“Quam cum vidisset Dominus, misericordia motus super ea, dixit illi: “Noli flere!” (Lc 7, 13).
di Carla D’Agostino Ungaretti
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Credo che non vi sia donna al mondo che possa tollerare, se oltre che essere donna è anche madre, il pensiero della possibile morte di un figlio. E’ un pensiero che deve essere subito scacciato, quando si affaccia alla mente, perché è intollerabile. E quando purtroppo quell’intollerabile evento si verifica, credo che non vi sia madre che non chieda a Dio perché non ha fatto morire lei cinque minuti prima del figlio. La risposta può darla solo la Fede, se si accetta di seguire l’esempio della Madre di Gesù mettendosi accanto a Lei e assistendo, ai piedi della Croce, alla tremenda agonia e alla morte del Cristo.
Questi sono i pensieri che mi attraversano la mia mente di cattolica “bambina” quando leggo l’episodio evangelico dell’incontro di Gesù con la vedova di Nain, che incontrò il Cristo mentre piangeva la morte del unico figliolo: proprio nella circostanza il cui solo pensiero sconvolge me, che sono per l’appunto madre di un unico figlio. Eppure, in appena sette sintetiche pericopi l’Evangelista Luca ci descrive un intero evento salvifico: il passaggio dalla morte alla vita, facendoci pensare che per Gesù fosse più facile risuscitare un morto che convertire un peccatore. Infatti lui è l’unico, tra i quattro Evangelisti, che riferisce la resurrezione di due giovani vite: quella del ragazzo di cui sto parlando e quella della figlia di Giairo (8, 40 – 56); inoltre sempre lui, negli Atti, riferisce della resurrezione di Tabità, operata da Pietro (9, 36 ss) e quella di Eutico (anche lui un ragazzo) compiuta da Paolo (20, 7 ss).
Nonostante la sinteticità dello stile letterario, non è difficile immaginare la scena con gli occhi della mente e del cuore. Gesù sta entrando in una cittadina della Galilea – che Luca, la cui lingua madre è il greco, chiama Nain, mentre in ebraico è Naim – seguito dai discepoli e dalla grande folla che Lo accompagna nei suoi viaggi missionari. Giunto davanti alla porta della città, il suo gruppo incontra un altro folto corteo che invece ne sta uscendo, perché si tratta di un funerale diretto verso il luogo della sepoltura che era sempre situato fuori delle mura cittadine. I due gruppi passano l’uno accanto all’altro senza comunicare tra di loro perché diversi sono, in quel momento, gli interessi e gli stati d’animo di ciascuno. Ma l’Evangelista, a questo punto, vuole mettere in risalto un’inaspettata iniziativa di Gesù scaturita da una forte impressione da Lui ricevuta.
Infatti accanto al defunto c’è la madre di lui e Luca ci fa sapere subito che si tratta dell’unico figlio di una vedova, quindi di un orfano di padre. In due parole l’Evangelista ci fa capire la situazione: Gesù, “vedendola”, è commosso dal pianto di quella povera donna perché, essendo Ebreo, sa bene che nell’assetto sociale di cui anche Lui faceva parte gli orfani e le vedove sono le persone più sole, misere e svantaggiate, sia socialmente che dal punto di vista economico. Infatti che cosa si può umanamente dire, al tempo di Gesù come nel XXI secolo, a una donna che, oltre al sostentamento derivatole dal marito, ha perso l’unica ragione di vita rimastale: l’unico figlio? Qualunque parola non suonerebbe falsamente retorica, occasionale o artificiale? Si può mai pensare che basti dire “condoglianze”? Quando gli Evangelisti rivelano gli stati psicologici di Gesù, lo fanno per metterne in risalto il significato profondo. Infatti Luca per esprimerne la commozione usa il verbo greco “splagchnìzomai”, prima persona del presente indicativo che significa “mi commuovo fin nelle viscere”, derivato dal sostantivo “splàgchnon” che il mio fedele vocabolario di Lorenzo Rocci (chi mi legge sa che lo tengo sempre a portata di mano quando commento i Vangeli) traduce appunto con “viscere, cuore, anima come sede delle passioni”. Questa espressione – usata da Luca accanto al verbo “vedere”, anche nelle parabole del Buon Samaritano (10, 33 ss) e del Padre Misericordioso (15, 20) – suscita una riflessione ulteriore: i due sensi del “vedere” e del “sentire”, correlati tra loro, ci fanno percepire l’incommensurabilità della bontà di Gesù e dell’amore che Egli prova per i poveri e gli infelici. Usati separatamente, non avrebbero la stessa ricchezza semantica.
Ma Gesù è un vero uomo e prova una profonda commozione, perché anche Lui è soggetto alle stesse emozioni e agli stessi moti dell’animo che sentiamo tutti noi; forse si sarà commosso anche esteriormente, come avvenne per la morte di Lazzaro, vedendo il dolore di quella povera madre. Ma è anche vero Dio e le parole che rivolge di sua iniziativa alla donna hanno una portata e un significato ben più forti delle semplici parole di circostanza che probabilmente le avevano già rivolto i vicini di casa, gli amici e i conoscenti. Le dice soltanto: “Non piangere!”, ma dietro queste due parole ce ne sono ben altre che Luca ci fa intuire chiamando Gesù per la prima volta nel suo Vangelo “Kyrios”, cioè “Signore”, in senso assoluto, non al vocativo, ma al nominativo, come soggetto agente[1]. E’ come se ripetesse alla donna le parole che poco tempo prima aveva pronunciato nel discorso del “Luogo pianeggiante”: “Beati voi che ora piangete perché riderete” (Lc 6, 21). E’ come se le dicesse: “Non devi piangere perché io sono il Signore della Vita, non della morte, e sono venuto a portare questa Buona Notizia ai poveri come te E chi è umanamente più povero di una donna che ha perso il suo unico figlio? Quale scopo le rimane più nella vita? Dopo quelle parole viene il miracolo del ritorno in vita del ragazzo, manifestazione della potenza del Cristo Dio, ma prima del miracolo viene la commozione dell’anima, manifestazione evidente della tenerezza del Cristo Uomo. Non è sconvolgente tutto ciò?
Intanto i portatori si sono fermati e Gesù “accostatosi, toccò la bara” senza temere di incorrere nell’impurità rituale prevista dalla Legge giudaica che vietava di toccare una salma o una suppellettile funebre perché quel gesto metteva in contatto l’uomo con ciò che era privo della vita, dono di Dio[2]. Ma Gesù E’ DIO e le miserie umane non possono contaminarLo, perciò Egli si rivolge direttamente al morto e dalle Sue parole sappiamo che si trattava di un adolescente: “Giovinetto, dico a te, alzati!”. Luca ha ben ragione di chiamarLo “il Signore” perché con queste parole Gesù parla in prima persona e dimostra di possedere la stessa autorità e potenza di Dio. In questo episodio emerge in pieno l’immensità del mistero di Gesù: vero Uomo, perché mostra la Sua compassione e la Sua vicinanza a chi soffre (“non piangere”); vero Dio, perché rivela la Sua Signoria divina (“dico a te”).
“Il morto si levò e cominciò a parlare”: il ragazzo è tornato in vita, da disteso che era si alza a sedere, da muto ricomincia a parlare[3] e l’ultimo gesto di Gesù è di restituirlo a sua madre. La morte li aveva separati ma il Signore della vita ridà la vita a entrambi e non solo al ragazzo, anche alla madre che, ritrovando lo scopo della sua esistenza che credeva perduto, può sperimentare quella rigenerazione spirituale che apre il cuore alla Fede.
E le due folle come reagiscono a quanto hanno visto e sentito? “Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio dicendo: “Un grande profeta è sorto fra noi e Dio ha visitato il Suo popolo”. Sono molti i passi in cui Luca usa il termine “phòbos” per esprimere il timore e la paura che gli uomini provano quando vengono a contatto diretto con la potenza di Dio. “Fu preso da timore” Zaccaria nel ricevere dall’Arcangelo Gabriele l’annuncio che, nonostante la vecchiaia sua e di sua moglie, da loro sarebbe nato un figlio destinato a diventare un grande profeta (1, 12); perciò alla nascita di quel bambino “tutti i loro vicini furono presi da timore” (1, 65), come “furono presi da grande spavento” i pastori che la notte di Natale ricevettero l’annuncio della nascita del Messia (2, 9). Ma questo “phòbos” genera non già terrore o disperazione, bensì apre l’animo e il cuore alla riconoscenza e alla glorificazione di Dio, che sono i soli fini cui tende Gesù con la Sua opera e da cui sgorgano le professioni di Fede che riconoscono la presenza operante del Padre nelle vicende storiche.
Luca presenta Gesù come il Figlio di Dio, il Messia, il Salvatore, il Profeta Escatologico ultimo e definitivo. C’è sicuramente un collegamento di Lui con i Profeti antichi ma Gesù li sorpassa nettamente, e di molte lunghezze. A Zarepta di Sidone Elia, invocando il Signore, aveva richiamato in vita il figlio di una vedova che lo aveva ospitato: “Signore mio Dio, forse farai del male a questa vedova … tanto da farle morire il figlio?” Il Signore ascoltò il grido di Elia e l’anima del bambino tornò nel suo corpo e quegli riprese a vivere” (1Re 17, 7 – 24). A Sunnem, città non molto distante da Nain, anche Eliseo pregando il Signore richiamò in vita il figlio di una donna che aveva riconosciuto in lui l’Uomo di Dio (2 Re 4, 20 ss). La differenza è sostanziale: mentre i due Profeti invocano Dio, Gesù opera il miracolo in virtù della Sua personale e diretta autorità, ponendosi sul medesimo piano divino. Una novità assoluta e sorprendente.
Con questo episodio, Gesù “sorge” come vero Profeta e come Rivelatore della presenza di Dio in mezzo al Suo popolo, come riconoscono anche i testimoni del miracolo, ma il compimento ultimo della Sua rivelazione si avrà solo con la Resurrezione pasquale, quando due uomini “in vesti sfolgoranti” diranno alle donne: “Non è qui, è risuscitato” (Lc 24, 6). Anche Gesù “si è alzato” ed è “sorto”, come il giovinetto di Nain, ma mentre quel ragazzo, la figlia di Giairo e Lazzaro sono tornati alla vita mortale, Gesù è risorto alla vita eterna, quella che ha sconfitto definitivamente la morte. “Benedetto il Signore Dio di Israele, / perché ha visitato e redento il Suo popolo”, aveva gridato Zaccaria molti anni prima (Lc 1, 66) e queste parole attestano che Dio, che “ci ha amati per primo” (1Gv 4, 19), per primo ci fa percepire la Sua presenza salvifica in mezzo a noi, perché ogni gesto e azione di Gesù è segno che Dio vuole la nostra salvezza.
“La fama di questi fatti si diffuse in tutta la Giudea e in tutta la regione”[4]. Che cosa potrei aggiungere a questo mio umile commento se non che spero e prego perché la Buona Notizia di Gesù raggiunga tutti, soprattutto i più lontani? L’episodio su cui ho riflettuto, dopo averlo letto e riletto infinite volte, mi fa capire che la commozione fraterna di Gesù e l’amore del Padre possono raggiungere tutti i “poveri” del mondo, che non sono solo coloro che sono privi di beni di fortuna materiali, ma tutti coloro che piangono per la morte dei loro figli, per la malattia, perché sono vittime innocenti delle avversità, perché sono schiavi del peccato. Ma dobbiamo riconoscere la nostra “povertà”, accettarla qualunque essa sia e affidarci a Dio perché solo così potremo conoscere la consolazione: è necessaria cioè la Fede.
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[1] L’appellativo “Kyrios” è titolo cristologico e rimanda alla funzione messianica di Gesù. Prima di questo episodio, nel Vangelo secondo Luca, il termine “Signore” compare come vocativo sulla bocca di tre uomini: Pietro (5, 8), il lebbroso (5, 12), il centurione (7, 6).
[2] Luca usa il sostantivo greco “soròs”, urna funeraria, bara, sempre secondo il mio Rocci. Gli esegeti più accreditati ritengono che quel termine sia una rielaborazione ellenistica perché in Palestina non si usava la cassa chiusa ma una semplice portantina su cui giaceva il moro avvolto in un lenzuolo. Ma tutto ciò non ha alcuna importanza ai fini della fruizione del messaggio di Gesù..
[3] Questa frase, oltre al significato teologico, dà ragione agli esegeti. Il ragazzo era disteso su una portantina e non chiuso in una vera bara, altrimenti non sarebbe stato possibile vederlo alzarsi e sentirlo parlare.
[4] Nain si trova in Galilea e non in Giudea. In questo caso gli esegeti ritengono che Luca abbia usato il termine Giudea per indicare l’intera Palestina o l’intero popolo giudaico.
5 commenti su “Gesù e la vedova di Nain – di Carla D’Agostino Ungaretti”
Cara Ungaretti questo articolo è semplicemente gradevole nella sua semplicità espositiva.
Ultimamente mi è capitato di ascoltare omelie detestabili e offensive inerenti il Vangelo di Luca.
Fortunatamente esistono ancora Cattolici come lei, che sanno valorizzare gli apostoli evangelisti.
Grazie.
Che meraviglia. Sono solo due le parole, “non piangere”, però dicono tutto. Esprimono vicinanza e sostegno, incoraggiano chi soffre, assicurano “ci sono io con te”. Gesù è fonte di Vita Eterna e ci restituisce alla vita, la morte è distrutta per sempre. La domanda rivolta alla sorella di Lazzaro ” chi crede in Me anche se muore vivrà. Credi tu questo?”, è il cardine della nostra Fede. Un lascito perenne per la nostra esistenza e per quella dei fratelli, nei confronti dei quali siamo chiamati ad essere coerenti, credibili, autentici nella Carità.
Quanta umanità in questo Gesù che invita la vedova a non piangere per la morte di suo figlio e quanta compassione per un dolore così grande! Ma ecco che questo vero Uomo rivela la sua divinità e compie il miracolo che restituisce il figlio alla madre.
Gesù vero Dio e vero Uomo non potrebbe meglio manifestarsi che in questo meraviglioso modo. È il Verbo Incarnato, il Figlio di Dio fatto uomo, due nature che risplendono nell’unico Cristo, dono incommensurabile per la salvezza dell’umanità.
gradirei conoscere il nome del pittore di cui l’episodio biblico.
grazie, Giuseppe Resca.
Si tratta di Leonello Spada e il dipinto è del 1612-1613