Cari amici,
prendiamoci un po’ di tempo per ristorare la nostra anima, il nostro cuore e il nostro cervello. Non permettiamo all’orrore e allo squallore che ci assillano ogni giorno di avere la meglio su di noi. Per questo, nel corso dell’estate vi invito a un viaggio nel Mondo piccolo di Guareschi. Nei secoli scorsi, aristocratici, grandi borghesi e intellettuali compivano un Grand Tour di formazione in Europa che li conduceva inevitabilmente ai piedi della modernità, caduca e miserabile. Noi, in fondo al nostro Petit Tour, avremo gli occhi colmi di ciò che non muore. Fuori moda.
Buon viaggio
Alessandro Gnocchi
Nel mese di agosto anche FUORI MODA va in vacanza. Ci rivediamo a settembre
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Viaggio a Mondo piccolo – settimo giorno
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Li chiamavano zingari, per dire che giravano in un carrozzone tirato da un camion e lavoravano sotto un tendone: un po’ saltimbanchi e un po’ illusionisti che si nutrivano di gelo d’inverno e di afa d’estate, come se il buon Dio non avesse inventato le mezze stagioni. Gente di un altro mondo che attirava e metteva paura nello stesso tempo.
Arrivavano di pomeriggio in un paese sul Grande Fiume e andavano a mettersi vicino a una chiesa, un santuario piccolo piccolo come ce ne sono tanti da queste parti. Gli edifici civili, con le loro geometrie laiche e risorgimentali, non sembravano attirarli. Poi, cominciavano a montare il loro teatrino da niente con precisione un po’ pigra perché, comunque, tempo per le prove non ne serviva molto. Lo spettacolo era sempre lo stesso da anni: il lancio dei coltelli attorno alla più bella della carovana, qualche gioco di prestigio, un trapezio poveretto alzato fin dove si riusciva, un rosario di battute che il pubblico aveva sentito chissà quante volte. Non è detto che, lì in mezzo, non vi fossero dei funamboli di grande valore, ma era una questione secondaria che non interessava nessuno.
D’altra parte, il numero veramente sublime lo perdevano tutti, artisti e spettatori. Andava in scena un po’ prima dello spettacolo, quando il capo della compagnia si apprestava a correre gli argini e la strade del paese per chiamare gente. In quell’ora, avveniva qualche cosa che aveva poco di naturale. Un omino minuscolo salutava tutti e saliva con delicatezza sui trampoli appoggiati al muro della chiesa. Non se ne rendeva conto, ma, quasi sempre, arrivava all’altezza dei santi di pietra appollaiati nelle nicchie della facciata. E, senza saperlo, diventava uno di loro quando il sole, che tardava a morire in attesa di quell’attimo, dipingeva tutto dello stesso colore, spesso, grasso, impenetrabile. Solo quando il quadro aveva avuto anche la sua ultima pennellata, una figura si staccava dalle altre e camminava nell’aria senza guardare più in basso o più in alto. Non apparteneva più a questo mondo. E poco contava che fosse il signore dei saltimbanchi accampati lì, dietro l’angolo. Poi, veloce e improvviso come era apparso, quella specie di angelo sui trampoli volava lungo l’argine e correva verso il paese. Messaggero di eventi arcani che forse neanche conosceva.
Marcello Casartelli, se gli si vuol dare un nome, è stato l’ultimo zingaro a correre le strade della Bassa su quei trampoli quasi esoterici. Erano gli Anni Sessanta e sembra ieri: i luoghi incantati come questo, bagnati dal Grande Fiume, riescono sempre a tenere vivo ciò che altrove si sarebbe dissolto al sole tecnologico e malato del progresso. In esilio da questo paesaggio, creature vaganti tra cielo e terra come Marcello Casartelli potrebbero vivere solo dentro certi quadri rinascimentali. Gigli bianchi e neri come la donatrice del Polittico Portinari, la dama adolescente, mezza monaca e mezza fata, che adora l’Eterno offrendogli il suo sorriso fiorentino. Figure dove ogni incongruenza si ricompone in geometrie innocenti.
Eppure, quanta malinconia evoca la vita quando si spinge ai confini con l’eternità. È il prezzo che paga l’uomo al momento di affacciarsi sull’infinito. “Medici e psicologi”, scrive Romano Guardini in Pensatori religiosi, “ti sanno dire un mucchio di cose, e tutte pertinenti, circa le cause e la struttura intima della malinconia. Purtuttavia, e spesso, vi frappongono cose talmente banali, che non si sa proprio come mandarle d’accordo con la profondità a la violenza della passione che sta sotto a quella esperienza. Ciò che essi ti sanno dire non va oltre la teoria di certe sottostrutture fondamentali. Il vero significato non si rivela se non attraverso lo spirito. E mi pare che lo si debba formulare così: la malinconia è l’inquietudine dell’uomo che avverte la vicinanza dell’infinito. Beatitudine e minaccia a un tempo”.
La perfezione poetica vive dell’equilibrio tra questi due estremi componendoli in un solo tempo. È capacità di contemplare, in un solo istante, opposti che, altrimenti, si inseguirebbero invano. È sentore di eternità.
E qui comincia la “Terza storia”:
“Ragazze? No, niente ragazze. Se si tratta di fare un po’ di baracca all’osteria, una cantata, sempre pronto. Niente altro, però: io ho già la mia ragazza che mi aspetta tutte le sere vicino al terzo palo del telegrafo lungo la strada del Fabbricone”.
E qui la “Terza storia” si chiude:
“Capite? Se si tratta di fare una cantata all’osteria, un po’ di baracca, sempre pronto. Niente altro, però: io ho già la mia ragazza che mi aspetta tutte le sere vicino al terzo palo del telegrafo sulla strada del Fabbricone”.
Solo la purezza della poesia può segnare i confini di una fiaba così tremenda e così dolce. Non serve molto, per rendersene conto. Solo l’accortezza di disporre i versi secondo la loro vera natura:
“Capite?
Se si tratta di fare
una cantata all’osteria,
un po’ di baracca,
sempre pronto.
Niente altro, però:
io ho già la mia ragazza
che mi aspetta
tutte le sere
vicino al terzo palo
del telegrafo
sulla strada del Fabbricone”.
Il pudore del vero poeta ha indotto Guareschi a camuffare i suoi versi da prosa. Ma la sapienza letteraria lo ha invitato a deporli là dove la gravità dell’esistenza implora la levità del cielo. Senza queste poche righe a marcarne il territorio, la “Terza storia” rischierebbe di trasformarsi nel farneticare di un disperato. E, invece, si mostra per ciò che è: fiaba e poesia di perfezione e finezza rarissime.
Ma è faticosa l’ascesi che conduce oltre la soglia della percezione quotidiana. “Che cos’è un poeta?”, scrive Kierkegaard in Aut-Aut. “Un uomo infelice che nasconde gravi pene nel suo cuore, ma le cui labbra sono conformate in tal modo che il sospiro e il grido all’uscirne le rende squillanti come una bella musica. (…) Ora gli uomini si affollano intorno al poeta e gli dicono: ‘Canta presto di nuovo, cioè che nuove sofferenze torturino presto la tua anima, e che le tue labbra continuino a essere conformate come prima, poiché le grida non farebbero che inquietarci, ma la musica è soave’. E i critici si accostano dicendo: ‘Va bene, così deve essere secondo le regole dell’estetica’. Si capisce: un critico somiglia a un poeta come una goccia d’acqua a una goccia d’acqua, soltanto che egli non ha le pene nel cuore né la musica sulle labbra. Ed ecco perché io vorrei piuttosto essere porcaro ad Armagerbro e farmi capire dai porci, che essere poeta e venire frainteso dagli uomini”.
È il destino degli scrittori solitari come Guareschi, che non si fanno tentare dalla doppia menzogna del rinnovamento dei propri mezzi espressivi e dei doveri verso il sociale. E’ la sorte delle anime rette consapevoli che il cenobita, nell’arte come nello vita spirituale, giunge più lontano dell’uomo socievole. E altra non è la via del protagonista della “Terza storia”. Di quell’uomo splendidamente, poeticamente solo che si manifesta nelle poche righe in corsivo dell’introduzione come un’apparizione capace di sfidare i secoli:
“Uno è seduto su un mucchio di ghiaia, sulla riva del fosso, con la bicicletta appoggiata al palo del telegrafo. Si arrotola una sigaretta di trinciato. Tu passi, quello ti domanda uno zolfanello. Parlate. Tu gli dici che vai al ‘festival’ a ballare e quello scuote la testa. Tu gli dici che ci sono delle belle ragazze e quello scuote ancora la testa.
“Ragazze? No, niente ragazze”.
È disumano il tentativo di comprendere un’apparizione. Davanti alla manifestazione di un altro mondo, all’uomo è concesso solo di contemplare e, se la grazia letteraria è generosa, di raccontarla in una fiaba. Ecco la “Terza storia”.
La prima pagina tratteggia gli esordi timidi e rustici di un corteggiamento campagnolo. È fatta di pochi tocchi veridici e, insieme, visionari. La corsa in bicicletta, l’albero di prugne gialle, la sfrontatezza del giovane protagonista. E poi, gli occhi spalancati della ragazza: “due occhi chiari come l’acqua, due occhi che non avevo visti mai”.
Per la prima volta nella sua vita, il ragazzo incontra uno sguardo che non diffida, non sollecita, non divaga, non indaga. Si specchia dentro occhi in nessun attimo assenti, eppure mai interamente presenti. Occhi come ormai se ne possono vedere soltanto in certi quadri antichi, sigillati dalla malinconia.
Fin dal principio, narratore e lettore comprendono che una storia simile può vivere solo in una purezza leale ed esclusiva:
“’Se ti trovo ancora con un altro, ti spacco la testa a te e a lui’ dissi.
“La ragazza mi guardò con quei suoi maledetti occhi chiari come l’acqua.
“’Perché dici così?’ mi domandò sottovoce.
“Non lo sapevo, ma cosa importa?
“’Perché sì’ risposi io. ‘Tu devi andare a spasso da sola o se no con me’”.
Quel garzone di muratore grezzo e illetterato che non ha conosciuto altra donna, e mai vorrà conoscerne, non potrebbe battere lamina d’oro più aerea e sottile per il suo amore. Poiché non vi è omaggio più alto che l’attesa:
“Rividi la ragazza per quasi quattro anni, tutte le sere meno la domenica. Era sempre là, appoggiata al terzo palo del telegrafo, sulla strada del Fabbricone. Se pioveva aveva il suo bravo ombrello aperto.
“Non mi fermai neanche una volta.
“’Ciao’ le dicevo passando.
“’Ciao’ mi rispondeva”.
Eppure, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Avrebbe potuto comportarsi come il più gentile degli esseri mortali. Invitare la ragazza a passeggiare, a ballare, o solo a chiacchierare. Avrebbe anche potuto abbracciarla o chiederle un bacio. Ma, allora, l’incantesimo si sarebbe rotto. Alle libertà carnali del mondo, il garzone di muratore preferisce le imposizioni celesti del mondo della fiaba: “Se non guarderai la principessa per mille anni, il regno sarà tuo”, “Se non aprirai la porta della torre, ti troverai nel castello incantato”, “Se non coglierai la mela d’oro, il sole tornerà a spuntare”.
La magia di questo amore si innesta sullo spasimo sofferto ogni giorno tranne la domenica in attesa di un “Ciao”. Poi, dopo la morte della ragazza, sboccia in una primavera così dolce e così inesorabile da poter essere detta anche in prosa. Da quando il garzone di muratore, ormai fattosi uomo, torna da militare, non c’è un rigo, non c’è un parola, che appannino il cristallo dentro cui le due creature sono state racchiuse dalla sapienza letteraria guareschiana. Tutto si svolge in un attimo lunghissimo fermato dai chiodi di tre immagini carnali e tre immagini spirituali meravigliosamente più grandi del vero.
“Cominciava a farsi scuro lentamente” narra tra veglia e sogno il protagonista “e io andavo come un fulmine pensando dove diavolo sarei andato a stanarla fuori. Ma non dovetti cercare un bel niente, invece: la ragazza era là che mi aspettava puntualmente sotto il terzo palo del telegrafo”.
Ma la salita alla purezza d’amore è appena iniziata. Seconda stazione: “Era precisa come l’avevo lasciata, e gli occhi erano gli stessi, identici”.
E infine: “Avevo corso come un Dio-ti-fulmini e avevo la gola secca. ‘Si potrebbe avere un paio di quelle prugne gialle di quella volta?’ domandai”.
Quanto è sublime la cerca amorosa che termina nella materialissima richiesta delle due prugne gialle di quella volta. Perché non si tratta di due frutti qualsiasi, che avrebbero scheggiato l’incanto, ma di “un paio di quelle prugne gialle di quella volta”. Dove il “quelle” che si replica in “quella” induce i passi dei protagonisti e del lettore verso una rima infinita.
Solo allora, le tre immagini spirituali, che altrimenti sarebbero rimaste pura aria, si fanno spesse e visibili come pietra. La ragazza diviene immagine di un altro mondo, così concreta e così reale da stupire anche il più folle dei folli.
Le basta dire che cosa è rimasto di lei su questa terra: “’Anch’io,’ rispose con un sospiro ‘anch’io come tutto il resto. Un mucchietto di cenere e buona notte al secchio’”.
Allora, il suo innamorato, per la prima volta, riesce a guardare con gli stessi occhi chiari come l’acqua che lo avevano incantato: “Io guardai la ragazza che stava appoggiata contro il palo del telegrafo: la guardai fisso e, attraverso la sua faccia e il suo corpo, vidi la venatura del legno del palo e l’erba del fosso”.
Poi, un gesto che non è macchiato di incredulità, ma intrecciato di amore e di tenerezza: “Le misi un dito sulla fronte e toccai il palo del telegrafo. ‘Ti ho fatto male?’ domandai. ‘Niente male’. Rimanemmo un po’ in silenzio mentre il cielo diventava di un rosso sempre più cupo”.
La cifra di questo dialogo è racchiusa nell’incantevole incongruenza dell’indicibile “Niente male” che sboccia sulle labbra della ragazza: impossibile alla recitazione, impervio alla lettura, pronunciabile solo per grazia. Un piccolo miracolo letterario che costringe il lettore a inciampare nel proprio stupore per contemplare la scena come un quadro dove tutto è portato in primo piano. I due innamorati, le loro anime, la venatura del palo, l’erba del fosso, il cielo che diventa di un rosso sempre più cupo: non c’è più prospettiva, non c’è più gerarchia di piani, non ci si sono più predilezioni. È il momento dell’assoluta devozione al mistero, della poesia perfetta. E’ l’attimo in cui a ogni singola cosa del visibile e dell’invisibile viene prestata l’identica misura di attenzione.
Se si cerca l’equivalente in pittura, più che a certi volti enigmatici o a certi paesaggi trasognati, viene da pensare alle nature morte di Morandi. A quelle bottiglie che vivono dentro una pietà senza turbamenti, dove non c’è pennellata che sia profana. Quanta vita negli oggetti del pittore bolognese, in quelle pure essenze che nulla raccontano eppure tutte si mostrano. Una volta incontrati, non si possono che amare senza stancare lo sguardo, senza inquinare la sacralità con le carezze.
C’è qualche cosa di magico nel segno di Morandi. Traccia grassa e pastosa che, per una celeste inversione della percezione, diviene quasi trasparente e mostra un altro mondo. Le bottiglie si depositano sulla tela emergendo dal nulla con cruda e assoluta nudità. Non c’è retorica, non c’è decorazione: in silenzio, attendono solo uno sguardo che le veda.
Riesce difficile non legarle alle visioni lente, misteriose, intime evocate dalla scrittura guareschiana, o da certe partiture verdiane. Anche queste pesanti, quasi oscure, eppure inesorabilmente aperte su una luce trasognata. E ancora più difficile riesce ignorare che Guareschi, Verdi, Morandi sono figli dello stesso fazzoletto di terra: scrittura, musica e pittura che si fanno materialissima via padana alla metafisica.
Per questo, gli innamorati guareschiani trovano corrispondenza perfetta nelle bottiglie di Morandi. Gli uni e gli altri, oggetti dalle pance gravide di mistero. Così puri e così aggraziati da suscitare tenerezza e timore: come ogni apparizione. Del resto, quanta soprannaturale attenzione il pittore donasse a quelle piccole cose è raccontata dalla cura che chiedeva alle sorelle allorché si apprestavano a riordinare il suo studio. Che non spolverassero le bottiglie, i vasi, le caffettiere depositati in un angolo. Che sollevassero polvere ramazzando delicatamente e la lasciassero cadere senza intromissioni meno che celesti su quelle cose tanto amate. E quando poi i pennelli, ormai esausti, non erano più buoni per i suoi tratti amorevoli, li raccoglieva in piccoli mazzi e li seppelliva in giardino, come corpi di cristiani abbandonati dalle anime: poesia, come quella cantata da Guareschi allorché andò a dormire il sonno mortale accompagnato dalla sua matita.
C’è una ragione, dunque, se certi sfondi descritti dal poeta di Fontanelle sembrano disegnati, più che raccontati. Un tratto imprevisto di lapis o di colore e, mentre i due giovani della “Terza storia” si guardano negli occhi, il cielo si fa “di un rosso sempre più cupo”. In mezza riga, si passa dalla contemplazione della bellezza all’irruzione del sublime. Il genio del bello, piacevole e leggiadro abbastanza da rendere lievi le catene della necessità, è giunto al confine del suo agire. E’ tempo di oltrepassare la soglia del regno su cui si può inoltrare solo chi abbia deposto ogni involucro corporeo. La sola bellezza, con il suo battito di ali terrene, non può passare neanche a volo radente su questa landa. È il momento del genio sublime, del braccio possente che conduce l’essere umano al di là dell’abisso, al cospetto della visione.
Con le sue pennellate grasse e dense, la scrittura di Guareschi fugge il pericolo di raccontare storie di puri spiriti. Riveste le anime di materia poveretta che, proprio per la sua umiltà, merita di essere trasfigurata. I giochi d’ombra, il buio di alcune parole evocano per contrasto la luce che scolpisce e leviga il superfluo sulla carne e sull’anima: e le creature si fanno lievi, purificate, quasi oggetti magici capaci di cadere verso l’alto, dentro il cielo.
Si tratta di tecnica e materiale letterari difficili da maneggiare, specialmente quando si raccontano storie d’amore. La prova più ardua sta nel disegno dei corpi che, lasciati a se stessi, diverrebbero mezzi inadeguati a riprodurre la musica dei sentimenti. Ma lo scrittore sapiente sa che la goffaggine della materia può divenire segno dal fascino stravagante: tratto di esuberante sregolatezza che mima quanto l’anima compie secondo cerimonie solenni.
Così l’eroe, a dispetto di quanto ci si attende, non bacia l’amata per risvegliarla dal sonno. Il canone della Bella addormentata viene invertito. Neanche quando è evidente che lei vive in un altro mondo e potrebbe svanire come neve al sole:
“Adesso sono ormai dodici anni che tutte le sere ci vediamo. Io passo e neanche smonto dalla bicicletta:
“’Ciao’.
“’Ciao’”.
Dodici anni più i sette precedenti, fanno diciannove anni di pedalate, di attese, di saluti sempre identici a se stessi sulla strada del Fabbricone. Cosa da folli, da vecchi o da bambini. Ma, se si spreme il meglio di un folle, di un vecchio e di un bambino, ci si trova al cospetto del genio.
La ripetizione ossessiva, tipica della scrittura e della narrazione guareschiana, è la risposta alla domanda dell’anima che si chiede se qualcosa durerà: e non solo, ma se durerà singolarmente. Più frequente, più martellante, più folle appare la ripetizione, come in un gesto liturgico, risponde nelle sue fiabe Guareschi, più il fenomeno diventa singolare ed eterno.
È nell’incanto del gesto rituale e ossessivo del saluto che il garzone di muratore, ormai uomo fatto, trova il senso del suo esistere, la guida del suo cammino:
“’Allora?’ ripetè la ragazza con voce bassa. ‘Debbo andare?’.
“’No’ le risposi io. ‘Tu devi aspettarmi fin che ho finito quest’altro servizio. In giro non mi prendi bella mia’.
“’Va bene’ disse la ragazza. E mi parve che sorridesse”.
Il sorriso, evocato da Guareschi all’inizio della storia attraverso la goffaggine dei corpi e del loro discorrere, ora si fa spirituale. E ha il suo archetipo in tre versi del trentunesimo Canto del “Paradiso”:
“Così orai; e quella, sì lontana
come parea, sorrise e riguardommi;
poi si tornò all’etterna fontana”.
È l’ultimo sguardo sorridente che Beatrice rivolge a Dante prima di scomparire alla sua vista. È l’ultima di una lunga teoria di perle ridenti che accompagnano il poeta nel suo cammino e nel suo costante “trasumanar”. In prossimità dell’abbandono definitivo, Dante dichiara l’impotenza del linguaggio davanti al “rimembrar de dolce riso” della sua amata. La parola solo umana è vinta, ma lui sa di essere definitivamente risvegliato al cospetto sublime delle armonie celesti.
A suo modo, anche il povero muratore di Mondo piccolo dichiara l’inadeguatezza della sua mente davanti alla visione celeste:
“Ma a me queste stupidaggini non vanno tanto e rimontai subito in bicicletta.
“Adesso sono ormai dodici anni che tutte le sere ci vediamo. Io passo e neanche smonto di bicicletta:
“’Ciao’.
“’Ciao’.
“Capite? Se si tratta di fare una cantata all’osteria, un po’ di baracca, sempre pronto. Niente altro, però: io ho già la mia ragazza che mi aspetta tutte le sere vicino al terzo palo del telegrafo sulla strada del Fabbricone”.
E allora si capisce perché il genio gaureschiano ha invertito i canoni della Bella addormentata. La ragazza non è affatto prigioniera di un sonno incantato, ma vive nella luce di un mondo nuovo. Dentro al sortilegio mortale, contro ogni apparenza, è rinchiuso il suo innamorato. Tocca a lei, Beatrice di Mondo piccolo, risvegliarlo, non con un bacio, ma con un sorriso: la perla narrativa più preziosa del Dante della Bassa.
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Alessandro Gnocchi
(7 – Fine)
Buone vacanze
3 commenti su ““FUORI MODA” – un viaggio con Alessandro Gnocchi nel Mondo piccolo di Guareschi/VII”
Grazie dei bei commenti alle vicende narrate dall’indimenticabile Giovannino
Grazie per questo po’ di aria fresca!
Donde son finiti?