Il cielo di carta nel teatrino della sinistra globalista

Nel Fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello è famoso il brano dello strappo del cielo di carta nel teatrino delle marionette meccaniche. L’episodio svela la falsità convenzionale che ci circonda, la dolorosa scoperta della realtà da parte del protagonista, assalito da vertigini e capogiri. Tale deve essere lo stato d’animo di numerosi italiani, specie tra i sostenitori della tramontata sinistra “sociale”, dinanzi al governo giallo rosso, o meglio fucsia e arcobaleno. Scoprire l’entusiasmo di Mario Monti, il proconsole dei poteri forti internazionali, prendere atto della gioia dei mercati testimoniata dalla salita della Borsa e dal calo dello spread, ascoltare il giubilo non celato delle istituzioni europee, bastione dell’ordoliberismo e delle oligarchie, deve essere stata una doccia gelata per molti illusi.

La sinistra ha definitivamente abbandonato il popolo al suo destino, mentre la destra si lecca le ferite sognando la rivincita. È in pieno svolgimento la controffensiva dei padroni del vapore, appoggiati dalle vecchie, immortali burocrazie e clientele del PD, il partito ossimoro che perde ma continua a comandare. La guerra, culturale prima che politica e sociale, tra l’alto e il basso, il centro e la periferia, élite contro popolo, segna un punto assai pesante a favore di lorsignori. Il cielo di carta si è strappato, è più evidente il conflitto mortale tra servi e padroni, per usare un’espressione di Hegel, con i ruoli invertiti rispetto al passato. La sinistra tradizionale si è rinserrata nella politica delle identità minoritarie – razziali e sessuali innanzitutto – accontentandosi di patrocinare i cosiddetti diritti individuali- in realtà i capricci dei ceti dominanti – abbandonando i diritti sociali e la rappresentanza di quelle che una volta chiamavano classi subalterne.

Una perfetta rappresentazione di tale deriva è stato il caso di Carola Rackete, capitana di una nave dedita al trasporto di clandestini africani in Italia. Divenuta un’eroina della sinistra globalista, la giovane tedesca è tuttavia la classica figlia di papà, con casa a Londra e amicizie influenti tra i leader europei cosmopoliti. Una perfetta esponente della Generazione Erasmus sradicata, globalista, preda del nichilismo edonista, frutto dell’egemonia del liberalismo neo progressista.

Il primo a comprendere la torsione neoborghese della sinistra fu Pier Paolo Pasolini negli Anni 70. In un articolo del 7 gennaio del 1973 pubblicato sul Corriere della Sera con il titolo Contro i capelli lunghi, poi raccolto negli Scritti corsari, Pasolini sostenne che la foggia della capigliatura dei contestatori provenienti da famiglie borghesi rappresentava un messaggio, espresso in un linguaggio privo di lessico, di grammatica e di sintassi. “Noi non apparteniamo al numero di questi morti di fame, di questi poveracci sottosviluppati, rimasti indietro alle età barbariche. Noi siamo dei borghesi: ed ecco qui i nostri capelli lunghi che testimoniano la nostra modernità internazionale di privilegiati”. Lo stesso intellettuale friulano fece scalpore, a sinistra, parteggiando per i poliziotti figli del popolo contro i rivoltosi del post Sessantotto, pronti a lottare contro un nemico sconfitto trent’anni prima, il fascismo, ma lontani dal prendere posizione sul nuovo volto del potere avanzante, consumista ed edonistico.

Un importante saggio sui temi della crisi delle classi subalterne e del ceto medio, nonché sul vuoto di rappresentanza politica, è uscito in Italia con scarsa attenzione mediatica, nonostante l’editore sia l’università Luiss, tutt’altro che rivoluzionaria. Si tratta di La società non esiste, del sociologo e geografo francese Christophe Guilluy, studioso delle aree periferiche degli Stati europei, il cui significativo sottotitolo è La fine della classe media occidentale. È per essa che suona oggi la campana della riproletarizzazione: il cielo di carta si è strappato anche per la classe media. Guilluy, riprende nel titolo la tragica affermazione individualista di Margaret Thatcher degli anni Ottanta, there is no society, non esiste la società.

Di formazione marxista, Guilluy, come altri intellettuali (Jean Paul Michéa, Alain Soral) è profondamente critico con la sinistra al caviale, come dicono in Francia. A proposito della rivolta dei giubbotti gialli, osserva che l’intellighenzia di sinistra si è fatta prendere dal panico. Prima li hanno insultati chiamandoli fascisti, poi hanno approvato la violenza repressiva del governo Macron, senza mai cercare di comprendere le ragioni della protesta di una Francia profonda, quella dei sobborghi, dei piccoli centri, dei pendolari. Potremmo chiamarli i penultimi, quelli che erano diventati, di generazione in generazione, con il sudore della fronte e l’impegno personale, classe media.

I nuovi gruppi dominanti, che Guilluy chiama cool– borghesia, a sottolinearne il carattere frivolo e modaiolo, usano un antifascismo paleolitico come arma di classe rovesciata rispetto agli schemi passati, a dimostrazione che l’asse destra sinistra perde valore dinanzi a contrapposizioni più concrete: vincitori e perdenti della globalizzazione, centro/periferia, alto/basso, patrizi contro plebei. La novità è il ruolo conservatore, di sistema, della sinistra “elegante”, che ha abbandonato la lotta contro i monopolisti della ricchezza e della tecnologia (mega-monopoli, fondi finanziari, colossi tecnologici come i GAFA, Google, Apple, Facebook, Amazon), diventandone complice, fiancheggiatrice, entusiasta banditrice.

Gli sciocchi di sinistra lottano contro un fascismo inesistente, elevato a categoria eterna del male proveniente da un passato barbarico, ma accettano senza fiatare il totalitarismo del mercato il cui manganello si è abbattuto duramente sulla maggioranza della popolazione, risparmiando solo i più ricchi e, ovviamente, caste e ceti di supporto dell’oligarchia. In questo immenso cambio di paradigma, un ruolo decisivo è assegnato al circo mediatico e al clero intellettuale di servizio.

È una guerra politica con profonde radici culturali nei processi innescati dal successo delle idee del Sessantotto, prontamente utilizzate dal capitalismo per cambiare pelle, diventare permissivo ed iperindividualista, estendere il proprio potere attraverso la privatizzazione integrale che ha sbriciolato la dimensione pubblica e gli Stati nazionali. Contemporaneamente ha colonizzato l’immaginario popolare, proibendo di fatto il cambiamento, nella credenza “che tutto ciò che esiste, è naturale esista” (A. Gramsci).

Le classi inferiori cominciano a percepirsi come un ostacolo, un freno ai processi emancipativi del progresso obbligatorio, cambiando i propri riferimenti politici. In Europa come negli Stati Uniti, la sinistra è prigioniera del suo elettorato di alto reddito, si è rinchiusa nelle metropoli e nei centri storici eleganti delle città. Non sa e non vuole più parlare alla classe lavoratrice precarizzata, ai disoccupati, ai ceti medi, ai giovani derubati del futuro. L’elemento più importante di questa dinamica è che la rottura è principalmente culturale. In passato, la sinistra considerava rispettabili i ceti subalterni, oggi li percepisce come deplorevoli o fascisti. Il popolo è un peso, un fastidio dal quale liberarsi.

La liquefazione dei legami sociali ha raggiunto l’acme con il dominio della cultura libertaria e narcisista che divide il mondo tra se stessa, cool, alla moda, cosmopolita, senza legami, colta, nemica dell’identità e gli altri, arretrati, incatenati a vecchie idee, ignoranti. Questa sinistra snob, metropolitana, piena di sé, disprezza profondamente chi non fa parte del suo mondo, non pratica il poliamore, non discute di postfordismo, non commenta l’ultima serie di Netflix, chi, orrore massimo, è fedele alla famiglia naturale, alla terra natia, addirittura si permettere di credere in Dio e esprimersi non nel disgustoso inglese globish da aeroporto e listini di borsa, ma nell’idioma natio.

Il fenomeno interessa tutte le nazioni. In Spagna, il sociologo Daniel Bernabè, nel saggio La trappola della diversità, ricalca le tesi di Guilluy, accusando la sinistra di essere caduta in una autoreferenzialità prossima al solipsismo, in cui passa il tempo a spiegare agli altri in che cosa sbagliano. Incapaci non solo di accogliere, ma neppure di concepire concetti come il patriottismo, l’identità, la famiglia, le lotte sul posto di lavoro, la difesa dell’ambiente rurale, avvolti nei propri stracci disprezzano quanto ignorano.

Scrive Bernabè che sono giunte a noi le guerre culturali, i conflitti intorno ai diritti civili, la rappresentanza di gruppi che situano i problemi non nell’ambito economico, lavorativo e ancor meno nella struttura generale della società, ma in campi meramente simbolici. Il matrimonio omosessuale, il linguaggio di “genere” o l’educazione alla cittadinanza hanno occupato le prime pagine dei media, scatenando violente polemiche. Tali conflitti culturali neoborghesi, costruiti nei laboratori delle università americane, assumono un valore simbolico e diventano leggi, permettendo a governi autodefiniti di sinistra (o centrosinistra, concetto light che affievolisce il senso delle parole, esattamente come centrodestra) di svolgere politiche antipopolari nel campo economico e sociale.

In un mondo dove l’ideologia libertaria si è trasformata in alibi per affermare a livello di massa personalità isolate, sconnesse dalla comunità, la carovana progre si sforza soltanto di trovare, nella cornucopia del vocabolario politicamente corretto, le parole adeguate per riconoscere ogni diversità, creando un superstizioso alone di rispetto per qualunque minoranza mentre il sistema trascina miliardi di persone ai margini della storia. Non ricerca più una narrazione comune che unisca intorno a obiettivi e principi condivisi, ma enfatizza le specificità- alcune specificità, beninteso – per colmare l’angoscia di un presente senza identità, di comunità, di classe, di popolo. Diversità come trappola, anziché ricchezza.

Il classismo di sinistra raggiunge vette di autentica follia, oltrepassa il ridicolo negli Usa, come nella rappresentazione di Tom Wolfe (Il falò delle vanità), nel ritratto fatto da Allan Bloom di una cultura che si accartoccia sui propri tic, rendendoli incubi collettivi (La chiusura della mente americana), nel culto narcisistico di sé smascherato da Christopher Lasch (L’io minimo, La cultura del narcisismo). Mark Lilla, autore de Il ritorno liberale, figlio di un’infermiera e di un operaio della General Motors, descrive il suo sconcerto di giovane povero che si sentiva impartire lezioni dai figli di dirigenti Ford sulla natura della classe lavoratrice. Ancora più tagliente è Jim Goad, autore del celebre Manifesto Redneck (redneck, “colli rossi”, riferito al colore scuro della nuca di chi lavora all’aperto, contadini, muratori, manovali). “Sapete qual è il mio problema con i marxisti americani? Tutti quelli che ho incontrato sono ricchi bianchi che ti danno lezioni su come ti senti di appartenere alla classe lavoratrice”.

Il Partito Democratico Usa del XXI secolo, come le sinistre europee, si concentra ormai sugli interessi e le fissazioni sottoculturali di ceti in possesso di lauree, master e studi avanzati, specie tecnici e scientifici. È una classe sociale la cui ascesa è iniziata nell’ultimo mezzo secolo. Si tratta di un gruppo sociale numeroso e potente per i servigi che rende alle oligarchie, ancorché minoritario: ingegneri, matematici che calcolano i rischi per le imprese finanziarie o la Borsa, chimici e biologi dell’industria farmaceutica, informatici specialisti in software e programmazione, insegnanti, addetti a servizi avanzati. Nel tempo le opportunità si sono ristrette a chi possiede redditi elevati, l’ascensore sociale si è fermato. La nuova sinistra è l’altoparlante di questi ceti, e disprezza senza mezzi termini il resto della popolazione.

Non vi è dubbio che una battaglia culturale sia anche una lotta ideologica. Fa comodo ai dominanti far credere che la nostra sia un’epoca post ideologica. Non è così. La verità è che ci viene proibito un autentico confronto di idee in quanto smaschererebbe le contraddizioni del potere, permissivo e libertario nella forma, totalitario, censorio nella sostanza. E’ utile, al riguardo, analizzare alcune scoperte di Christophe Guilluy, il cui approccio multidisciplinare, sociologia più geografia ed economia, svela scenari molto interessanti. Uno ci parla della mappa diseguale per cui alcune aree metropolitane fagocitano il resto del paese, che si svuota a velocità crescente. Sono i territori rurali, i distretti industriali di ieri desertificati dalla delocalizzazione, le tante periferie escluse dai processi economici, lasciate a un destino di invecchiamento, disoccupazione, perdita di infrastrutture.

Declino economico, emorragia demografica, irrilevanza culturale del “mondo di sotto”: classi medie e medio basse, la maggioranza esclusa dal potere, emarginata dai processi di creazione e riproduzione della ricchezza, disprezzata nei valori morali e materiali. Lì si è determinata la più profonda delle fratture sociali, lì si è spezzato irrimediabilmente il cielo di carta. La cartografia di Guilluy è impietosa nell’osservazione della frattura sociale avvenuta, a partire dagli anni Novanta, con la transizione dolorosa verso la globalizzazione. “Nelle aree più remote delle metropoli del mondo, in quelle delle città di piccole e medie dimensioni, del suburbano imposto e dei territori rurali, gli effetti negativi della globalizzazione sono sempre più visibili. Questi territori disegnano un continuum socioculturale nel quale sono rappresentate le categorie popolari”.

L’insicurezza economica di un mondo spietato si unisce alla crisi delle certezze comunitarie, dei modi di vita travolti, trasformandosi in insicurezza culturale. Nel mondo di sotto vive il popolo, i somewhere, coloro che vengono da qualche parte, possiedono cioè, e cercano di difendere, un’identità, contrapposti agli anywhere, il mondo di sopra, che si è disfatto delle appartenenze, dei confini e delle radici. La polarizzazione della ricchezza, delle opportunità e dei servizi è dimostrata da statistiche inoppugnabili. Nel XXI secolo, i posti di lavoro si sono concentrati quasi esclusivamente in alcune aree urbane. Il fenomeno è molto esteso in Francia, dove la metà degli occupati si affolla in una dozzina di distretti metropolitani. Guilluy fornisce dati impressionanti sulla diminuzione di valore del mercato immobiliare a favore di sole dieci città.

La diseguaglianza territoriale è evidente anche in Italia: al triste, secolare squilibrio tra Nord e Sud, si è aggiunto il divario crescente tra le aree montane e quelle costiere, le zone raggiunte dalle maggiori vie di comunicazione e le altre, lo spopolamento impressionante delle campagne, la desertificazione dei tanti distretti industriali di ricca tradizione travolti dalla crisi irrimediabile del settore manifatturiero prodotta dalla liberalizzazione dei mercati, dalla delocalizzazione, la tempesta perfetta globalista.

I benefici del nuovo modo di produzione sono andati soprattutto all’Asia, emersa come polo produttivo mondiale, nonché, da noi, a una piccolissima minoranza. Alla classi medie e basse d’Europa e dell’Occidente sono rimaste le briciole. Mondo di sopra, composto forse dal 20 per cento della popolazione, concentrato nelle aree metropolitane, mondo di sotto disperso in un mondo di sotto variegato, impoverito, in cui artigiani e lavoratori autonomi sono proletarizzati quanto gli operai, gli impiegati del commercio e del turismo. È un mondo che si avvia verso una triste estinzione, inaugurando, secondo Guilluy, il tempo della a-società, della rottura del legame, sia pure asimmetrico, che univa mondo di sopra e mondo di sotto.

Arroccati nei loro santuari, lorsignori si fanno scudo di una inesistente superiorità morale, della retorica insopportabile della società aperta, dei vantaggi del multiculturalismo, che, per i più, non è altro che la fine di certezze e valori antichi di secoli e, concretamente, una lotta sanguinosa tra ultimi – gli immigrati, i poverissimi, i disadattati – e (quasi) tutti gli altri. Per troppo tempo, conclude Guilluy, “le classi dominanti sono state protette dalla costruzione mediatica e accademica dell’immagine di un mondo di sopra buono e illuminato che si scontra con un mondo di sotto bellicoso e ignorante. Questa posizione morale ora è svanita: ormai la società aperta e la postura morale che la accompagna non ingannano più nessuno.” La retorica comunicativa è fallita come fallimentare si è rivelato l’esperimento ideologico neo liberista.

Nel trionfante relativismo “le tensioni culturali, etniche e/o religiose si moltiplicano proporzionalmente all’abbandono del bene comune, all’intensificazione dei flussi migratori e al passaggio dal generale al particolare”. I ceti popolari e le classi medie escono dalla storia, ma sprigionano una collera dagli effetti imprevedibili. Nessuna ideologia, nessuna narrazione o modello sociale regge quando contraddice gli interessi della maggioranza, che va esprimendo una richiesta di protezione che definisca gli ambiti comuni: lo Stato sociale, la regolazione dell’immigrazione, la sicurezza in senso ampio. La natura, ed anche la società umana, non tollera il vuoto. Espulsa la legge morale, ridotta la presenza umana a una competizione continua per il lavoro, il consumo, scampoli di benessere da vivere in corsa, senza principi e punti fermi, si spezza il cielo di carta dell’a-società.

Esaurite dalla postmodernità estenuata le categorie del passato, tramontate la destra e la sinistra, unite nella menzogna neo capitalista, restano l’alto e il basso, il centro e la periferia, popolo contro élite, patrizi contro plebei. E’ una battaglia mortale da trasferire sul terreno politico, da trasformare in guerra ideologica, vittoria sul linguaggio imposto dai dominanti. Per ora, in mancanza di un lessico migliore, definiamo i difensori del mondo di sotto populisti e invochiamo, con le parole di ieri, l’avvento della destra dei valori e della sinistra del lavoro.

1 commento su “Il cielo di carta nel teatrino della sinistra globalista”

  1. Nella nostra bassissima mediocrità, tenendoci lontani da parole come “destra” e “sinistra”, invochiamo più che altro il ritorno ad una condizione che dicasi soprattutto ragionevolmente umana. E tanto basta.

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