di Alberto Rosselli
I MITI DEL MARXISMO
Per molti, troppi decenni l’esaltazione incondizionata del mito della Rivoluzione Russa del ‘17, quello dell’Unione Sovietica e dei sistemi comunisti in generale sono entrati a fare parte, se così si può dire, della “buona” coscienza collettiva di milioni di individui convinti della giustezza della “lotta di classe” marxista e dei metodi adottati in molti paesi per applicarla. Questa febbre di massa che per circa settant’anni, dal 1917 al 1989, ha imperversato in Europa e nel mondo è stata favorita ed aggravata dall’atteggiamento di una vasta porzione di intellettuali che attraverso le loro opere e le loro esternazioni hanno contribuito a mantenere in vita il mito del più drammatico e fallimentare esperimento culturale, politico e socio-economico dell’evo contemporaneo.
A distanza di anni appare quindi interessante andare a rileggere ciò che noti uomini di pensiero scrissero o dichiararono a sostegno e ad elogio dei sistemi marxisti, primo fra tutti quello moscovita. Già nel 1919, lo storico della rivoluzione francese Albert Mathiez giustificò il regime di terrore instauratosi in Russia, arrivando a paragonare (ma sarà poi un complimento?) Lenin a Robespierre. Nel 1931, un altro francese, il poeta Louis Aragon (1897-1982) nel suo Prélude au temps des cerises, dedicò addirittura un sinistro e grottesco cantico alla Ghepeù (la spietata polizia politica bolscevica): “Chiedo una Ghepeù per preparare la fine di un mondo / Viva la Ghepeù contro il papa e i pidocchi. / Viva la Ghepeù contro la sottomissione alle banche / Viva la Ghepeù contro la famiglia”, e via di questo passo. Oltreoceano, non fu però da meno il romanziere Upton Sinclair che a proposito della collettivizzazione sovietica dell’agricoltura, scrisse: “In Russia i bolscevichi cacciano i contadini ricchi dalla terra e li condannano ai lavori forzati…Tutto ciò costerà forse un milione di vite, forse cinque milioni…Ma in fondo nella storia umana non si è mai verificato un qualche significativo cambiamento sociale senza che ci fossero dei morti”. Notevole sensibilità e spirito umanitario li dimostrò pure il celebrato scrittore Maksim Gorkij (1868-1936), che non si fece scrupolo a lanciare il suo famoso patriottico appello (“Sterminate il nemico senza pietà né misericordia”): proclama che di fatto avvallerà le “purghe” staliniane. L’elenco dei grandi e dotti apologeti del comunismo prosegue con il filosofo Maurice Merleau-Ponty che nel 1947, polemizzando con lo scrittore Koestler, giustificò il Grande Terrore staliniano come “premessa necessaria per la costruzione di una nuova società proletaria”. Ma bisogna arrivare a Bertolt Brecht (1898-1956) per vedere espresso forse in maniera più compiuta l’esprit politique che animò gli intellettuali marxisti o filomarxisti occidentali. Così il famoso regista pianse nel marzo 1953 la dipartita di Stalin: “Gli oppressi di tutti e cinque i continenti hanno provato una stretta al cuore alla notizia della morte di Stalin. Egli era l’incarnazione delle loro e delle nostre speranze”. Ma non è tutto. Nel giugno 1953, in occasione della rivolta operaia di Berlino repressa dai carri armati sovietici, Brecht scrisse al presidente della Germania Orientale Ulbricht per congratularsi e per rinnovargli il suo apprezzamento al regime comunista tedesco. “Elementi fascisti sobillati dall’Occidente – annotò l’intellettuale – hanno cercato di sfruttare l’insoddisfazione del popolo (lapsus che indurrebbe a pensare che proprio il popolo tedesco orientale non dovesse spassarsela troppo sotto il regime comunista) per perseguire i loro subdoli e sanguinari propositi…Ma grazie al rapido e puntuale intervento delle truppe sovietiche questo tentativo è stato vanificato…Ovviamente, le forze armate russe non se la sono presa con gli operai, ma contro la marmaglia fascista e guerrafondaia composta da giovani diseredati di ogni risma che aveva invaso Berlino”. E dai tragicomici deliri brechtiani passiamo alle chicche prodotte da un altro celebrato personaggio della pleiade intellettuale marxista, l’ungherese György Lukacs (1885-1971). In un’intervista alla New Left Review del luglio-agosto 1971, Lukacs non ebbe infatti tentennamenti (e senso del ridicolo) nel sentenziare che: “il peggiore dei regimi comunisti è sempre meglio del migliore dei regimi capitalisti”. Non scampò al grottesco nemmeno il commediografo irlandese George Bernard Shaw (1856 -1950) che nel 1931, durante un viaggio in Urss, “ammirò il realismo di Stalin”, affermando che “la Russia non aveva alcun problema alimentare…e che disponeva di un sistema carcerario modello”. Aggiungendo: “in Inghilterra un delinquente entra in prigione come un uomo normale e ne esce criminale, mentre in Russia egli entra che è un criminale e ne viene fuori rigenerato…A tal punto che molti carcerati, per migliorare se stessi, si prolungano spontaneamente la pena”. Non contento, Shaw così concludeva: “Stalin ha mantenuto tutte le promesse; ha creato una società giusta e di conseguenza mi tolgo il cappello davanti a lui”. Più sensate risultarono invece le osservazioni sul “paradiso dei lavoratori” vergate dal romanziere H. G. Wells che nel 1934, dopo un incontro con Stalin, arrivò ad ammettere con un certo inquietante imbarazzo “la sostanziale mancanza di libertà esistente nell’Urss”, giustificandola però con “lo sforzo profuso dal Soviet per creare una società razionale”. Nel 1935, il filosofo e matematico Ludwig Wittgenstein rimase anch’egli folgorato dal marxismo. Visitò l’Urss e per alcuni anni coltivò addirittura l’idea di trasferirvisi, convinto che questo paese rappresentasse un’alternativa valida e necessaria alla decadenza dell’Occidente. “La tirannia comunista – egli sostenne con aritmetica sinteticità – non mi indigna…l’Urss è un paese duro ma giusto”. Nei primi anni ‘30 l’economista John Maynard Keynes studiò il sistema agricolo sovietico, accorgendosi suo malgrado delle paurose carestie provocate dai piani quinquennali. Comunque sia, egli preferì tacere per amore di ideale.
Un capitolo a parte meritano le dichiarazioni e gli scritti del sopravvalutato filosofo esistenzialista Jean-Paul Sartre (1905-1980) che, dopo avere tranquillamente lavorato e discretamente guadagnato, tra il 1940 e il 1944, sotto il regime collaborazionista di Vichy, si buttò a capofitto nella causa comunista. Tra il 1947 e il 1951, egli divenne infatti un fervente stalinista, al punto da rompere le sue relazioni con i più critici ed accorti Raymond Aron, Arthur Koestler e Maurice Merleau-Ponty. “Non accetto – polemizzò disgustato Sartre – “di seguire i miei ex-amici nella condanna dello stalinismo”. Nel 1952, Sartre ruppe anche con Albert Camus, che attaccava i metodi coercitivi e sanguinari di Stalin (“Non essendo noi membri del Partito, non era affatto nostro dovere pronunciarci sui campi di lavoro sovietici”, spiegò il dolente padre dell’esistenzialismo, dando prova di notevoli doti dialettico-acrobatiche). Nel 1952, il filosofo partecipò alla Conferenza del Movimento per la Pace organizzata dai comunisti a Vienna e nel 1954, dopo un viaggio in Russia, con una serie di ‘articolesse’ per Libération elogiò senza indugi e in toto il sistema marxista: “In Urss – azzardò Sartre – la libertà di critica è totale…I cittadini sovietici criticano il loro governo molto più apertamente e in modo più efficace di quanto non facciamo noi…La condizione socio-economica del popolo sovietico è in costante miglioramento…Tutti sono ammirevolmente nutriti ed alloggiati…E non si recano all’estero non perché il governo lo impedisca, ma perché non hanno alcun desiderio di farlo…Nel sistema sovietico l’interesse del singolo e quello della collettività sono perfettamente coincidenti…L’Urss marcia verso il futuro”. Nel 1956, il filosofo transalpino arrivò a respingere addirittura il rapporto segreto di Kruscev sulle stragi di Stalin, dichiarando: “Trovo inammissibile l’esistenza dei campi di concentramento sovietici, ma trovo altrettanto inammissibile l’uso giornaliero che ne fa la stampa borghese…Kruscev – si lamentò il vate delle caves – ha denunciato Stalin senza fornire sufficienti spiegazioni, senza avvalersi di un’analisi storica, senza prudenza”.
A proposito dei numerosi processi di Mosca e delle torture inflitte ai condannati, lo scrittore francese André Malraux (1901-1976) giocò su folgoranti ma assai poco accettabili analogie storiche: “Proprio come l’Inquisizione non distrusse la fondamentale dignità del cristianesimo, così i processi di Mosca non hanno diminuito la fondamentale dignità del comunismo”. Anche le ripetute denunce circa l’esistenza dei gulag non scalfirono minimamente la fede di moltissimi intellettuali occidentali “progressisti”. Unica eccezione André Gide che nel 1936 visitò l’Urss rimanendone disgustato. Al suo ritorno in Francia, Gide osò parlare della repressione staliniana in atto, ma venne subito isolato. Dal canto suo, il filosofo Roger Garaudy ridicolizzò “le voci sui gulag” e lo scienziato premio Nobel Frédéric Joliot-Curie testimoniò “che i russi sono un popolo felice che sostiene il proprio regime”. Ma non è tutto, ancora nel 1972, il poeta Pablo Neruda (1904-1973) – che nel 1971 vinse il Nobel per la Letteratura, ma anche il grottesco premio per la Pace “Lenin” -. giudicò “problemi assolutamente personali” quelli incontrati da Aleksandr Solgenitsyn e dagli altri illustri intellettuali russi rinchiusi nei gulag, spiegando: “di non avere alcuna voglia di diventare uno strumento della propaganda antisovietica”. Negli anni Settanta, si rifece vivo l’immarcescibile Sartre che dopo avere benedetto i moti studenteschi del Sessantotto, ritornò alla carica, esaltando le gesta dei gruppi terroristici italiani e tedeschi e di quelli palestinesi. “Il terrorismo è l’arma lecita del povero”, sentenziò, giustificando la strage di Monaco compiuta dai terroristi palestinesi in occasione delle Olimpiadi. Nulla di strano comunque. Già negli anni ‘60, egli aveva pronunciato più di un’apologia della prassi violenta “antiborghese e antimperialista”. Nella prefazione ai Dannati della terra (1961) di Franz Fanon, il filosofo esistenzialista aveva sottolineato: “uccidere un europeo occidentale è conseguire contemporaneamente due scopi: eliminare l’oppressore e l’uomo che di quell’oppressione è il frutto”. E nel 1968, dai microfoni di Radio Lussemburgo, Sartre aveva così giustificato la rivolta studentesca e la violenza come giusta pratica reattiva: “La violenza è l’unica cosa che resta agli studenti che non sono ancora entrati nel sistema creato dai loro padri…Nei nostri paesi occidentali infiacchiti, l’unica forza di contestazione di sinistra è infatti costituita dagli studenti…La perfezione sta invece nei Paesi marxisti e in particolare in Cina e a Cuba”. Nella primavera 1970, Sartre accetterà di entrare a fare parte del gruppo maoista Sinistra Proletaria, diventando anche direttore responsabile del giornale La Cause du Peuple (organo dalle cui pagine si incitavano i militanti a sequestrare e chiudere nelle “prigioni del popolo” i direttori delle fabbriche e a linciare deputati e ministri).
Concludiamo la parata degli intellettuali occidentali infatuati dei sistemi comunisti con Noam Chomsky che nella seconda metà degli anni Settanta, oltre ad elogiare il sistema maoista, sostenne entusiasticamente la causa dei khmer rossi cambogiani, negando i ben noti, spaventosi massacri perpetrati dal loro leader Pol Pot nei confronti di milioni di persone. Nel 1977, il linguista americano giudicò “storie inventate dagli occidentali reazionari” le atrocità compiute dai khmer e dai vietcong e “assolutamente inattendibili” i racconti e le testimonianze dei profughi cambogiani e vietnamiti (i boat people) scampati alle persecuzioni dello “zio” Ho Chi Minh. Chiudiamo questa sconcertante rassegna con il vecchio leader radicale americano Scott Nearing (già apologeta dell’Urss negli anni Trenta) che nel 1982 cantò anch’egli le lodi dell’“l’illuminato” Pol Pot e del satrapo comunista albanese Enver Hoxha: “Si tratta di due autentici geni della politica rivoluzionaria; due uomini che tutto hanno fatto per fare felici i propri popoli”. No comment.
]]>