I progressisti pensosi, gli orfani del popolo – di Roberto Pecchioli

Perché la gran parte della sinistra, ed in particolare il ceto progressista “riflessivo”, tanto caro alla sociologia da Bignami, è diventata “liberal”, iperindividualista, amica e sostenitrice di tutte le periferie morali ed esistenziali, abbandonando la sua tradizionale base sociale, operai, lavoratori a basso reddito, precari, disoccupati.

di Roberto Pecchioli

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A margine del repellente programma di Raitre in apologia dell’omosessualismo e della simil nozze gay all’italiana, con la partecipazione dei giulivi omo sposi, colpisce una dichiarazione di Carlo Freccero, l’intellettuale savonese grande esperto di televisione, per anni cervello pensante della sinistrissima terza rete pubblica. “La sinistra si è sempre battuta per i valori sociali, ha scelto di privilegiare le libertà individuali ed il diritto all’autodeterminazione della sessualità (…). Anziché anteporre l’uguaglianza e l’impegno per l’abolizione del jobs act  dà la precedenza ai diritti individuali come la teoria gender. E’ interessante perché documenta il cambiamento in atto nella sinistra da pensiero unico, nella quale il valore della libertà domina a scapito dell’uguaglianza e della fraternità.”

Analoghe riflessioni svolgono il francese Jean Paul Michéa, giovani neo-marxisti irregolari come Diego Fusaro e Paolo Borgognone della scuola torinese di Costanzo Preve, e, con accenti diversi, Aldo Tronti,  operaista di lungo corso. Un filosofo ex marxista, approdato alla fede cattolica nell’ultima parte della vita e recentemente scomparso, Pietro Barcellona, ha pronunciato in materia parole importanti, e con lui un altro grande vecchio del comunismo colto, Gianfranco La Grassa.

Si impone dunque, da tutt’altro versante ideale e culturale, di esprimere una riflessione seria sul problema posto da Freccero, che è di capitale rilievo politico e di attualità assoluta: ovvero, se e perché la gran parte della sinistra, ed in particolare il ceto progressista “riflessivo”, tanto caro alla sociologia da Bignami, sia diventata “liberal”, iperindividualista, amica e sostenitrice di tutte le periferie morali ed esistenziali, abbandonando la sua tradizionale base sociale, operai, lavoratori a basso reddito, precari, disoccupati. Innanzitutto, la presa d’atto: sì, la sinistra occidentale di ascendenza marxista ha cambiato pelle, per diventare post borghese e, in senso lato, se ci passate il termine, transgender. Già in avvio, tuttavia, il ragionamento si inceppa, ed incorre nella sindrome delle premesse necessarie, una principale e l’altra subordinata, ma non troppo.

Il fatto è che sono le categorie di destra e sinistra ad essere diventate inservibili, obsolete, inadatte a descrivere il Terzo Millennio, incapaci di dare conto della realtà vera e dei suoi mutamenti tanto rapidi. I due termini restano – ed è la seconda premessa – come segnali stradali non rimossi, che indicano ad un bivio una strada ormai ostruita o la direzione da seguire per raggiungere un paese distrutto da un terremoto.  Permangono, destra e sinistra, per pigrizia intellettuale e soprattutto per gli interessi di chi, dai due versanti, ha bisogno di tenere vive a fini di potere antiche contrapposizioni  e fidelizzare quel che resta delle curve dei tifosi rivali .

Pure, per motivi pratici, tocca ancora utilizzare un lessico tramontato. La destra sedicente tale, una volta di più tace, o tutt’al più depreca, esercizio nel quale eccelle da oltre mezzo secolo. Teorici trionfatori della contesa per la disfatta del comunismo, quelli di destra avevano la storica occasione della rivincita ideale, antropologica e culturale. Invece no, a dimostrazione che da Reagan alla Thatcher in poi, passando per Berlusconi e per gli spregevoli neocons americani, la sola agenda che conti è quella dettata dal mercato misura di tutte le cose e dalle cupole economiche e finanziarie. Tante declamazioni di principio per lucrare il favore della destra morale e civica, velocissime ritirate nel ridotto del liberismo e degli interessi di ceto al grido di passata la festa, gabbato lo santo; nessuna attenzione, più spesso ostentato disprezzo per l’universo popolare ed intellettuale di chi professa i principi detti conservatori.

Destra e sinistra, dunque, pari sono: gli uni paghi di possedere e controllare l’industria e le fonti del denaro, gli altri a dettare la linea sui cambiamenti di costume, orientamento morale, i valori condivisi di riferimento di massa . Una pessima, collaudata ditta , una “old firm” di ladri di Pisa che può stupire solo i più ingenui tra gli ultrà dei due schieramenti. Non certo Carlo Freccero, personalità troppo fine, provveduta e con uso di mondo. Egli si limita a lanciare un segnale, sollevare un velo, squarciare una nebbia creata ad arte ed enuncia una verità , purtroppo ancora assai simile a quella del bimbo della fiaba di Andersen, unico privo di interessi, unico a dire la verità: il re è nudo.

I marxisti in ansia da elaborazione del lutto regrediscono al 1789, tornano giacobini, sono quelli che vogliono cambiare tutto, ma nella direzione prescritta dalla classe emergente. Era la borghesia nemica dei nobili e del feudalesimo al tempio della Bastiglia e delle ghigliottine, è l’oligarchia della finanza e delle multinazionali dagli anni Settanta del Novecento in poi. Dopo il 68, sono stati protagonisti della rivoluzione culturale soffice  per conto del volto nuovo, permissivo ed antiborghese del capitalismo Zelig, trionfante sul suo fratello inetto, violento e pasticcione, il comunismo.

Dal 1989 tutto ciò è, o meglio, avrebbe dovuto essere molto chiaro. Il comunismo è franato su se stesso, una fine indegna delle promesse e perfino della drammatica grandezza dei suoi torti e dei suoi crimini. Sbagliarono i comunisti, sulle piste di Marx ed Engels, a considerare il mondo liberale e borghese in cui si forgiò il capitalismo una fase necessaria ed intermedia sulla via della rivoluzione rossa. Allo stesso modo, mancò il bersaglio la previsione conservatrice del liberalismo anticamera del socialismo. E’ accaduto il contrario. Il comunismo reale dell’Est ed i suoi epigoni all’Ovest hanno, molto semplicemente, spianato la strada per il trionfo (e la presente decadenza civile) capitalista. Tutto è mercato poiché nulla ha più valore, demitizzato, decostruito, schernito, ridicolizzato, ridotto a sovrastruttura dalla critica marxista.

Sono stati bravissimi, con l’ausilio di progressisti di varia estrazione, a cancellare e distruggere. Non avevano previsto che il capitalismo stesso, nella sua marcia inarrestabile contro ogni limite e frontiera materiale e morale, si sarebbe servito di loro come del migliore esercito di riserva. Hanno usato genialmente il Marx filosofo e sociologo contro il Marx economista, la “falsa coscienza” l’hanno ritorta contro i suoi teorizzatori, la “struttura” non era il borghese, maschera momentanea, sovrastruttura anch’essa, ma il capitalista perenne, finanziario, industriale multi e transnazionale. Sulle eleganti macerie attivamente prodotte dal marxismo e dal progressismo, regna incontrastato il cartellino con il prezzo in denaro, posto lì dai capitalisti, frutto dei calcoli degli economisti liberali.

Dovevano saperlo: l’uomo di Treviri ed il suo sodale Engels furono chiarissimi, nel celeberrimo Manifesto del 1848, con l’unico infortunio, ma determinante, di confondere lo spirito borghese con quello capitalista. “Dove ha raggiunto  il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche (sic ! N.d.R.) . Ha lacerato spietatamente tutti i vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo pagamento in contanti. Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola, ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche”.

Dopo questa tirata, cui è difficile obiettare, non ci si aspetterebbe di trovare il neonato comunismo schierato con tutte le forze sul versante del “progresso”, del “futuro” e del “nuovo”. Alleato tattico della borghesia del XIX secolo nella sua corsa forsennata, in fremente attesa di sconfiggerla abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione per consegnarla provvisoriamente allo Stato, il marxismo si è lentamente allontanato dal comunismo reale, e si è trasformato in motore e banditore del progresso, dunque in battistrada e chierico del vecchio nemico di classe.

Il comunismo, osserva Adriano Scianca, giovane ma già affermato studioso di area nazionalpopolare, aveva insegnato il primato dell’oggettivo sul soggettivo, ed è scivolato nei narcisismi viziati di un intellighenzia capricciosa ed infantile, ritrovandosi a fianco di ogni possibile ed insensata minoranza, a frammentare sempre più la società, spostando il suo vecchio odio classista (cui non sa proprio rinunciare) contro il   popolo in carne ed ossa, poco sensibile ai luminosi insegnamenti impartiti, dunque bifolco, buzzurro, ignorante da rieducare.

Un’analisi da consegnare a Carlo Freccero affinché la affidi alla sua coscienza di intellettuale organico, protagonista della gramsciana egemonia, ma fallito, giacché, lo riconosce indirettamente, ha lavorato per il Re di Prussia. Colpisce che, rimasti senz’arte né parte, non riescano ad ammettere la parentela tanto stretta con il liberalcapitalismo, così pacificamente affermata dal loro capostipite, che li ha portati – moltissimi senza battere ciglio o addirittura senza accorgersene, con uno sconcertante trasbordo ideologico – a diventare le guardie rosse, scolorite e stinte, dell’antico nemico.

Stessa razza, stesso DNA: materialismo, indifferenza o aperta ostilità religiosa, internazionalismo, primato del nuovo, costruttivismo sociale, mito del progresso, odio nei confronti della famiglia e di qualsiasi tradizione, esaltazione della scienza come unico criterio veritativo, mistica dei diritti, valutazione positiva del consumo (le parole di Marx in materia sono chiarissime). Nessuno stupore, dottor Freccero, neanche il suo che è finto, lei teologo di una religione secolare rivelata ma inesorabilmente falsa, una credenza tra le tante smascherata, demitizzata con il vostro stesso criterio dialettico, strumento raffinato messo in mano al nemico di classe. I comunisti di ieri difendevano, a loro modo, i diritti sociali, i poveri, la condizione dei lavoratori e dei proletari, ma, chiusa la stagione della grande fabbrica industriale e della mobilitazione attorno al partito-intellettuale collettivo, si è dissolto il modello reale di riferimento tra povertà, nuova classe burocratica, incapacità di diffondere benessere e consumo, violenza materiale, ateismo, repressione del dissenso. Nessuna liberazione del proletariato, scaffali vuoti, una disciplina sociale più proterva ed indiscutibile di quella capitalistica, avvelenati tutti i pozzi.

Restavano, nudi e crudi, i “diritti”, la mitologia del progresso come liberazione. Sopravviveva intatta, oltre ogni fallimento, la convinzione, comune anche al liberalcapitalismo non più borghese, che tutte le formazioni sociali, gli antichi corpi intermedi, le idee ricevute, i principi ereditati, fossero solo inganni, impalcature innalzate per legittimare il dominio, secondo la testuale definizione del Manifesto. Dall’idea di libertà si è facilmente passati a quella di liberazione, che è fatalmente perdita, sottrazione, abolizione, zavorra che si getta in blocco. Il terreno preparato dai philosophes dei Lumi e violentemente arato dai giacobini ha prodotto una delle tante eterogenesi dei fini . Liberato dalle vecchie idee, “a tutti i suoi retaggi indifferente”, l’uomo nuovo non ha più che se stesso. Su di lui regnano allora il mercato, la tecnica, l’impulso, il principio di piacere, la novità fine a se stessa, un precipitato del consumismo unito al discredito del passato, imbarazzante  infanzia dell’umanità secondo il pensiero francese accolto dall’ideologia tedesca di cui Marx fu debitore.

E’ il trionfo di Jeremy Bentham, il più illustre banditore dell’utilitarismo. L’umanità progressista è una massa puntiforme di individui isolati senza altro riferimento che l’utile immediato, eterodiretta e sorvegliata dal Panopticon, la grande prigione reticolare concepita dal Bentham, oggi tecnicamente possibile ed in gran parte realizzata grazie al dominio della Tecnica . Ai poveri sinistri senza più una causa da brandire, privati delle magnifiche sorti e progressive dell’Umanità, non è rimasto che quello che Christopher Lasch chiamò l’“io minimo”, difendere e promuovere qualsiasi soggettività, per quanto narcisistica, malata o informe.

Il destino di chi non ha bandiera è impugnare la prima che trova ovvero inventarne una che, contenendo tutti, non è di nessuno. Di qui il proliferare di ridicoli drappi con i colori dell’arcobaleno, cittadini del mondo, quindi del nulla, la difesa di qualsiasi stranezza, l’impressionante, ossessiva e poliziesca pretesa dell’uguaglianza a tutti i costi, nella forma distorta dell’equivalenza obbligatoria e nell’attacco contro tutto ciò che è normale, anzi, parola che suscita il loro orrore, “naturale”, sino all’abrogazione del termine.

Così, la famiglia naturale diventa “tradizionale”, con l’intero carico di disprezzo e discredito rovesciato su quell’aggettivo; il padre e la madre non sono che genitori “biologici”, come se ne esistessero altri in natura, al di fuori dei certificati delle leggi umane; decostruzione dell’istituto familiare, ed il Manifesto di Marx, lo ripeteremo nel finale della presente riflessione, indicò la strada. La nazionalità declina in cittadinanza, un  timbro su un documento amministrativo, il sesso si trasforma in genere, come nell’analisi grammaticale della scuola media. Il nome, ora il cognome, possono essere a scelta, in segno di liberazione da vincoli e delirante autocreazione, ma più ancora per chirurgica resezione dei legami con “prima”, figli di se stessi nella libertà assoluta di “io”.

L’aggettivo assoluto è quello che meglio descrive il mondo nuovo, ab solutus, sciolto “da”, liberato definitivamente da antiquate, barbare, insopportabili catene. Non siamo più nani sulle spalle di giganti, come disse Bernardo di Chiaravalle, ma creatori, fabbri di noi stessi che hanno raggiunto vette che neppure i grandi del passato osarono immaginare. Dottor Freccero, non si stupisca del pensiero unico titanico ed individualista dei suoi sodali e compagni, lei così colto ed attento, sismografo della realtà nuova che ha registrato, diffuso, imposto attraverso il mezzo televisivo. Della triade giacobina, la liberté è il principio più dirompente per quanto vago e soggettivo è il concetto. Lei, come molti, rimpiange il tempo in cui la sua parte preferiva l’egalité e sognava la fraternità. Ma certe parole sono come pietre, difficili da maneggiare e più ancora da sollevare, e non si può essere contemporaneamente uguali, fratelli e liberi.

Si  può invece, tutti insieme appassionatamente, essere per il nuovo e per il futuro, ossia per il vecchio, irrinunciabile progresso. Qui liberali e marxisti di ieri e di oggi concordano senz’altro: bisogna andare “avanti”, qualsiasi cosa voglia dire. Questo impose la rivoluzione francese, ed il messaggio è stato raccolto da Marx ed Engels sin dal Manifesto del 1848, un testo che dovremmo tutti rileggere per comprendere un secolo e mezzo di storia, ed identificare non le radici, ma i primi germogli concreti del messaggio e di tutte le visioni del mondo figlie dell’Ottantanove. E’ tutto lì, nero su bianco, cari esponenti del ceto progressista riflessivo sempre di sinistra, che lamentate l’abbandono dei poveri da parte dei vostri politici e maestri di pensiero, ed anche per voi, destri ritardatari e testardi, stupiti che i vostri beniamini non riescano mai a rovesciare il tavolo.

Non possono né vogliono, è il tavolo comune, sono fratelli, una vecchia ditta li abbiamo chiamati, un cartello, nel loro lessico, che si divide il mercato vendendo contenitori diversi per nascondere l’identità del contenuto, che risale al 14 luglio 1789. Un prodotto scaduto sul bancone del supermercato (super e mercato…) in cui sono esposti decine di yogurt diversi per colore, etichetta, prezzo. Se ci prendiamo la briga di controllare, tuttavia, le marche risultano tre o quattro al massimo, le multinazionali del settore. I consumatori  sono però convinti di avere scelto liberamente e nessuno, osservò Goethe, è più schiavo di chi si crede libero. Uguale è il market delle idee: molti accenti diversi per esprimere il solito concetto: mito del progresso, divieto di distinguere (discriminare…) il bene dal male , il giusto e l’ingiusto, enfasi assoluta sul soggetto, nessun criterio oggettivo di giudizio se non l’utile, l’immediato, il nuovo, il comodo, il facile.

Stupisce che un Marx, pensatore comunque tra i più potenti della civiltà moderna, non avesse capito, a meno di non accettare la conclusione più sgradita all’esercito degli orfani, ovvero che le sue idee, giacobinismo più filosofia tedesca, nonostante il comunismo reale novecentesco, sono una forma malata ed estrema di individualismo.  Egli cantò le lodi dei grandi capitalisti, esaltando la loro energica subordinazione dei mezzi agli scopi e la mancanza di scrupoli; non ebbe mai nulla da dire sulla tecnologia emergente o l’individualismo. Si limitò a combatterne la forma borghese, secondo lui la fine delle comunità poteva sì essere spiacevole, ma non era che il prezzo da pagare per il “progresso”.

Del pari, le prime avvisaglie di individualismo sessuale non lo infastidivano affatto. La visione marxista del matrimonio e della famiglia è sì contraria alla sua riduzione a contratto, ma solo per giungere alla conclusione più coerente, ovvero il superamento del vincolo matrimoniale con libere unioni, fondate sulle preferenze personali. L’unico interesse sociale riservato alla famiglia, bontà sua, è per la riproduzione e l’allevamento della prole, niente più di zootecnia igienica ed organizzata, poi penserà a tutto lo Stato socialista. Gli adulti consenzienti possono decidere di instaurare qualsiasi tipo di relazione, poiché scopo ultimo del socialismo è il pieno sviluppo dell’individuo. La morale borghese è , né più né meno, una truffa, e le mogli dei borghesi esercitano, in qualità di sfruttate, una prostituzione mascherata da virtù e da “produzione “ dei figli.

Nel Manifesto si arriva a sostenere che il matrimonio borghese  non è che “la comunanza delle mogli”, adulteri incrociati, una specie di circolo di scambisti ante litteram, nonché sfruttamento dei figli. I comunisti, più franchi ed onesti, la sostituiranno con l’assoluta libertà di unione, ergo, se le parole hanno un senso, anche di scioglimento e disunione. Di che cosa stanno parlando, dunque, i tanti Freccero perplessi ? Il marxismo si è limitato a portare a logica conseguenza il modo liberale di intendere la vita ed i rapporti civili ed umani, demitizzando ipocrisie e tentennamenti. Giù la maschera, spunta il volto. In più, ha fornito una cornice ideale e parareligiosa al quadro dipinto dagli illuminati sin dal XVIII secolo.

La destra, per pigrizia mentale e per non scoprire gli scheletri del proprio armadio, addossa al mondo  marxista la distruzione dei valori familiari, patriottici, religiosi, morali, e formula l’accusa di aver abbandonato la nozione di bene comune. Ha torto. I responsabili sono molti e diversi, il principale è il liberalismo progressista, quello della reductio ad unum: abolire limiti, valori, freni, credenze, scrupoli affinché vinca il mercato con i  suoi valori, denaro misura di tutte le cose, successo, utile. Gli altri si sono limitati a pretendere che la torta venisse divisa più equamente. Anche per i socialisti le leggi economiche sono infatti “naturali” ed inderogabili. L’ottimismo storico di tutti i progressismi, regolarmente smentito dai fatti, si basa sulla negazione dei limiti che la natura pone alla libertà ed all’agire umano.

Anche nei riguardi della proprietà privata si possono fare paralleli arditi, ma non così folli. Marx intese abolire la proprietà “borghese” e non ebbe nulla da ridire sul fatto che i primi vagiti dell’economia capitalistica espellessero dal mercato, riducendo a proletari, i piccoli contadini, gli artigiani, tanti commercianti, i piccoli e medi imprenditori: è il progresso, bellezza, domani metteremo tutto a posto noi, e ciascuno avrà secondo i suoi bisogni (nessun egalitarismo, quindi…) ed i magazzini saranno pieni di merci. Nella edificazione del paese dei balocchi, hanno perduto su tutta la linea di fronte al liberalcapitalismo, ma uguale è la determinazione a ridurre gli uomini a mezzi ed a concentrare la proprietà. Là lo Stato, o meglio i burocrati di partito più abili e svelti ad impadronirsi dell’apparato produttivo, qui le grandi società, le concentrazioni, le fusioni, partecipazioni incrociate, multinazionali e giganti finanziari all’ombra delle banche centrali.

Fu un ex marxista americano, James Burnham, negli anni Quaranta del secolo passato a teorizzare l’avvento di una nuova classe, quella dei tecnici e dei managers nel fondamentale saggio La rivoluzione manageriale, tradotta in italiano nel 1946. La nuova classe, quella per intenderci dei Marchionne e dei Montezemolo, è distinta da quella dei proprietari – azionisti, il loro orizzonte orientato al profitto immediato con ogni mezzo. La nuova classe non può che essere la più progressista della storia, se incremento di vendite, conquista di mercati, bilancio ed indici di borsa sono gli unici criteri di giudizio. Anni fa, il titolare di un emporio di materiale pornografico affermò con orgoglio: io ho la partita IVA e pago le tasse. Buon per lui, come per i titolari del gioco d’azzardo e persino per gli spacciatori di droga, la cui attività è da qualche anno calcolata nel Prodotto Interno Lordo. E buon per il pittoresco “Boss delle Cerimonie” se si festeggiano con gran spreco di denaro le unioni incivili di omosessuali e, presto, forse i matrimoni poligamici.

Negli anni Ottanta, Ronald Reagan andò al potere negli Stati Uniti con il programma di ripristinare i valori tradizionali dell’America profonda. Finì con un ampio programma di diminuzione di tasse per i ricchi, la costruzione di migliaia di centri commerciali che trasformarono i commercianti in dipendenti a basso reddito o disoccupati e gli americani in consumatori compulsivi. Non passarono neppure blande restrizioni dell’aborto, sembra per l’opposizione (femminista ?) della dolce signora Nancy Reagan; in Gran Bretagna Margaret Thatcher piegò i minatori e spiegò di non conoscere né sindacati né operai, né inglesi o stranieri, ma solo individui.

La libertà liberale, dunque, su questo Marx vide giusto, si riduce al libero commercio ed alla volontà prometeica di spostare l’orizzonte sempre più in là, operazione insensata negata dalla logica, giacché l’orizzonte non esiste che rispetto all’osservatore ed al suo punto di vista. In quest’ottica, per cambiare le cose occorre liberarsi  dell’idea di progresso lineare e del preteso senso della storia. Diversamente, se oggi è più di ieri e meno di domani, ed il cammino dell’uomo è una marcia inarrestabile a disfarsi del passato, resteranno solo il consumo sfrenato e una libertà astratta di cui l’uomo non saprà fare uso se non riducendo se stesso alla sua parte più bassa, istintuale o infera.

A destra, ci si ostina a non vedere quel che davvero importa ai piani più alti, a sinistra contemplano le parti intime. Tra guardie bianche e ascari rossi, vincono i padroni globali. E’ un panorama desolante, dottor Freccero, ha proprio ragione, ma non c’è nulla di strano, in questo mondo rovesciato, se coloro a cui ha dedicato la vita preferiscono i presunti diritti sessuali ed omosessuali e il libero soddisfacimento delle pulsioni alla coesione sociale ed ai diritti popolari. Quando si enuncia un principio (l’inarrestabile progresso e la libertà come inesausta distruzione di vincoli e limiti) e lo si persegue con coerenza, qualcuno vorrà pur andare fino in fondo, alzare la posta, spingersi più in là. I suoi compagni – se la parola ha ancora per lei un senso ed un significato – saranno sempre i migliori inventori/produttori di nuovi “diritti” da rivendicare e consumare con moneta sonante, carte di credito o a strozzo sul libero, liberissimo mercato dominato dai nemici di ieri e dell’altro ieri.

Fraternità e uguaglianza non pervenute, ma, mi creda, non è il peggiore dei mali.

5 commenti su “I progressisti pensosi, gli orfani del popolo – di Roberto Pecchioli”

  1. articolo magistrale che dimostra l’esito catastrofico delle due ideologie rimaste: il dio denaro e la decostruzione della società con l’eliminazione di ogni vincolo.
    speriamo che si prenda consapevolezza in modo da cominciare a difenderci seriamente da questi due apparati, entrambi ormai in corsa accelerata verso la dissoluzione del sistema (che pure li tiene in vita)

  2. Lucidissima analisi, carissimo amico: spero raccoglierà in un libro tutte queste riflessioni che ci regala. Si torna a respirare …
    En passant; sconvolgente la rivelazione della conversione di Tronti: Sconvolgente e basta.

  3. Perfetta analisi, come sempre, quella di Pecchioli. Del VERO popolo e dei suoi VERI bisogni non interessa niente (quanto disprezzo gronda dalla parola populismo) né alla cosiddetta sinistra né alla cosiddetta destra liberale, né ai popolari né ai socialisti, due facce della stessa medaglia giacobina, ma era già tutto in Marx. E’ da aggiungere che la gerarchia “cattolica” aveva un pensiero da tener saldo e da offrire al mondo, il pensiero tradizionale di sempre, la dottrina sociale, le encicliche dei Papi che dalla fine del settecento al 1958 si sono consumati nello sforzo di condannare gli errori moderni e di ribadire la Verità (nessuno come gli ultimi Papi di nome Pio aveva visto chiara la parentela fra liberismo e marxismo). E invece che fa la chiesa conciliare? Sposa il pensiero unico progressista, fino alle ultime aberrazioni antinaturali; sposa il neomaltusianesimo (non fate figli come conigli!); sposa il capitalismo globalista (non ingannino le sparate roboanti ma inoffensive sui poveri). Qualcuno però dice che questo matrimonio è stato fatto con un cadavere, con un mondo…

  4. che sta già dando segni di disfacimento, qualcuno dice che il capitalismo globalizzato è nella sua fase terminale e crollerà su se stesso rovinosamente, come l’altro idolo suo fratello, il comunismo: speriamo! Ma allora assisteremo al triste spettacolo che la chiesa conciliare non avrà niente da dire agli uomini disperati: crollerà anch’essa, nel senso che ci sarà il pieno ritorno della Chiesa cattolica rimasta sottotraccia e della Tradizione? Tutto è nelle mani di Nostro Signore…….Sarà molto faticoso ricostruire, ripartire da capo…….ma ci saranno quei pochi, ma temprati santi sacerdoti che stanno già ora mantenendo la barra dritta, che a rischio di persecuzione non deflettono dalla Verità e che allora sapranno offrire la luce di sempe: che la Vergine di Fatima li protegga, preghiamo per loro, sono un tesoro inestimabile.

  5. La diagnosi e’ perfetta. Ma non comprendo l’assenza di una qualsivoglia terapia. Caro Pecchioli, perché manca un (anche minimo) progetto di soluzione? Perché non azzarda (il rischio e’ inevitabile) una possibile via di uscita? Nel 1819 de Maistre riconobbe nel Papa e nella Chiesa Cattolica gli unici garanti dell’ordine; mi pare di intuire la risposta: “Certo! Ma con quella Chiesa! E con quei Papi!” Quindi? Che fare? Diamo una pennellata di “Dignitatis Humanae” al tutto e muoriamo intonando l’Alleluia delle lampadine (“perché la festa siamo noi” ecchissenefrega di Gesù)?

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