Mentre tutti sono impegnati, in mancanza di meglio, nel taglio, ancora incruento, dei parlamentari, la Corte Costituzionale ha deciso che il Parlamento, intero o dimezzato, non serve proprio a niente e che essa ne può esercitare con successo le funzioni. Come dire “quindici uomini sulla cassa del morto”.
Questo l’aspetto più vistoso della attesa sentenza costituzionale, peraltro già anticipata ampiamente nei contenuti dalla ordinanza 207 del 2018 con cui la Corte intimava al Parlamento di intervenire sulla norma che punisce l’aiuto al suicidio e di riformarla secondo le proprie precise direttive. Però il Parlamento non è riuscito a esercitare la libertà che gli veniva concessa. E del resto c’è da chiedersi cosa sarebbe avvenuto se avesse varato la legge magari in dissonanza con le indicazioni della Corte, e come si sarebbe risolto l’eventuale conflitto.
Sta di fatto che la sentenza, aberrante per forma e contenuto, ha assunto una altrettanto aberrante funzione legislativa con qualche curiosa aggiunta di tipo regolamentare. Le circostanze che l’hanno preceduta sono notorie, ma la loro lettura va sempre ricondotta al preciso quadro sociopolitico in cui si collocano.
Il cammino intrapreso nel 2009 con il caso Eluana Englaro era diretto verso la legalizzazione della eutanasia. Ma questa esigerebbe l’abrogazione di una intera fetta del sistema penale e il soffocamento di una coscienza collettiva ancora capace di porre qualche ostacolo al disfacimento etico generalizzato.
Per questo il manipolo di avanguardisti della morte a domicilio ha saputo alternare la iattanza alla prudenza. Hanno inalberato le bandiere gagliarde e spavalde di tutte le libertà e quelle laceranti della umana sofferenza di cui prima di loro nessuno si era accorto e per la quale avevano trovato per primi la ricetta definitiva. Così sono riusciti a far partorire la legge sulle famose Dat, che ha consacrato il diritto a rinunciare preventivamente a essere curati e a ricevere il sostegno vitale in certe condizioni di estrema sofferenza. Con quella legge si è spalancata la strada legale per l’eutanasia, ma rimaneva ancora l’ingombro del reato di aiuto al suicidio, punito con una pena ragguardevole.
Ecco che a Marco Cappato, messo a capo delle strategie eutanasiche, si presenta il caso pietoso dello sfortunato Antoniani che non ce la fa a sopportare la grave malattia da cui è stato colpito e vuole morire. C’è la possibilità di accompagnarlo in Svizzera dove, a richiesta dell’interessato, somministrano la morte a pagamento.
È l’occasione buona per mettere sul tappeto la questione della liceità dell’aiuto al suicidio. Cappato è incriminato, ma la Corte di Assise di Milano solleva la questione della legittimità costituzionale della norma che punisce il reato. Così si arriva all’ordinanza 207, travasata ora nella sentenza del 22 novembre scorso, che prospetta per i casi analoghi una parziale illegittimità del divieto di aiuto al suicidio.
Non è qui il caso di riportare la questione dell’aiuto al suicidio, sul piano dell’etica o delle convinzioni religiose, o nella zona franca della coscienza individuale. Basta prendere in considerazione la sentenza della Corte dal punto di vista strettamente giuridico, che peraltro già coinvolge o presuppone anche tutti gli altri aspetti.
La corte di Assise di Milano aveva fondato l’eccezione di incostituzionalità dell’articolo 580 c.p. sulla idea cervellotica che il valore primario tutelato dallo ordinamento non sia la vita, ma l’autodeterminazione. Ed è arrivata a bollare come anacronistica la pretesa di individuare nella vita il bene giuridico tutelato dalla norma penale. Una ragione forte per sostenere che la legge non debba ostacolare la decisione di suicidarsi e dunque anche la possibilità di farsi aiutare nell’impresa.
La Corte Costituzionale non poteva per decenza arrivare a fare proprio quella idea ispirata da furore ideologico, ma si era posta l’imperativo categorico di portare fuori dalle patrie galere il signor Cappato. Ecco allora che cerca di salvare capra e cavoli. La capra per cui non si può smettere di punire l’aiuto al suicidio, perché questo può sempre nascondere, evidentemente, una volontà omicida mascherata e mossa da intenti non proprio umanitari.
Per salvare i cavoli, cioè Cappato, occorre invece cambiare il registro. Bisogna scendere sul piano della sofferenza fisica ed esistenziale di chi è affetto da una malattia incurabile, che vorrebbe farla finita ma non ce la fa da solo a ottenere in tempi brevi questo risultato, e chiede l’aiuto di un terzo per potersi suicidare.
Ma perché la norma penale non colpisca costui, occorre trovare un principio costituzionale capace di neutralizzarla. Questa norma costituzionale è quella dell’articolo 32 che consente di rifiutare di essere curato, anche quando la cura o il sostegno vitale siano necessari per sopravvivere. Questo è stato consacrato con la legge 119 del 2017 sul cosiddetto testamento biologico.
Dunque, dice la corte, se per Costituzione e per legge è lecito procurarsi la morte rifiutando le cure o il sostegno vitale, e se il medico è tenuto a rispettare la volontà del paziente rimanendo esente da responsabilità civile e penale, anche se non gli è consentito impiegare trattamenti diretti a causare la morte, non si vede perché non si possa ricorrere all’aiuto di un terzo per esercitare questo diritto.
Insomma, non è logico impedire l’aiuto al suicido nel caso in cui esso sia prestato a soggetti che potrebbero conseguire lo stesso risultato in base alla legge 219 e che si trovino nelle condizioni particolari fissate dalla stessa legge. In queste circostanze l’aiuto al suicidio non può essere punito perché contrasterebbe e contrasta con un’altra norma costituzionale, che consente già di ottenere per altra via quel risultato.
Così in definitiva la Corte, se da un lato ha mantenuto l’impianto della norma penale che punisce l’aiuto al suicidio, dall’altro ha introdotto anche delle vistose cause di non punibilità, modellate, peraltro, sulle memorie difensive dell’imputato.
Per valutare la pericolosità di questa soluzione, oltre a quella che è la sua arbitrarietà, come vedremo in seguito, anzitutto occorre non perdere di vista il valore etico-sociale della legge, la sua vocazione conservatrice e di difesa di una ordinata vita comunitaria, rispetto alla quale tutti sono chiamati a sacrificare un po’ del proprio particulare.
La norma che vieta l’aiuto al suicidio senza se e senza ma non è il frutto bacato di una ideologia politica, come viene affermato, in uno slancio di idiozia, nella ordinanza di rimessione della Corte di assise di Milano, dove è definito “anacronistico” individuare nella vita il bene giuridico tutelato dalla norma che punisce l’aiuto al suicidio. Questa norma, nella sua integrità, è a presidio della vita del quivis de populo sempre esposto a ogni possibile abuso da parte del terzo o anche di un potere dispotico, e ogni falla aperta in questa cintura di sicurezza finisce per aprirsi su scenari sempre pericolosi. L’interesse individuale e il piagnisteo mediaticamente assistito non dovrebbero potere intaccare un baluardo fondamentale per la tutela di tutti.
Ma questa visione della funzione comunitaria del diritto si è andata sfocando con il generale deterioramento culturale al quale non sfuggono né la politica, né la magistratura, né la accademia, né le istituzioni e i poteri dello stato. Nessuno dei quali sembra più in grado di comprendere quale rapporto debba correre tra l’interesse, il diritto e la morale individuale, e la sfera dell’interesse, e dell’etica comunitaria.
Del resto in una materia come questa, dove la saldezza dei principi e la certezza del diritto dovrebbero essere la migliore tutela offerta al cittadino perché non sia esposto all’arbitrio, non bisogna stancarsi di ripeterlo, del singolo come del potere costituito, ogni forzatura delle norme che garantiscono questa tutela, si traduce in un monstrum giuridico. Lo è stato la pronuncia della Cassazione che è servita per portare alla morte Eluana Englaro. Lo è questa pseudo pronuncia di parziale illegittimità costituzionale, mezzo sentenza e mezzo legge, come un centauro a cui manca però la proverbiale saggezza e la proverbiale sapienza.
Tuttavia persino più preoccupante può apparire la esibizione disinibita da parte della Corte di un stupefacente abuso di potere, dalla invasione di campo nei confronti del potere legislativo, allo stravolgimento di regole portanti del sistema penale, all’arbitrario adattamento su misura della stessa pronuncia alla situazione processuale di un particolare imputato.
Abbiamo visto infatti come, attraverso un percorso labirintico, venga introdotta surrettiziamente una causa di non punibilità che non è prevista dalla legge penale. Non soltanto si crea una nuova norma, ma la si crea in spregio ad un principio fondamentale. La materia penale è soggetta inderogabilmente alla riserva di legge. Riserva che riguarda ogni norma penale, sia quelle incriminatrici, sia quelle che prevedono cause di non punibilità. Dunque siamo di fronte al caso aberrante in cui la Corte Costituzionale non solo introduce una nuova norma al di fuori dei propri limiti istituzionali, ma lo fa in un campo riservato alla legge in senso stretto, legata alla procedura stabilita. L’abuso diventa dunque macroscopico.
Ma non basta. Poiché non si può ignorare l’esigenza, sempre avvertita fortemente dal retrivo codice Rocco, di preservare la vita individuale dall’arbitrio altrui, la Corte si preoccupa che la volontà del paziente sia libera e informata. Dunque niente di meglio, per stare tranquilli, che affidare il controllo sulla legittimità dell’aiuto al suicidio nientemeno che al servizio sanitario nazionale.
Non solo. Occorre anche chi controlli il controllore, e allora è bene ricorrere ad un Comitato etico territorialmente competente. Insomma, siccome l’appetito vien mangiando, non solo la Corte legifera con imperiosa sicurezza in materia penale, ma scrive anche i regolamenti di attuazione. E infine, ci si accorge che il povero Cappato rischia di non rientrare comunque nel nuovo paradigma assolutorio per via delle nuove condizioni introdotte dalla stessa Corte, e dunque tanta fatica argomentativa non riuscirebbe ancora a metterlo e in salvo.
Però, niente paura. I custodi della legittimità, hanno pronto l’escamotage: per le situazioni pregresse, è possibile usufruire comunque della non punibilità se la agevolazione al suicidio è stata prestata con garanzie “sostanzialmente equivalenti” a quelle escogitate dalla Corte per i casi futuri. Insomma, gli viene cucita addosso una norma speciale su misura. Ed è fatta.
Va osservato infine che, nel manipolare la legge penale, travolgendo di slancio il principio della riserva di legge insieme a quello della divisione dei poteri, la Corte pare anche ignorare che la fattispecie astratta esige di essere fissata in termini oggettivi e il più possibile incontrovertibili, in ossequio all’ulteriore principio della oggettività materiale. In materia penale tutti gli elementi che nella descrizione del fatto sono suscettibili di incerta individuazione aprono infatti la strada, come è noto, all’arbitrio del giudice. Ma anche questo pare non avere impegnato la sensibilità giuridica della Corte.
Insomma, possiamo affermare con soddisfazione che la fantasia creatrice dei nostri quindici uomini pare non trovare più ostacoli di sorta. Neppure quello del comune senso del pudore.
2 commenti su “Eutanasia: il Parlamento tace, la Corte Costituzionale agisce”
grazie Patrizia, come sempre… notavo che in fondo alla sala vi sono due carabinieri in alta uniforme, come da schema: tutte le istituzioni (che lavorano contro la morale creistiana) sono ormai blindate, persino protette da chi si effigia da corpo della Virgo fidelis.
Una pagina da manuale. Princìpi di diritto restano quelli citati, la riserva – assoluta – di legge, la separazione dei poteri dello Stato, la stretta legalità. Essi sono stati elaborati dalla scienza giuridica quali baluardo contro le derive totalitarie. Il diritto alla vita non è anacronistico, non è frutto di una ideologia, non corrisponde alla visione di un’epoca. Non sottende il fine di garantire “forza lavoro e cittadini alla Patria”. Nessuno mai, da Ipppocrate in poi, si è mai sognato di sostenere un simile assunto. Si parla di cure palliative solo nelle ultime pagine della sentenza, dopo i molteplici strazianti richiami ai deliberati contro la vita (su tutti, l’aborto). Ringrazio l’Avvocatura Generale dello Stato per il pregevolissimo intervento in punto di fatto e di diritto.