Oggi si è conclusa come doveva una piccola vicenda di vita quotidiana cominciata ieri e per la quale confesso di aver temuto – et pour cause – sviluppi sproporzionati e deliranti. L’entità del mio stupore di fronte a un fatto tanto banale mi ha fatto pensare: siamo talmente disabituati a che venga riconosciuta la normalità delle cose normali e la bontà del senso che fu comune che, quando ciò accade, ci pare quasi una grazia.
La mente è andata alla solita finestra di Overton, il programma di ingegneria sociale che così efficacemente dà conto di come possa accadere che ci si trovi calati come per magia nel set di una realtà capovolta, prigionieri di un pensiero capovolto prepensato da altri per noi e da (quasi tutti) noi digerito pian piano a suon di propaganda. Infatti, completate le sei fasi della famosa finestra, si verifica nientemeno che il ribaltamento della percezione diffusa in merito a un dato comportamento, abietto e dunque impensabile, insieme alla correlativa criminalizzazione di chi, per sua disgrazia, conservi del medesimo comportamento un retto giudizio. Tradotto in esempio: nel mentre il cannibale, ribattezzato prima antropofago e poi antropofilo, alla fine del processo diventa una persona normale, rispettabile, persino esemplare, lo sventurato “giapponese” che continui a ritenere il cannibalismo/antropofagia un fenomeno sconveniente diventa, in quanto antropofobo propalatore di odio, un pericoloso delinquente da perseguire.
In fondo è questa la chiave che spiega anche come il pezzo del nostro Matteo Donadoni intitolato Care donne, avete in casa un maschio bianco, eterosessuale, eccetera? Dategli un bacio, abbia fatto il giro completo dell’isterico mondo benpensante: proprio perché ha aperto la finestra nel verso opposto rispetto a quello che il fruitore mediatico devoto è portato ad aspettarsi e ad assecondare.
Ciò dimostra, semplicemente, il bisogno vitale di gente che apra finestre all’incontrario e faccia passare un refolo d’aria pulita nello spazio comune saturo di allucinazioni demenziali perché, dove torna per caso a sventolare la bandiera della ragionevolezza, va a finire che quanti non abbiano ancora gettato il cervello all’ammasso fiutino la sensatezza di certi codici senza tempo incredibilmente dimenticati, e ne traggano in cuor loro un inesplicabile conforto.
Veniamo dunque al fatterello di ieri. È successo che mio figlio piccolo è tornato a casa da scuola dichiarando di aver menato un ragazzino di un’altra classe nel cortile della scuola. Il movente? La “vittima”, uno scolaro grande e grosso, da tempo lo chiamava “nano” in abbinata con altri epiteti poco lusinghieri e non ripetibili. Vero è che, anche in casa, il reo confesso viene da sempre affettuosamente chiamato “tappo”, e vero è che, essendo andato a scuola in anticipo, ci sono compagni che lo doppiano in altezza, larghezza e profondità. Tuttavia, l’ennesima offesa gratuita da parte di un emerito sconosciuto ha colmato la misura e provocato la reazione punitiva. Fatto sta che ne è seguita una breve ma sentita zuffa. Poi, inforcata la bici, ognuno per la propria strada.
Ho chiesto ulteriori dettagli dell’accaduto, ma pare non ce ne fossero. Un semplice regolamento di conti, un lavoretto rapido e pulito. Una giovane testimone, debitamente escussa dalla mamma, ha confermato i fatti. Per quanto mi riguarda, quindi, la faccenda moriva lì, ho solo consigliato a mio figlio – se non altro per ragioni di incolumità futura – di siglare con il rivale un onorevole armistizio: fine delle offese, fine delle colluttazioni.
Epperò già mi prefiguravo quali pezzi forti del repertorio rieducativo in dotazione alla pedagogia aggiornata potessero essere sfoderati ai danni dei due piccoli lottatori e dei loro incolpevoli coetanei (visto che il “gruppo-classe” funziona oggi come un sol uomo, diventato com’è, a tutti gli effetti, un soggetto collettivo che deve condividere esperienze e che va catechizzato in blocco all’osservanza dei dogmi della nuova religione civica). Temevo provvedimenti di tipo repressivo – e sarebbe stato ancora ancora il meno – e di prevenzione speciale: temevo circle time, interventi di esperti, colloqui con psicologi, centri di ascolto, educazioni al dialogo, lezioni magistrali sulla non violenza, sul femminicidio, sul bullismo e cyberbullismo, su omofobia e razzismo, antisemitismo e discorsi d’odio. Già mi immaginavo costretta a fronteggiare a mani nude il mostro proteiforme istituzionalizzato la cui testa sta all’UNAR e i cui tentacoli si allungano dappertutto grazie a un apparato paramilitare zelantissimo e infiltratissimo.
Invece, grazie a Dio, niente di tutto questo. L’indomani il vicepreside ha convocato separatamente i due contendenti, ne ha ascoltato le rispettive ragioni, poi li ha fatti incontrare alla sua presenza, si è congratulato con loro («sono fiero di voi» pare siano state le sue testuali parole), per finire con una stretta di mano e buonanotte. Ora i due si salutano chiamandosi per nome, forti della complicità che discende dal reciproco onore delle armi.
Nei tempi invertiti e pervertiti che ci toccano in sorte, non resta che rallegrarsi di un epilogo così piano e lineare, tanto incredibile quanto ragionevole: una storiella talmente normale da diventare, nell’edificando mondo nuovo, addirittura eccezionale. Un cortocircuito di anomalie, insomma, di cui forse andrebbe fiero lo stesso signor Overton.
La buona notizia da registrare, dunque, è che gli effluvi dell’UNAR non hanno ancora contagiato tutti: capita che spunti qua e là qualche soggetto immune. Uno che forse manco sa di essere uno scampato all’epidemia; che, forse, manco sa del pericolo in cui si può cacciare ad usare ancora il buon senso, il pericolo di venire infilzato da delatori diligenti o da diligenti colleghi censori per passatempo di scorrettezze politiche altrui.
Questo accadeva in una piccola scuola pubblica della provincia veneta. Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, la prestigiosissima Università di Yale, facoltà di lettere, sopprimeva il corso introduttivo di storia dell’arte dal Rinascimento ad oggi, perché si sono improvvisamente accorti, nel tempio della cultura barbara, che ne uscirebbe privilegiato un canone bianco, maschile e occidentale rispetto ad altre possibili narrazioni. Senza contare il grave inconveniente che le opere d’arte classiche greche e romane sono state adottate come simboli del nazionalismo bianco da Mussolini, dal partito nazista, da organizzazioni cripto-fasciste, faccenda decisamente intollerabile per la buona reputazione di un ateneo che insegni simili modelli. Il titolare del corso, quindi, in attesa che questo venga eliminato, nel suo ultimo semestre di insegnamento si premurerà di esaminare l’”evoluzione dell’arte” in relazione a “domande di genere, classe e razza”, e chiederà agli studenti di presentare saggi che sostengano l’inclusione di opere che attualmente non fanno parte del canone tradizionale.
Che dire? Che bisogna stare coi piedi per terra senza illudersi che l’ondata distruttiva di demenza planetaria possa frenare il suo crescendo parossistico. La centrale non lo permetterebbe mai. Ma, proprio per questo, vale la pena di salutare qualsiasi episodio di cronaca spicciola sia capace di sfuggire al conformismo femminino beota e dilagante come un piccolo miracolo dal potenziato valore pedagogico. Del resto, non avremo maschi senza maschietti.
2 commenti su “I ragazzi della via Pàl ci sono ancora. Grazie a Dio.”
sempre grazie Elisabetta.
emanuel
Da conforto ed induce ad un po’ d’ottimismo per il futuro questo piccolo normale episodio di vita, che è pur sempre una sospirata conferma della sopravvivenza di praticità e realismo nella gestione dei rapporti umani e soprattutto dell’esistenza “viva Dio!”, ancora di simili individui, mi riferisco ai due piccoli e simpatici protagonisti, all’eccellente vicepreside e naturalmente alla sempre illuminata Dottoressa Frezza.