di Lino Di Stefano
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Metafisico di razza, come è a tutti noto – per la grande importanza dei problemi in seno alla filosofia attualistica – Giovanni Gentile (1875-1944) toccò, magistralmente, anche le questioni della deontologia e quelle riguardanti la pratica e la politica, inclusi gli argomenti dell’esistenza.
Per le quali egli dimostrò sempre una particolare sensibilità fino al punto di scrivere – nel saggio ‘Manzoni e Leopardi’ – che soltanto i valori, nella loro trascendenza, sono “in grado di farci capire la tremenda serietà della vita”.
Dopo i primi interessi per il marxismo, il filosofo siciliano raggiunse l’apice del suo sforzo speculativo con l’affascinante libro ‘Genesi e struttura della società’ (1946), ragion per cui si può affermare, senza dubbio, che l’opera di Gentile fu, è e resterà una vera ‘gigantomachìa’ intorno ai massimi problemi e, in particolare, intorno a quelli i quali rendono la vita degna di essere vissuta.
Se è vero, com’è vero, che essa deve essere intesa come un dovere e una missione, Gentile, con incrollabile coerenza, visse e morì metafisicamente per non smentire le parole che tante volte aveva scritte e cioè che l’uomo che impegna sé stesso deve essere tale “nella vita e nella morte”
La conferma che la vita e la morte sono, senza dubbio, una realtà metafisica è confermato da Hegel il quale paragonava, giustamente, la filosofia senza metafisica a un tempio senza santuario.
Ora, Gentile ha pensato, è vissuto ed è morto ‘more methaphysico’, con un coraggio ascrivibile solo a pochi martiri e questi martiri si chiamano Socrate, Bruno, e qualche altro pensatore che seppe combattere a favore delle proprie idee affinché esse trionfassero.
A proposito della morte, questa costituì, sempre una ragione dominante di meditazione per il filosofo il quale nel suo canto del cigno – costituito dall’opera ‘Genesi e struttura della società’ – si avvale di un capitolo in cui è scritto che “la immortalità dell’uomo vivo è quella dell’uomo che vive perché muore sempre a sé stesso: perché così vivendo, egli si muove nella eternità, si immortala”.
Non a caso, infatti, delineando, nel saggio citato, i princìpi basilari della cosiddetta ‘societas in interiore homine’, Giovanni Gentile faceva riferimento alla relazione dialettica ‘alter-ipse’ come elementi inscindibili della ‘sintesi a priori’ pratica.
Il nostro impegno consiste, di conseguenza, nella continua azione smaterializzatrice dell’’alter’, cioè, dell’’hostis’ che sta di fronte a noi mercé un processo dialettico proiettato in direzione di quella intesa spirituale che instaura la ‘società trascendentale’.
Gentile, quindi, durante la sua mortale esistenza, con il pensiero e con l’azione, postulò un messaggio di altissimo significato morale; la lezione del filosofo fu, ognora, limpida e cristallina perché egli morì degnamente dimostrando, col supremo sacrificio, che non esisteva nessuna differenza fra l’io empirico’ e l’Io trascendentale’,
Dopo la sua morte, si impone un riesame sereno della filosofia attualistica per il semplice motivo che, nel contesto dell’arido panorama della speculazione contemporanea, essa costituisce un preciso punto di riferimento visto – son parole del filosofo – non lascia “insoddisfatta nessuna reale esigenza dello spirito”.