Scoperta la Liberté e la Egalité, che per di più erano femmine, Olimpe de Gouges, una donna ardimentosa come Carlotta Corday, ma con la coccarda tricolore in testa, fondò a Parigi la Societé Fraternelle e la Societé des femmes révolutionnaires. Poi pensò di presentare alla Assemblea Costituente, una “Déclaration des droits des femmes”. Ma la cosa non piacque per nulla a Robespierre, che della troppa liberté e della égalité altrui, anche maschile, cominciava ad insospettirsi e a scopo precauzionale fece ghigliottinare la volenterosa protofemminista senza tanti complimenti.
La rivoluzione industriale però dette ragione alla povera Olimpe e assicurò alle donne il diritto di lavorare anche in fabbrica a basso costo e la libertà di stare peggio di prima.
Quelle che rimasero a casa continuarono a essere le padrone delle chiavi, sia che fossero le schlüsselfrau della borghesia, sia che fossero le “vergare” delle campagne centro italiche.
Ma tutto questo sarebbe sfuggito al femminismo sessantottino quando, spenti ormai gli echi del Cha cha cha della segretaria, si spalancarono gli ampi orizzonti dell’ultima nuova rivoluzione fatale. Le donne si scoprirono tutte compagne liberate o liberande. E molte sarebbero rimaste in attesa di liberazione anche in età avanzata, in quanto intellettuali “di sinistra”.
Le pasionarie sessantottine dunque, immemori dei vantaggi che bene o male avevano sempre ricavato dal possesso delle chiavi, si concentrarono sulla biologia, sbandierando ai quattro venti che l’utero era loro e proclamarono il diritto di gestirlo in autonomia. Come peraltro era sempre avvenuto fin dai tempi di Elena di Troia, senza che le avvedute proprietarie lo avessero mai dato troppo a vedere, e anzi facendo finta saggiamente che le cose andassero diversamente.
Ma ora era nata finalmente la liberazione sessuale. Solo che ben presto, data l’immissione sul mercato di tanti uteri liberamente amministrati, e data legge della domanda e dell’offerta, cominciò quell’abbassamento del loro valore commerciale per surplus produttivo che si sarebbe esteso ad affliggere anche le generazioni successive, fino ai giorni nostri.
Intanto i maschi sessantottini, rigorosamente femministi e futuri ministri piddini, si concentrarono nella lotta contro il nozionismo che offendeva le loro attitudini speculative e, per dimostrare quanto grande fosse la propria aspirazione ad una vera cultura, imposero il voto politico e l’esame di gruppo ai baroni che, per troppo studio e troppo potere, avevano perso ogni attitudine alla difesa personale e delle istituzioni pubbliche. Così, la prima bandiera di questa conquista epocale fu issata sul pennone della facoltà di architettura di Venezia e si apri l’era gloriosa della mostrificazione edilizia.
La parte femminile della rivoluzione, sempre concentrata sulle libertà uterine ma più portata in ogni caso anche allo studio mnemonico, lasciò ai commilitoni la battaglia culturale limitandosi a usufruirne dei vantaggi. Poi femministe e femministi, uniti ormai idealmente anche ai femminelli, intrapresero continue missioni all’estero per lo studio degli oppiacei, precorrendo l’erranza culturale erasmiana.
Nei lucidi intervalli, e tra un viaggio e l’altro, per dimostrare come la liberazione sessuale favorisse anche la maturazione politica ed estetica, i rivoluzionari facevano riecheggiare commossi l’inno: fascisti, carogne, tornate nelle fogne.
Poi i rivoluzionari, folgorati sulla via di Damasco, ci ripensarono su e decisero che “il faut travailler pour vivre”. Così, a seconda delle inclinazioni, si misero in fila, chi per occupare le esecrate cattedre soprattutto baronali, chi per entrare in banca, chi per intraprendere o proseguire la carriera politica. Nessuno o nessuna pare sia andato in fabbrica, anche perché nessuno pare fosse uscito di lì.
L’anno glorioso di tutte le libertà aveva spalancato in ogni caso le porte alle conquiste del mondo nuovo, abitato tuttora da Emma Bonino, Mario Draghi e Bergoglio.
2 commenti su “Femministe, femministi e femminelli nella grande rivoluzione culturale del 68 – di Patrizia Fermani”
Ovunque il guardo giro / soltanto il brutto vedo / fin quando Signore Dio / tollererai tal scempio?
Fatti salvi i pochi validi argomenti – quali il diritto al voto, le serie affermazioni in campo scientifico e culturale – lontani anni luce dal fatidico sessantotto, c’è molto poco da ricordare. Inutili rivendicazioni, slogan da basso porto, tarantelle e pagliacciate varie. Sino alle tragedie vere, che restano (le cliniche della morte). La famiglia e la dignità della persona sotto assedio. Qual era l’obiettivo da perseguire? Il rispetto nei confronti della donna e del suo ruolo? Non sembra sia stato conseguito, tra cronaca nera, solitudine, fallimento educativo. E oggi più che mai persecuzione. Perché calpestare le regole, disprezzare le cose più sante, circoscrivere l’esistenza alla sola materia non può portare a nulla di buono. Forse attingendo alla sorgente del Cristianesimo è ancora possibile recuperare. E salvarsi.