Riprendiamo un’interessante riflessione di Giorgio Agamben sul destino dell’università dopo la definitiva irruzione della tecnologia sull’onda del coronavirus.
Il testo è stato pubblicato dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
Come avevamo previsto, le lezioni universitarie si terranno dall’anno prossimo on line. Quello che per un osservatore attento era evidente, e cioè che la cosiddetta pandemia sarebbe stata usata come pretesto per la diffusione sempre più pervasiva delle tecnologie digitali, si è puntualmente realizzato.
Non c’interessa qui la conseguente trasformazione della didattica, in cui l’elemento della presenza fisica, in ogni tempo così importante nel rapporto fra studenti e docenti, scompare definitivamente, come scompaiono le discussioni collettive nei seminari, che erano la parte più viva dell’insegnamento. Fa parte della barbarie tecnologica che stiamo vivendo la cancellazione dalla vita di ogni esperienza dei sensi e la perdita dello sguardo, durevolmente imprigionato in uno schermo spettrale.
Ben più decisivo in quanto sta avvenendo è qualcosa di cui significativamente non si parla affatto, e, cioè, la fine dello studentato come forma di vita. Le università sono nate in Europa dalle associazioni di studenti – universitates – e a queste devono il loro nome. Quella dello studente era, cioè, innanzitutto una forma di vita, in cui determinante era certamente lo studio e l’ascolto delle lezioni, ma non meno importante erano l’incontro e l’assiduo scambio con gli altri scholarii, che provenivano spesso dai luoghi più remoti e si riunivano secondo il luogo di origine in nationes. Questa forma di vita si è evoluta in vario modo nel corso dei secoli, ma costante, dai clerici vagantes del medio evo ai movimenti studenteschi del novecento, era la dimensione sociale del fenomeno. Chiunque ha insegnato in un’aula universitaria sa bene come per così dire sotto i suoi occhi si legavano amicizie e si costituivano, secondo gli interessi culturali e politici, piccoli gruppi di studio e di ricerca, che continuavano a incontrarsi anche dopo la fine della lezione.
Tutto questo, che era durato per quasi dieci secoli, ora finisce per sempre. Gli studenti non vivranno più nella città dove ha sede l’università, ma ciascuno ascolterà le lezioni chiuso nella sua stanza, separato a volte da centinaia di chilometri da quelli che erano un tempo i suoi compagni. Le piccole città, sedi di università un tempo prestigiose, vedranno scomparire dalle loro strade quelle comunità di studenti che ne costituivano spesso la parte più viva.
Di ogni fenomeno sociale che muore si può affermare che in un certo senso meritava la sua fine ed è certo che le nostre università erano giunte a tal punto di corruzione e di ignoranza specialistica che non è possibile rimpiangerle e che la forma di vita degli studenti si era conseguentemente altrettanto immiserita. Due punti devono però restare fermi:
- i professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista. Come avvenne allora, è probabile che solo quindici su mille si rifiuteranno, ma certamente i loro nomi saranno ricordati accanto a quelli dei quindici docenti che non giurarono.
- Gli studenti che amano veramente lo studio dovranno rifiutare di iscriversi alle università così trasformate e, come all’origine, costituirsi in nuove universitates, all’interno delle quali soltanto, di fronte alla barbarie tecnologica, potrà restare viva la parola del passato e nascere – se nascerà – qualcosa come una nuova cultura.
3 commenti su “Giorgio Agamben – Requiem per gli studenti”
Il regime non nocque affatto alla cultura, semmai la preservò dai germi ben coltivati democraticamente, e di cui oggi tanto ci lamentiamo.
Lo scritto del prof. Agamben ha l’asciuttezza delle verità essenziali. Non si può non essergli grati, per ciò che dice e per come lo dice.
Un fatto, tra tutti, desta speciale sorpresa. Come dice Agamben, il passo (epocale e catastrofico) della integrale digitalizzazione delle lezioni universitarie era nell’aria. E’ stato pubblicamente preannunciato (esso, e tutto ciò che certamente seguirà, in ogni ambito, nella stessa direzione) da un incredibile, forsennato tam-tam mediatico. Dall’inizio della “chiusura” non si sente ripetere altra frase, sui giornali e in televisione, che: “Non sarà mai più come prima!”. Non si è mai (mai) sentita pronunciare l’unica cosa che doveva essere ovvia: “Speriamo che tutto torni al più presto come prima!”. Non possiamo sapere se la diffusione del virus sia intenzionale o meno. Ma davvero pare che il virus sia stato raccolto come palla al balzo per attuare sinistri disegni.
Marco Boggia: “Ma davvero pare che il virus sia stato raccolto
………………………….come palla al balzo per attuare sinistri disegni”.
È proprio questa caratteristica di ‘cogliere la palla al balzo’, signor Boggia, che distingue il mondo dedito al male da quello dedito al Bene: il primo è sempre pronto a cogliere il momento propizio ed AGIRE, il secondo è refrattario sia alla prontezza di intervenire e, soprattutto, di AGIRE. Osservi, per fare solo un esempio, la prontezza di azione dei cosiddetti “modernisti” che infestano operativamente la Chiesa sin dal Conclave del 1958, ed il totale rifiuto di agire dei cosiddetti “Tradizionalisti”: negli ultimi sessantuno anni soltanto una azione degna di nota si è registrata nel campo Tradizionalista, quella dell’Arcivescovo Lefebvre – peraltro clamorosamente e incomprensibilmente sbagliata in termini di priorità – e poi… assoluta INAZIONE, al punto di potere affermare che questa inazione è stata collaborazionista con il totale successo degli invasori modernisti. Spesso, quasi quotidianamente, mi avviene di domandarmi quali conseguenze ultraterrene sono riservate ai Tradizionalisti – particolarmente a quelli consacrati che sono, primariamente, Pastori – per questa loro attitudine di eludere sistematicamente l’azione.