Il dottor Grossman, dobbiamo ammetterlo, era un intellettuale vero. Vero in quanto integrale e integrale in quanto capace non solo di sintetizzare i concetti fino a trarne le estreme, logiche conseguenze, ma anche coraggioso al punto di assumerle su di sé, in uno slancio etico non indifferente. Al professore cioè non bastava trattare i massimi sistemi della filosofia, sentiva la necessità di discendere la scala dei concetti trascendenti fino a coniugare gli assiomi nelle cose spicciole della vita quotidiana. La caparbietà con cui cercava di attenersi alle proprie convinzioni era tanto rispettabile quanto poco compresa dalla comunità benpensante.
Ciò era accaduto, ad esempio durante, la stesura di un saggio dal titolo “Il decostruzionismo e perdita di identità del soggetto”. Nel tentativo di esporre la propria tesi in maniera convincente, Grossman era rimasto rintanato nel suo studio per parecchie settimane a un regime alimentare a base di pane, acqua, fegatini di agnello e croissant imburrati, diceva lui, per non appesantire lo stomaco e la mente. Aveva barricato le finestre, interrotto i contatti con l’esterno e permesso soltanto a Consolata di interromperlo per le più strette necessità.
A saggio concluso, il professore uscì dalla stanza. Entrò in cucina sommessamente contento. A un occhio distratto, quella reazione poteva sembrare simulata indifferenza, falsa modestia o giù di lì, ma la governante non cadde nell’inganno. Le bastò uno sguardo per vedere zampillare sul suo volto una strana soddisfazione, come se fosse riuscito finalmente a sciogliere un enigma, a sbrogliare una matassa informe con l’unica arma della sua lucida razionalità. Uno sguardo che cerca disperatamente di contenersi per paura di svelare tutto d’un fiato un segreto arcano senza poterselo rigirare un po’ tra le dita.
Consolata non sbagliava. Con i gesti faticosi di chi si vede costretto a un confronto serrato, il professore si sistemò sulla sedia e chiese alla donna di starlo bene a sentire:
“Cara Consolata, posso dire con soddisfazione che ho finalmente concluso il mio saggio. So che posso parlare liberamente con te e dico quindi, senza vergogna, che il mondo accademico non sarà più lo stesso dopo questo studio. Lungi dal volermi pavoneggiare, cara mia, ma credo che nessun intellettuale, a oggi, si sia esposto con tanto ardore nelle tesi da me trattate. Queste nuove teorie mi hanno fatto aprire gli occhi su parecchie cose del mondo, nulla per me sarà più come prima e vorrei che ciò valesse anche per te.“
Consolata si mise le mani tra i capelli e iniziò a camminare nervosamente. Disse con risolutezza che avrebbe rifiutato ogni altro cambiamento, in special modo se ciò avesse implicato nuove strambe rivoluzioni architettoniche. Non avrebbe di certo riportato la mobilia in garage per non interferire con il flusso dei chakra o come diavolo si chiamavano quegli aggeggi indiani. Per lei erano tutte fesserie e a forza di rivoluzionare la casa avevano scheggiato il parquet in modo irrimediabile.
Al dottor Grossman ci vollero alcuni minuti per cercare di calmare la donna:
“Ma no Consolata, la filosofia orientale è acqua passata. Ma no, non ho intenzione di sperimentare di nuovo l’alimentazione crudista. No queste erano, come dire, soltanto delle meteore che intersecano una linea retta portatrice di una più ampia visione del mondo che solo ora mi sembra di afferrare pienamente. Ecco, cercherò di arrivare al succo della questione. Il fatto è, cara, molto semplice: le cose non sono ciò che sembrano dall’esterno. Questo realismo medievale ha soffocato per secoli la creatività dell’essere umano. Una cosa è e può essere solamente ciò che si sente di essere. Nessuno di noi ha l’autorità per stabilire l’identità ontologica di questa o di quella persona. Per dirla in parole spicciole tu, Consolata, vieni giudicata dal contesto sociale come una donna di età avanzata e governante di professione. Nessuno si immaginerebbe che, nel tuo intimo, possa sentirti qualcun altro. Magari potresti nutrire, in segreto, la propensione a concepirti di genere sessuale diverso e nessuno avrebbe l’autorità per stabilire che ciò sia oggettivamente falso. Se per l’appunto l’oggettività non esiste, non esistono i generi maschile e femminile. Essi sono soltanto il frutto di una distorta dittatura del pensiero occidentale.”
Consolata si sentì profondamente offesa dalle parole di Grossman e non fece nulla per nasconderlo:
“Professore! In quarantanni di onorato servizio non ho mai ricevuto un affronto simile. Potrò essere un po’ maldestra, alle volte burbera, capisco che i miei modi siano poco femminili. Ma mi ferisce che proprio lei mi prenda per un uomo.“
Il dottor Grossman tornò alla carica:
“Ma no, vedi Consolata, non afferri la questione. Non voglio certo dire che tu sei un uomo o che assomigli in qualche modo ad un uomo, ma che se tu ti sentissi un uomo, io sarei tenuto a giudicarti come tale. Non avrei nessuna autorità a stabilire il tuo genere sessuale e nessun altro aspetto della tua persona.”
Dopo questa precisazione, la questione si fece seria e sempre più complessa. Consolata, che non era affatto sciocca, ci penso un po’ su, poi azzardò che allora, se poteva sentirsi un uomo, avrebbe potuto sentirsi, nello specifico, un uomo di trent’anni. Il professore non batté ciglio. Allora perché non un uomo di trent’anni fattorino di professione? Il ragionamento non faceva una piega e Grossman acconsentì, anche se con qualche riserva. L’età anagrafica e le capacità professionali non erano certo dati trascurabili, ma la sua autorità poco valeva a stabilire ciò che una persona sente di essere.
Ma il giochino intanto iniziava a piacere parecchio alla donna:
“Senta professore, come ben sa, io ho una piccola passione: adoro le vite dei reali. Le confesso che guardo e riguardo vecchi documentari sui regnanti europei, sarà che mi fanno sentire nostalgia dei bei tempi andati. Non è che, già che ci siamo, invece che un fattorino mi posso sentire che ne so, duchessa e portare quelle collane di perle a girocollo abbinate al cappellino all’inglese? Il genere femminile mi va benissimo, quello lo tengo. Cambierei piuttosto l’estrazione sociale.“
E con lo sguardo trasognato iniziò a sospirare aspettandosi l’approvazione del maestro. Grossman non sapeva che pesci pigliare. Si allentò irritato il colletto della camicia e, nella fretta di lasciare la stanza, acconsentì all’assurda richiesta abbandonando a donna a se stessa.
In meno di cinque minuti una governante di provincia con la quinta elementare aveva calpestato, infangato, snaturato uno studio antropologico di ben altro livello. Aveva appiattito ogni snodo, ogni sillogismo, ogni sottigliezza del pensiero. E per cosa? Per una collana di perle. Del resto cosa poteva pretendere da una illetterata di vecchia generazione? Grossman aveva ben altri pensieri per la testa, il mondo accademico lo avrebbe acclamato come nuovo profeta e lui non poteva certo occuparsi di sciocchezze del genere.
Intanto,
i giorni passarono e tutto sembrava procedere come al solito. Il
professore era impegnatissimo a gestire la nuova fama che il saggio
gli aveva procurato e non aveva tempo di prestare attenzione alla
casa. Qualche dettaglio però, non sfuggiva nemmeno al suo occhio
distratto.
Il lunedì Consolata non si era presentata per tutta la
mattina e il pomeriggio arrivò agghindata con due grandi orecchini
pendenti. Il giorno dopo Grossman scorse delle unghie laccate di
rosso che afferravano con garbo una tazzina di tè.
A metà settimana, appena sveglio, senti un gran fracasso nella stanza a fianco. Non fece in tempo a realizzare cosa fosse quel battete continuo, che Consolata lo salutò dall’alto di un nuovo paio di tacchi a spillo, abbinati a una gonna in pizzo di cui sembrava particolarmente fiera. Qualche giorno più tardi la situazione toccò l’apice. La casa era un disastro. I piatti stagnavano da giorni nel lavello e la polvere sui mobili era diventata particolarmente vistosa. La sera stessa Grossman doveva accogliere la troupe di un’importante televisione e pretendeva che tutto fosse, se non perfetto, almeno presentabile.
Decise quindi di affrontare la governante una volta per tutte, ma quando entrò in cucina vide una scena surreale. Consolata se ne stava in piedi vestita come una signorotta mentre legava il gatto al guinzaglio. Il professore preso da inaspettata timidezza di fronte a ciò che la sua mente non poteva afferrare, chiese cosa stava accadendo e per quale motivo, se poteva permettersi, la casa era in un assetto così particolare.
“Oh, professore. Sto portando Cézanne a passeggio. Cosa? Perché quell’occhiata? Non starà forse guardando le cose da una prospettiva esterna? Ecco professore, io mi sto, per così dire, ambientando nel mio nuovo stato. Essendo ora una duchessa non posso più venire vestita come una governante e non posso più fare quello che fa una governante. Lei capisce, devo mantenere un certo tono. E per quando riguarda Cézanne, sa, non sono sicura che si senta un gatto. Dal momento che non possiede alcuni comportamenti intrinseci dei felini, come per esempio dare la caccia ai topi, ho concluso che, magari in realtà, si sente un cane. Ho deciso così di portarlo a passeggio per vedere come si trova con la sua nuova identità. A più tardi.“
Il professore non seppe replicare. La situazione era degenerata fino a un punto di non ritorno. La cara vecchia Consolata che si era sempre rivelata l’ancora a cui aggrapparsi, ora navigava dispersa per chissà quali mari senza possibilità di essere recuperata. Era chiaro, per rimettere le cose a posto ci voleva un miracolo.
In realtà, qualche ora più tardi a ristabilire l’ordine non fu affatto un miracolo, ma il buon senso di Cézanne. Proprio così: per quanto Consolata si fosse messa in testa di portare il gatto/cane a passeggio, questi, che di canino non possedeva proprio nulla, non era affatto dello stesso parere. La donna si era prodigata a trascinarlo al guinzaglio per tutta la città, con tanto di inviti e minacce, ma, arrivata al parco, Cézanne iniziava a dare chiari segnali di ribellione. E così, bastò che un grosso cane si avvicinare al gatto/gatto abbaiando appena, che questo, complice la distrazione di Consolata, era schizzato via col pelo rizzato.
La donna dovette così rincorrerlo a fatica per diversi chilometri, ansimando non poco mentre zampettava sui suoi tacchi a spillo stretta nella gonna aderente. L’avventura finì quando orami faceva buio. Consolata tornò a casa con lo sguardo torvo, i capelli arruffati e senza le scarpe. Il gatto non sembrava stare meglio: sul musetto spelacchiato si era stampato lo sguardo allucinato di chi ha sfiorato la morte e appena varcò l’uscio corse a rintanarsi in qualche pertugio a leccarsi in solitudine l’orgoglio ferito.
La governante si chiuse in cucina sperando di non esser vista, ma, seduto sulla sedia di fronte a lei, il dottor Grossman la attendeva ironico:
“Ebbene mia cara, questa passeggiata? Come è andata con Fido? “
Consolata gli lanciò uno sguardo carico di rancore:
“Lei e le sue teorie farlocche! Non è vero niente di quel che dice! Cézanne a quanto pare è un gatto. Si sente un gatto perché é un gatto. E io, che ho dovuto rincorrerlo fin quasi alla stazione senza saper camminare su quei maledetti trampoli non sono una duchessa. È inutile, per quanto lo voglia proprio non ci sono tagliata. I gioielli sono troppo pesanti e il galateo non è roba per vecchie massaie. Professore, non posso essere una duchessa solo perché mi sento di esserlo. Io, al contrario, mi sento una governante perché sono una governante. Ognuno di noi si sente quel che è e quando le cose non stanno così allora è un bel problema. Le governanti iniziano a prendere il tè sul divano e le duchesse cucinano i fegatini di agnello: in men che non si dica il mondo andrebbe gambe all’aria e chi si è visto si è visto. Ma il Padreterno non fa certo le cose a caso e non chiede alle governati di diventare duchesse e alle duchesse di diventare governanti. Ogni cosa ha il suo posto, professore, e grazie a Dio sempre sarà così.“
Il professore guardò Consolata e sorrise, tutto era tornato a posto. E mentre si alzava dalla sedia visibilmente sollevato, iniziò a immagine un mondo in cui Consolata fosse un fattorino di trent’anni. Avrebbe consegnato le buste come nessun altro questo è certo, ma lui avrebbe dovuto rinunciare ai suoi amati fegatini di agnello. E se anche fosse stato un fattorino bravissimo ai fornelli, non avrebbe battuto la maestria di una governante. Certe cose, si sa, uno le ha nel sangue.
3 commenti su “Il dottor Grossman e lo strano caso del gatto che non voleva sentirsi cane”
Eccezionale!
Basterebbe scendere dal mondo dell’assurdo e rientrare in quello reale per ritrovarsi nella normalità; e sarebbe anche semplice se non vi fosse di mezzo lo zampino, anzi l’artiglio del maligno.
Per questo l’unica speranza è nell’intervento divino.
Madonna Santissima, Tu che fosti chiamata ‘Santa Maria della Vittoria’, succurre miseris!
Grazie signora Melzi. Un bell’apologo che dovrebbero far leggere nelle nostre scuole e nelle nostre parrocchie, ma temo che sia ormai troppo tardi perché lì non sono più in grado di riconoscere l’assurdità in cui vivono.
Interessante vedere come partire da principi sbagliati porti soltanto a conseguenze sbagliate e, quanto più si è logici, tanto peggio è.