Di Piero Vassallo
Per disegnare l’idea di una destra ispirata ai veri princìpi cristiani è necessario considerare il fondamento reazionario, sul quale regge sia l’assolutismo antico che il totalitarismo moderno.
Il contributo decisivo, che Francisco Elias de Tejada ha dato allo sviluppo dell’autentico pensiero di destra, consiste, infatti, nella confutazione e rimozione del fuorviante pregiudizio, diffuso dalla cultura di stampo massonico, che suggeriva la medicina assolutista (e “ghibellina”) quale rimedio al totalitarismo.
Altro è il codice genetico della destra. L’espressione “destra”, infatti, è usata per la prima volta alla fine del XVIII per significare la collocazione degli oppositori alla secolarizzazione del clero, programmata da quella rivoluzione giacobina, che aveva portato alle conseguenze estreme il progetto dell’assolutismo borbonico inteso a separare la Chiesa di Francia dal Papato, per poi asservirla al potere regio.
Altro che alleanza del trono e dell’altare. Quando si evita il tranello delle ricostruzioni anacronistiche, è legittimo sostenere, con De Tejada, che la destra moderna ha un’ispirazione “guelfa”.
La destra delle origini si opponeva al partito rivoluzionario, che riprendeva ed esasperava il programma dell’assolutismo gallicano, inteso a contrastare il papato e ad usurparne il potere.
Non a caso il movimento dei “Viva Maria!” nasce in Toscana in opposizione alla politica “gallicana” del Granduca (assecondato dal vescovo di Pistoia Scipione de’ Ricci, che in seguitò aderirà al partito filo-giacobino).
La vera destra, pertanto, combatte la rivoluzione anche o sopra tutto per i suoi non trascurabili aspetti codini e reazionari e rifiuta l’illusoria “reazione” perché il cuore antico, “ghibellino”, del pensiero in parrucca e grembiule – la supremazia del potere secolare sul potere spirituale – si rovescia spontaneamente nella rivoluzione laicista.
Capire l’origine della vera destra significa uscire dai dogmi della volgata storiografica, che un tempo si diceva progressista, e però riconoscere che l’ispirazione cristiana della politica è la sola alternativa al nodo illiberale costituito dalla convergenza dell’assolutismo antico nel totalitarismo moderno (ultimamente trasformato in “totalitarismo della dissoluzione”).
In definitiva: in età moderna il pensiero della vera destra comincia quando sono evidenti la sotterranea parentela di gallicanesimo e giacobinismo e il prolungamento dell’assolutismo nella rivoluzione totalitaria.
A destra non tutti hanno chiara la continuità dell’errore assolutista nell’errore totalitario e perciò alle “mani sapienti” risulta facile seminare le suggestioni che fanno prosperare le idee ultime della modernità nel campo acritico della nostalgia reazionaria.
Nei settori meno intelligenti e avveduti della destra reazionaria si assiste, ultimamente, alla paradossale e sconcertante esplosione di un nichilismo arbitrariamente intitolato all’Antimoderno.
Il nichilismo reazionario, nato nello “splendore” profano del boudoir, tra nobili parrucche e spietati frustini, ultimamente fluttua nei gemiti elegantemente spirituali, stampati sui cartigli color pastello, che la casa surrettizia Adelphi (nomen massonico omen) produce in concorrenza ai dolci sospiri di un cioccolatiere perugino.
L’involuzione spiritualista è un destino, in marcia con il pensiero del nulla dopo che il “flaneur” Nietzsche ha sollevato le carnali dissolutezze sadiane agli astratti voli di Dioniso.
D’Annunzio fece un passo avanti nella direzione dell’esito tombale, celebrando l’amor profano con i sacri paramenti neri. Guido da Verona cantò l’estenuazione totale del dannunzianesimo. Infine uno spiritista degli anni tardi esplorò (a tavolino) i territori dell’oltretomba.
Solo gli anziani ricordano l’antefatto dell’avventura adelphiana: negli anni Trenta, godette di prestigio mondano un freddurista torinese, che firmava, con uno pseudonimo squillante, Pitigrilli.
Scosso da un perpetua ridarella, che gli impediva di prendere sul serio l’esplosione della quisquilia nella filosofia, il freddurista era capace di scrivere duecentoquaranta pagine per dimostrare, in immaginario dibattito con la regina Elena, che il pollo non si porta alla bocca con le mani ma con la forchetta elegante e virtuosa.
Inoltre Pitigrilli pubblicava saggi e racconti di varia intrepidezza esoterica, ad esempio “Cocaina”.
Nel secondo dopoguerra Pitigrilli, ammosciato dalle personali disavventure, si convertì allo spiritismo da tavolino e, anticipando il mistico successo del mago torinese Rol, di Elémire Zolla e di Roberto Calasso, si diede alla scrittura di articoli medianici, in bilico tra piste di cocaina e polli in punta di forchetta.
(Per gli eventuali curiosi e/o studiosi di cose bizzarre e stravaganti si rammenta che negli anni Cinquanta gli articoli pitigrilleschi apparivano ogni mercoledì nelle pagine romane della “Tribuna illustrata”).
Il cerchio nichilista finalmente si chiude. Pitigrilli dopo Pitrigrilli, e dopo Pitigrilli il contraffatto spiritualismo: pubblicato dall’immancabile Adelphi, è diffuso in Italia, “In margine a un testo implicito”, il capolavoro del colombiano Gómez Davila.
A comando (iniziatico?) il parco degli scriteriati di destra mette il naso di cartone e giubila. L’autore del catechismo neoreazionario “De Rege”, in quarantasette colonne di piombo neodestro, almanacca un tortuoso calendario di mistici viaggi da una costa dell’Atlantico all’altra. Alla fine dell’andirivieni è annunciata la dottrina del Terzo Millennio: ex Bogotà lux.
Nella destra di Gianfranco Fini si presenta una triade senza guinzaglio: l’allucinazione mistica (lux), i viaggi nell’auto-inganno e i viatici colombiani.
Ad ogni modo l’autore di “De Rege” spiega che la dottrina del colombiano, volante da un oceano di saggezza all’altro, è costituita da pensieri brevi e folgoranti (nel testo si parla – con terminologia quasi farmaceutica – di “corroborante ed energetico spirituale”) a margine di una monumentale (trentamila volumi) biblioteca.
Biblioteca monumentale senza dubbio. Pensieri corroboranti ed energetici lo dice il dietista. Chi si esalta con l’apologia demaistriana del boia può esultare anche col prodotto della cultura colombiana. Ma spirituale?
Gómez Davila è un Pitigrilli senza sorriso, un fine dicitore che si è fermato alle soglie medianiche dello spiritismo. I suoi aforismi sono goffe metafore abbaiate in un trombone di latta.
Ad esempio: “Dopo aver screditato la virtù, sentenzia il dotto colombiano, questo secolo è riuscito a screditare anche i vizi. Le perversioni sono diventate parchi suburbani frequentate in famiglia dalle moltitudini domenicali”.
L’immagine è dettata dall’aristocratico disprezzo per la plebe (“la presenza politica delle moltitudini culmina sempre in un’apocalisse infernale” si legge in un altro prezioso aforisma) e dall’ammirazione per i godimenti controrivoluzionari, che si consumano nei giardini esclusivi dell’oligarchia (“Tra i moderni succedanei della religione forse il meno abietto è il vizio”).
Sugli aristocratici succedanei della religione non ci sono dubbi. L’agitìo dei frustini si vede ad occhio nudo. Ma dove si trova la spiritualità?
Nel testo gomezdaviliano appaiono anche ossimori tragicomici, da recitare con la mascella contratta dallo spasimo.
Ad esempio: “Grande scrittore è quello che intinge in inchiostro infernale la penna che strappa dall’ala di un arcangelo”. Passi la stupidità del paragone. Passi il fracasso retorico. Ma chi è l’arcangelo spennato? L’autore del “De Rege”? E il grande scrittore? Fabio Granata? Alessandro Campi?
Dopo gli ossimori il colombiano sciorina pensieri acrobatici, che procurano i brividi del salotto laico di Fini: “Chiamiamo filosofia la logica del discorso che ha per tema l’assurdo. … Dio è la condizione trascendentale dell’assurdità dell’universo. … Dio stesso è l’autore di certe bestemmie”.
Nessun cioccolataio svizzero mescolerebbe i suoi prodotti con simili cascami del repertorio pitigrillesco.
La destra reazionaria, invece, attribuisce al pensatore colombiano la carica ideale di ammiraglio della fede reazionaria, che ritorna in Europa dopo il bagno nella luce di Bogotà.
Tanta ingenuità ha una spiegazione. Infatti l’editore di Gómez Davila è quel Roberto Calasso, che, nelle pagine del quotidiano illuminista “Repubblica”, Pietro Citati, adulatore vaselinoso e scodinzolante, definisce “belva morbida sinuosa, pericolosa, insidiosa … che insegue e odora dovunque … un gatto che con piccoli, tenui colpi di zampa attrae i suoi topi, le sue vittime” (Repubblica, 16 maggio 2001, pag. 49).
Le vittime-topi sono gli intellettuali di Fini, che in un paesaggio terremotato leggono i libri adeplhiani.
Sospendiamo il giudizio sull’immaginazione di Citati: belva morbida e sinuosa potrebbe essere la cantante Milva (detta, per l’appunto, pantera di Goro) piuttosto che il solenne e cupo Calasso. Le parole di Citati tuttavia interrompono il sogno reazionario: lo separano dalla figura dell’angelo spennato per precipitarlo in quella del topo squittente tra le zampe della belva morbida e sinuosa.
Milva o Calasso? Belva o gatto topicida? Il dilemma è insolubile. I corni del dubbio metamorfico si rovesciano sulla scolastica finiana: arcangeli o topi?
Dubbio a parte, nessuna immagine saprebbe definire con maggiore forza comica il dialogo dell’alta scuola iniziatica con gli apprendisti stregoni e gli arcangeli scapigliati a destra.