L’Italia non fa più figli, leggo sul web. Ma và? Non ce ne eravamo accorti, gli ospizi straripano e gli asili languono, le aree per cani si attrezzano con fontanelle di acqua potabile e nei parchi giochi si fa a zigzag tra siringhe e spinelli.
Leggo l’articolo, pare siano in aumento le famiglie dink “dual income, no kids” ovvero “zero figli, due stipendi, al primo posto gli interessi personali”. Finalmente sdoganiamo questa cosa, tiro un sospiro di sollievo. Pare che questa sindrome di Peter Pan quanto meno sia coerente: alla non voglia di diventare adulto si associa l’incapacità alla bugia. Ora non ci proviamo nemmeno più a dare la colpa agli stipendi bassi, all’inflazione, ai fascisti, al patriarcato, al cambiamento climatico, alla plastica negli oceani. Ora il treenne dentro di noi ammette candidamente che non ha ancora concluso la sua fase egocentrica, egocentrata, che solitamente dovrebbe finire in concomitanza allo spannolinamento. Eccolo lì, l’io prepotente mai messo a tacere che non riesce a staccarsi dallo specchio. Del resto, pensandoci, nessuno glielo chiede.
Non fraintendete, non ho interesse a dare giudizi morali. Fare figli non è merito né vanto, per la maggior parte del tempo, diciamoci la verità, è una fatica bestiale che nessuno si aspetta quando decide che è arrivato il momento di procreare.
La mia stizza non nasce dalla questione figli, ma dagli “interessi personali”, perché proprio qui, tra queste due parole casca l’asino. Veramente questa nostra società in fin di vita può farci associare i nostri interessi alla libertà? Ebbene, siamo convinti che calcetto, yoga e aperitivo con gli amici siano ossigeno per l’anima senza accorgerci che in realtà sono il nostro panem et circenses. Ci hanno fatto credere che stiamo meglio quando abbiamo spazio da riempire con una marea di aria fritta, per non farcelo riempire con le cose che contano, che non per forza si riassumono nella famiglia del mulino bianco, ma un qualsiasi sforzo per uscire da noi stessi.
“Interessi personali”: due parole, un brivido che corre lungo la schiena. Rifletto meglio sulla questione e mi stizzisco ancora di più. Il problema non sono nemmeno gli “interessi personali”, che assicuro si possono coltivare anche in famiglia e magari condividere con chi si ama, ma quel “al primo posto”.
È la bugia, l’elefante nella stanza di cui nessuno si accorge: che la felicità sia dentro di noi, che su di noi si arrotoli, che da noi si proietti e che a noi ritorni. E invece noi con la felicità e con la libertà non centriamo niente, niente in senso letterale, perché la nostra beatitudine inizia quando noi finiamo, quando ci mettiamo da parte. A volte inizia, pensa un po’, quando ci trascuriamo, quando non ci perdiamo in considerazione perché c’è altro. Altro che merita di essere accudito, di essere ascoltato, di essere visto. E quando rientriamo in noi stessi, ci accorgiamo che ci serve meno posto per di quel che pensavamo, che di tutto quell’io che occupiamo non sappiamo cosa farcene, ci avanza. È in effetti come accorgersi che abbiamo troppi vestiti nell’armadio e iniziamo a disfarcene, a fare delcuttering, come si dice ora in gergo minimalista. Il fatto è che al minimalismo tanto in voga andrebbe spiegato che avere meno è meglio solo quando a essere meno ingombranti siamo noi, perché se la casa vuota serve per far rimbombare meglio le urla del nostro ego, allora sarebbe meglio riempirla per seppellircelo dentro.
Io, io, io, alla fine: con tanto con poco, con il calcetto o senza, con i figli o senza. Perché anche quando avere la prole significa proiettare se stessi nel corpo di un bambino il problema non solo permane, ma centuplica e purtroppo non si tratta solo di un difetto psicologico da correggere, ma anche di una mancanza spirituale da colmare. Parafrasando Tolstoj in Guerra e Pace, alle volte con i figli, soprattutto i primi, si ha la pretesa di fare un lavoro straordinario. E così eccoci di nuovo, noi con i nostri figli straordinari perché straordinario è il nostro metodo educativo ovvero noi stessi. Eccoli qui i delfini di Francia che non mangiano zuccheri, non guardano i cartoni e alle volte non vanno nemmeno a scuola perché noi genitori sappiamo fare tutto meglio, anche spiegare la matematica. Noi possiamo fare qualsiasi cosa, essere qualsiasi cosa per i nostri figli e la nostra famiglia: insegnanti, animatori, censori, ma anche psicologi. Tutto. Perché il resto del mondo non è come noi, diciamocelo, il resto del mondo puzza di mediocrità e pecca di poca purezza.
E convinti della nostra fantasticità tiriamo su questa bella famigliola disfunzionale e, bisogna che qualcuno lo dica, matriarcale, perché pare che le donne questa cosa del sacrificarsi, ma solo per riporiettarsi in altro, la amino proprio visceralmente.
Ecco quindi che l’io si nasconde ovunque, che c’è dappertutto, e chiunque abbia la presunzione di essere esente da questi discorsi sbaglia. Vedete, il problema non è la famiglia dink, non sono gli interessi personali, il numero dei figli o quanti aperitivi ci si concede al mese. Il problema è che dentro di noi abbiamo una mela marcissima alimentata dalla società del sè, che si vince solo con la fatica di sparire ogni giorno di più per ritrovarsi ogni sera un po’ più sprezzanti. Che a volte vuol dire essere mediocri e meno performanti, altre volte vuol dire invece fare più fatica più in silenzio, altre volte ancora vuol dire lasciare che le cose vadano senza doverle controllare. Perché in fondo alla nostra anima c’è un piccolo dio che è nemico del Padreterno e che si vince con l’abbandono e con la pazienza, che rendono lo sguardo più limpido e ci fanno accorgere che attorno a noi ci sono tante altre persone e sopra di noi c’è un bel cielo azzurro che non chiede altro di essere amato.