate ad assoggettare al nobile giogo della ragione esseri ignoti che dimorano su altri pianeti e, forse, ancora si trovano allo stato brado di libertà. Se costoro non comprenderanno che rechiamo loro la felicità matematicamente infallibile, nostro dovere è: costringerli a essere felici. Ma, prima delle armi, sperimenteremo la parola.”

La libertà è la peggiore delle sorti possibili nello stato unico. D-503 annota nel suo diario: “Mi è capitato di leggere e sentire parecchie cose improbabili sui tempi in cui gli uomini vivevano in stato di libertà, ossia allo stato brado e disorganizzato. Ma la cosa che mi è sempre sembrata più improbabile è appunto come l’autorità statale di allora – pur se allo stato embrionale – potesse permettere che gli uomini vivessero senza almeno un simulacro delle nostre Tavole della Legge: senza il passeggio obbligatorio, senza una precisa regolamentazione dei tempi per l’assunzione del cibo, senza disciplina quanto a orari di risveglio e coricamento; secondo quanto sostengono alcuni storici, parrebbe perfino che a quei tempi le luci fossero accese tutta la notte nelle strade, che si andasse in giro tutta la notte, a piedi o con un mezzo”.

“Ecco: questo proprio non riesco a concepirlo. Per quanto il loro senno fosse limitato, avrebbero comunque dovuto comprendere che una vita del genere rappresentava un vero e proprio omicidio globale, solo commesso lentamente, giorno dopo giorno. Lo stato (per senso d’umanità) vietava di uccidere il singolo individuo mentre non vietava di uccidere per metà milioni di individui. Uccidere il singolo, ossia sottrarre 50 anni alla somma delle durate delle vite umane, era da criminali, ma sottrarle 50 milioni di anni forse non lo era? Beh, davvero ridicolo! Presso di noi, qualsiasi unità di dieci anni è in grado di trovare in mezzo minuto la soluzione a questo problema matematico morale; presso di loro, invece, tutti i vari Kant messi insieme non lo erano (perché nessuno dei Kant si eraingegnato di approntare un sistema di etica scientifica, ossia basata sulla sottrazione, l’addizione, la divisione e la moltiplicazione).”  

Nello Stato Unico le tavole della Legge riempiono di prescrizioni e divieti tutti gli spazi del vivere.  Per esempio muoversi liberamente non si può. Nessuno lì ha mai oltrepassato i confini del Muro Verde, oltre i quali termina l’autorità dello stato unico e si stende un universo sconosciuto dove forse ancora vivono esseri umani allo stato brado (cioè, liberi). Del resto, annota l’ingegner D-503, “la storia umana, per quanto ci è dato conoscerla, narra del passaggio da forme di vita nomadi ad altre sempre più stanziali. Non se ne evince, forse, che le forme di vita più stanziale (la nostra) è, al contempo, anche la più perfetta (la nostra)? Se gli uomini si scapicollavano da un angolo all’altro della terra, ciò è accaduto soltanto nella preistoria, quando ancora esistevano le nazioni, le guerre, i commerci, le scoperte delle varie Americhe. Ma a che pro farlo adesso, a chi gioverebbe?”.

Nello stato unico l’alimentazione ha seguito i progressi della scienza e della tecnica. Nell’era antica, ci dice il matematico narratore, “in base a pregiudizi religiosi, probabilmente, i cristiani selvaggi restavano tenacemente attaccati al loro pane (presso di noi questa parola si è conservata soltanto nella sua accezione di metafora poetica: la composizione chimica di questa materia ci è ignota). Ma nell’anno 350 prima della fondazione dello Stato Unico fu inventato il nostro attuale cibo, di derivazione petrolifera. È pur vero che sopravvisse soltanto lo 0,2% della popolazione del globo terrestre. In compenso, però, una volta ripulita dal sudiciume secolare, come è diventata lustra la faccia della terra. In compenso, quello zero virgola due per cento ha assaporato la beatitudine nelle magioni dello Stato Unico.”

L’ordine, la precisione, gli algoritmi, sono garanzia di felicità. A scuola si studia la più grande delle opere letterarie antiche pervenute: l’orario dei treni. Ma di fronte al rigore delle tavole della legge anche questa scolorisce. Esse “sanno trasformare, e non in sogno, ciascuno di noi nell’eroico personaggio d’acciaio a sei ruote di quel grande poema. Ogni mattina, con la precisione delle sei ruote, alla medesima ora e nel medesimo minuto, noi, milioni, ci svegliamo come un sol uomo. Alla medesima ora-milioni come un sol uomo-iniziamo e concludiamo il nostro lavoro”.

In questo sentirsi parte di una così precisa organizzazione l’uomo trova la sua propria ragione di essere e, in ultima analisi, la felicità: “la via naturale che conduce dall’insignificanza alla grandezza sta nel dimenticare di essere grammo e nel sentirsi milionesima parte della tonnellata”.

Ma, riconosce il narratore, la soluzione esatta del problema della felicità non è stata raggiunta neppure nello Stato Unico. Infatti “due volte al giorno, dalle 16 alle 17 e dalle 21 alle 22 il possente e unico organismo si parcellizza in cellule separate: si tratta delle Ore personali stabilite dalle Tavole della Legge. Durante queste ore alcuni abbassano pudicamente le tende nella stanza, (mentre per il resto del giorno il popolo vive in case trasparenti, aperte allo sguardo di tutti, non avendo evidentemente nulla da nascondere, ndr) altri incedono per il viale al ritmo della Marcia con le sue scale squillanti, altri ancora, come me adesso, siedono alla scrivania. Ma io credo fermamente – e mi diano pure dell’idealista o del sognatore – io credo che, presto o tardi, verrà il momento in cui incaselleremo anche queste ore in una formula generale, anche tutti questi 86.400 secondi confluiranno nella Tavola delle Ore”.

Tutte queste convinzioni vengono messe in discussione dall’amore per una donna, l’unit I-330. Il medico al quale D-503 si rivolge per un certificato che giustifichi una sua “mancanza” ai doveri verso lo stato unico emette la diagnosi: “Lei è messo male! Evidentemente le si è formata un’anima”. E al matematico che non capisce spiega: “…uno specchio freddo riflette, riverbera, mentre quest’altro assorbe, e ogni cosa che vi lascia traccia, lo fa per sempre. Una ruga appena visibile, scorta per una volta sul viso di qualcuno: eccola per sempre dentro di lei; una goccia caduta nel silenzio, udita per una volta: ecco che la ode tutt’ora…”.

La donna di cui il narratore si è innamorato fa parte di un gruppo di resistenti allo stato unico. Scoppia una rivolta, D-503 vi si trova nel mezzo, “guarisce” dalla sua malattia mercé un colloquio col Benefattore che pare ispirato dal grande inquisitore di Dostoevskij. I disordini sono ancora in corso ma, così si conclude il racconto, “sul 40° viale siamo riusciti a erigere provvisoriamente un muro elettrico ad alto voltaggio. E io spero che vinceremo! Anzi ne sono certo: vinceremo! Perché la ragione deve vincere!”.

Termino il libro e mi chiedo da che parte staremmo, staremo noi: con “la ragione”, dentro i confini del muro verde, schiavi ma felici (e nullatenenti, come recita il più noto degli slogan usciti dai laboratori del world economic forum di Davos: non avrai niente e sarai felice) oppure fuori, nel bosco, allo stato brado di uomini liberi a prezzo della sofferenza?

Ma ripensandoci la domanda è mal posta, perché senza sofferenza non vi sarebbero né felicità, né vita. Non vi sarebbero, cioè, più uomini, ma qualcosa d’altro: ultracorpi, replicanti. E poi non voglio farmi suggestionare da un’opera di fantasia: non saremo mai chiamati a scegliere perché prima bisognerebbe estirpare l’anima alla maggior parte degli uomini della terra, e come potrebbero fare i medici del futuro benefattore? Nonostante, siatene certi, in qualche parte del mondo uno stuolo di codici alfanumerici stia da tempo provando a risolvere l’equazione.       

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