Tutti sono d’accordo sul cattivo stato della scuola, lo imputano alla sua vecchiaia e ne chiedono a viva voce il rinnovamento. Tutti sembrano così ignorare che nella scuola italiana l’innovazione è iniziata negli anni Novanta con la legge sull’autonomia scolastica, che ogni ministro ha messo mano a una sua riforma e che è esecutiva già da otto anni la legge Renzi-Giannini, nella quale l’innovazione è considerata il fine ultimo della didattica. Con un piccolo sforzo di memoria noi stessi possiamo ricordare che già nelle scuole che frequentammo in gioventù ai classici si preferivano libri che avevano il solo pregio di essere appena stati scritti, che vi si rifiutava già Dante, per non parlare di Manzoni, a cui si affibbiava perfino l’epiteto di «sacrestano». L’innovazione è uno sforzo che tormenta la scuola italiana già da mezzo secolo; nondimeno sembra che non sia riuscita a migliorarla.
Nuovo è un momento della categoria del divenire, è la freschezza della gioventù che è appena venuta alla gioia dell’essere ed è lontana dalla tristezza di essere risucchiata nel nulla. Nuovo non ha però solo un significato positivo, ma significa anche inesperto. Così gioventù e vecchiaia possono essere complementari: la vitalità di quella può essere guidata dall’esperienza di questa. C’è però un impulso radicale verso il nuovo che rifiuta l’esperienza. Esso nasce dalla condanna in blocco dell’esistente, dalla volontà di estirparlo dalle radici. L’esistente ha una forma, cioè è disposto secondo una scala di valori, una gerarchia. Rifiutarli assume l’aspetto del desiderio di un totalmente altro, di una novità impossibile. È questo l’impulso rivoluzionario, quello più radicale e più gravido di conseguenze storiche; infatti il nuovo non vi è nulla di positivo: all’impulso rivoluzionario può mancare del tutto il momento costruttivo.
La rivoluzione può essere pura distruttività dell’esistente, nella presunzione che qualunque sostituto sia migliore. Ma qualunque sostituto dell’esistente è a sua volta esistente, cioè ha una forma, una gerarchia. L’impulso rivoluzionario deve dunque distruggerlo di nuovo. In questo modo arriva alla sua forma coerente: esso non vuole sostituire il vecchio con un nuovo migliore, vuole sostituire e sempre di nuovo sostituire, perché non il nuovo, ma l’atto dell’innovazione è il bene. La rivoluzione non deve essere dunque una breve convulsione con cui il bene si scuote via di dosso il male, ma è una lotta che si approfondisce con il passare del tempo – come scrisse Stalin – o semplicemente rivoluzione permanente – come la indicò il suo rivale Trockij. Il Novecento mostra che c’è un impulso alla novità che si esaspera nell’ideale dell’innovare per innovare, e che questo impulso cela l’amore del nulla e il trionfo della soggettività finita. L’innovare per innovare è il nichilismo.
Tuttavia, non tutto ciò che viene dal passato è vecchio, cioè in procinto di estinguersi; della realtà ereditata dal passato molto è ancora perfettamente vitale. È questo passato che non invecchia la base dell’esperienza e della saggezza di chi non è più giovane. La furia nichilistica dell’innovare assimila invece l’intero esistente al vecchio, e trascura la presenza e il significato del durevole nell’esistente. Essa concepisce la categoria del divenire come assoluta, di ciò che è sa predicare solo la morte, di ciò che non è, solo la nascita. E non si accorge che assoggettare tutto al divenire significa assoggettargli lo stesso divenire, dunque negarlo e affermarne l’opposto, cioè spegnerlo nel durevole. Il nichilismo dietro all’innovare per innovare si nega in virtù della sua coerenza: proprio perché è posto come principio, muta nel contrario di sé stesso, ed è il durevole che non è né vecchio né nuovo.
La forma definitiva del durevole è la legge. Essa è infatti la costanza nella variabilità, l’essere che domina il divenire. La visione nichilistica della scienza, quale si è diffusa nel Novecento, può anche enfatizzare la precarietà dei confini della ricerca; non per questo si può trascurare la stabilità del nucleo. La logica di Aristotele è ancora oggi il cuore della logica formale. La matematica greca assiomatizzata da Euclide è tutt’ora il cuore della matematica, e lo resterà eternamente. Se ne andasse perduta la memoria, la si dovrebbe riscoprire. La teoria della relatività non distrugge affatto la fisica ereditata, ma compone la meccanica newtoniana con l’elettromagnetismo di Maxwell.
La scienza nasce dalla ragione, non è dunque nichilistica, ma critica: nel criticare conserva il criticato come componente particolare della nuova conoscenza, così che il criticato si fissa per sempre nel nucleo della scienza stabilizzandolo e di esso non ci si può mai disfare come di un’aberrazione momentanea. La scienza non si rifà da capo ogni giorno; essa è una tradizione che allarga il suo perimetro a partire da basi durevoli quali le regole della logica, i teoremi della matematica, i principi della fisica, della chimica, della biologia, del diritto. È perché il divenire stesso diviene e si riduce a una componente del durevole che ancora oggi Platone e Aristotele, Omero e Sofocle non solo ci commuovono, ma ci insegnano l’essenziale. Essi sono indenni al trascorrere dei millenni perché hanno saputo trovare ed esporre le leggi elementari della realtà e ci offrono la chiave per dominare il divenire.
Se il divenire si abolisce nel durevole e il durevole si esprime come legge, e se le leggi costituiscono un ambito speciale, privilegiato, della realtà che ci consente di prevederla e di utilizzarla, deve poter esistere una forma comunicativa adeguata al durevole e alle sue leggi. Il linguaggio umano di parole è fuggevole, variabile, suscettibile di continue derive. Finché il linguaggio è stato solo orale, le leggi non sono state espresse come tali, non sono state tramandate e non hanno rappresentato i punti di avvio per la scoperta di nuove leggi; la scienza ha ristagnato. Solo la scrittura ha consentito al durevole di essere espresso in modo durevole, così da non essere più oggetto di continue faticose riscoperte.
È diventato un tesoro di cui ognuno può appropriarsi, e con uno sforzo infinitamente più piccolo che se lo avesse dovuto scoprire da solo. Questo sforzo con cui ci appropriamo delle scoperte altrui per poi farne di nuove si chiama istruzione scolastica. Finché si resta immersi nel pantano del nichilismo, tanto più pericoloso quanto più inconsapevole, non si è in grado di comprendere che la scuola non trasmette affatto il vecchio ai giovani; al contrario, essa innalza i giovani al durevole, alle leggi delle cose, che non sono né vecchie né nuove. Di qui la specificità delle sue forme, attente al durevole: la scrittura, la grammatica, le opere d’arte eterne, la matematica euclidea, le scienze e le filosofie. Senza la conoscenza di queste leggi elementari non sono possibili né conoscenze né abilità, si ripiega dall’ignoranza alla distruttività.